KIERKEGAARD

A cura di

LA MALATTIA MORTALE

A. CHE LA DISPERAZIONE SIA LA MALATTIA MORTALE - B. LA DISPERAZIONE È UNA MALATTIA NELLO SPIRITO NELL'IO, E COSÌ PUÒ ESSERE TRIPLICE: DISPERATAMENTE NON ESSERE CONSAPEVOLE DI AVERE UN IO (DISPERAZIONE IN SENSO IMPROPRIO); DISPERATAMENTE NON VOLER ESSERE SE STESSO; DISPERATAMENTE VOLER ESSERE SE STESSO. L' uomo è spirito. Ma che cos'è lo spirito? Lo spirito è l'io Ma che cos'è l'io? È un rapporto Che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l'io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. L'uomo è una sintesi dell'infinito e del finito, del temporale e dell'eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi. Una sintesi è un rapporto fra due elementi. Visto così l'uomo non è ancora un io. (S. Kierkegaard, La malattia mortale, Roma, Newton Compton)

Nell'opera La malattia mortale Kierkegaard riprende ed approfondisce il tema della disperazione. Abbiamo già visto ch'egli presenta la disperazione sia come l'elemento che caratterizza la vita dell'esteta, sia come la condizione che permette il salto dalla vita etica a quella religiosa. Si tratta di due aspetti, spiega il filosofo, di due facce dello stesso fenomeno. La disperazione, cioè, è sempre una negazione di sé, del proprio io; ma nel primo caso essa ha luogo in quanto l'uomo è sempre alla ricerca di se stesso, di un io che non coincide mai con quello che di volta in volta egli è, e che però egli non trova mai; nel secondo caso essa è rifiuto totale di sé, è quella rinuncia a sé che si traduce, sul piano della fede, nella assoluta autodonazione a Dio. Anche la disperazione dunque, come l'angoscia, caratterizza un rapporto: la seconda, quella del singolo con il mondo, la prima quella del singolo con se stesso. Infatti l'angoscia insorge al cospetto di quegli «infiniti possibili», e dell'«infinità del possibile» che il mondo rappresenta per l'uomo; la disperazione nasce invece di fronte a quella radicale incognita che è il proprio io. Due sono i possibili modi di relazionarsi a se stesso; uno è quello di accettare di essere se stesso, l'altro è quello di rifiutare di essere se stesso; ma la disperazione si verifica in entrambi i casi, sia quando l'uomo vuole essere se stesso, sia quando non vuole assolutamente essere se stesso, cioè quando egli rinnega totalmente se stesso, quello che è e quello che potrebbe essere. Nel primo caso il singolo si dispera perché vuole ma non riesce a trovare se stesso nei vari possibili, in quanto tutte le possibilità di essere se stesso si rivelano insufficienti e inadeguate. Nel secondo caso egli si dispera quando percepisce che non c'è piú alcuna possibilità di trovare il vero se stesso, e vi rinuncia; e vorrebbe semplicemente distruggere se stesso senza potervi riuscire. Questa seconda è dunque la forma piena, totale, della disperazione; è quella che Kierkegaard chiama malattia mortale.
Cadere nella malattia mortale è non poter morire; ma non come se ci fosse la speranza della vita; l'assenza di ogni speranza significa qui che non c'è nemmeno l'ultima speranza, quella della morte. Quando il maggior pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce un pericolo ancora piú terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è cosí grande che la morte è divenuta la speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancare la speranza di poter morire. In quest'ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione penosa ... di morire eternamente, di morire e tuttavia di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, sperimentare il morire. (La malattia mortale)
Questa disperazione è la porta della fede.

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