Kierkegaard (Copenhagen, 1813-1855)

Di Emanuela Catalano

 

 

Il pensiero di Kierkegaard rappresenta una prima significativa polemica nei confronti della filosofia allora imperante, vale a dire l’idealismo hegeliano (polemizzando contro l’universalità dello Spirito pone la difesa della singolarità dell’uomo unico ed irripetibile; all’astratta ragione hegeliana oppone il reale, l’esistenza; alla necessità la possibilità; alla sintesi conciliatrice della dialettica, l’impossibilità di conciliare le alternative). In particolar modo, focalizzeremo la nostra attenzione sulla nozione di esistenza intesa come possibilità, sul carattere paralizzante e negativo di quest’ultima, data l’indecisione permanente (che egli chiama “punto zero”) e l’impossibilità di scegliere tra le alternative possibili.

Tenteremo in quanto segue di esporre brevemente quel tragitto che dai concetti di angoscia e disperazione giunge all’affermazione del paradosso, vale a dire della FEDE. Solo nel Cristianesimo, Kierkegaard intravide un’ancora di salvezza, un modo per sottrarre l’uomo all’angoscia (intesa come puro sentimento del possibile) e alla disperazione (rapporto dell’uomo con se stesso), costitutive dell’esistenza stessa. A tal proposito, emblematica è la vicenda di Abramo, vissuto per settant’anni nel rispetto assoluto del codice morale, il quale ad un certo punto riceve da Dio l’ordine di uccidere Isacco e di infrangere così la legge per la quale era vissuto sino a quell’istante, un ordine in contrasto non solo con la legge morale ma anche con l’affetto naturale e che nessuna giustificazione trova presso i suoi familiari. Un uomo nei confronti del quale Kierkegaard ha sempre sostenuto di provare spavento, pur manifestandogli al contempo tutta la sua ammirazione. Analizzeremo l’opera in questione, Timore e tremore, pubblicata nel 1843[1]. Scrive Kierkegaard nei suoi Diari a proposito di quest’opera: “Dopo la mia morte, si vedrà che basta quest’opera per rendere immortale un nome di scrittore, si inorridirà per il tremendo pathos che contiene”. In realtà, si tratta di un testo di altissima tensione spirituale, di immane levatura morale ed intellettuale. Per quale motivo riproporre oggi una simile opera? Anzitutto perché un testo non è mai desueto, per quanto lontano possa apparire, perché ha sempre qualcosa da dirci, ci parla, ci interpella, e secondariamente perché oggigiorno ì si è soliti credere di aver perduto irrimediabilmente il senso di quella fede che animò nei secoli alcuni fra gli spiriti più illustri, alcuni dei quali hanno perso la vita in suo nome, mentre altri si sono marchiati d’infamia, hanno combattuto, lottato per o contro di essa. Dopo Nietzsche e la trasvalutazione di tutti i valori, è diventato ineludibile soffermarci su questo punto, indugiare ed interrogarci sul senso di QUELLA fede, su un gesto così radicale – come quello di Abramo per l’appunto – che agli occhi di noi contemporanei appare totalmente al di là di ogni intendimento, esula dalla logica, dal buon senso, da qualsiasi spiegazione razionalmente plausibile. Percepiamo che l’evento in questione, nel quale sono coinvolti i protagonisti della singolare vicenda, è “al di là delle parole, forse anche della comprensione” per dirla con Elie Wiesel[2]. Di qui la necessità di tornare a rivisitare il testo di K. che, lungi dall’essere lettera morta, ha ancora qualcosa da rivelarci e non è possibile sottrarsi alla sua chiamata. K. è uno tra i pensatori più rilevanti e significativi al riguardo che si sono cimentati in questa impresa di interpretazione del gesto di Abramo.

Lo STATO D’ANIMO è quello esistenziale, all’interno del quale si aprono le varie possibilità, dentro cui si staglia la fede di Abramo. Quattro sono le possibili alternative contemplate da Kierkegaard nel caso Abramo non avesse avuto la fede:

·       Abramo preferisce che il figlio lo creda un mostro piuttosto che perda la fede in Dio (pag.8). Non sapendo in che modo la vicenda si sarebbe conclusa (un angelo venuto dal cielo gli intimò di “non stendere la mano contro il ragazzo, e non fargli alcun male”), mosso da compassione per il figlio e credendo che veramente egli sarebbe perito per mano sua, Abramo preferisce salvare la fede di Isacco prima della sua vita.

·       Abramo perse la gioia per sempre (pag.9).

·       Abramo prega Dio di volerlo perdonare per aver voluto sacrificare il figlio (pp.9-10).

·       Isacco perde la fede senza che il padre se ne accorga (pag.10).

PANEGIRICO DI ABRAMO

Viene qui scandagliato il rapporto fra il tempo cronologico, la possibilità e la forza della fede (pag.15). Abramo credette, credette l’assurdo, credette per questa vita (pp.16-20).

PROBLEMATA

Il segreto del dramma è l’angoscia di Abramo di fronte alla determinazione religiosa (il sacrificio), che richiede la decisione della fede (pag.22). Dal punto di vista etico, la sua condotta si esprime dicendo che egli volle uccidere Isacco (pag.24); ma dal punto di vista religioso che volle piuttosto sacrificarlo. È solo con la fede che si ottiene la somiglianza con Abramo. Abramo credette nell’impossibile: Dio è colui al quale tutto è possibile; la fede perciò è scandalo e paradosso (pag.29) (pag.46), ma Abramo ciononostante credette che gli potesse essere restituito ciò a cui rinunciava (vale a dire la vita di suo figlio). Si crede cioè in ciò che, secondo la pura razionalità, è l’assurdo.

PROBLEMATA 1

Si dà sospensione teleologica dell’etica? La risposta a tale domanda è affermativa.

La fede è inaudito paradosso: la seconda parte del testo intende ricavare la dialettica della fede, la quale trasforma ciò che sul piano morale è un delitto in un atto santo e gradito a Dio.

Nel rapporto Individuo/Generale si configura la connotazione della fede: la morale (pag.46) esige che ciò che è individuale si risolva nel generale. Per la fede, l’individuo si pone al di sopra del generale (pag.48), in un rapporto assoluto con l’Assoluto. La fede pertanto non è integrabile con il sistema: è scandalo per la ragione! (pag.51) Egli si erge al di sopra della morale. La fede è horror religiosus: non si può piangere di fronte alla fede di Abramo: essa è timore e tremore per l’appunto (pp.53-58).

PROBLEMATA 2

Esiste un dovere assoluto verso Dio?

Abramo si erge al di sopra della sfera etica, ne ha varcato tutti i confini, il suo telos è più in alto. Sorge una nuova categoria: il dovere come espressione della volontà di Dio. Per Kierkegaard, che critica la filosofia hegeliana, l’Interiore (das Innere), vale a dire il divenire soggettivo, è superiore all’esteriore (das Aussere) (pag.59) (pag.64). La morale non è abolita ma riceve i connotati del paradosso, che non si presta ad essere mediato. Di fronte a questa terribile responsabilità, il cavaliere della fede deve rinunciare al generale per diventare il Singolo, in virtù dell’assurdo, e non può chiedere aiuto a nessuna mediazione, nemmeno a quella della Chiesa: egli è completamente solo. Da qui il carattere incerto e rischioso della vita religiosa (pag.70 Aut-aut).

PROBLEMATA 3

Dal punto di vista etico, come si può giustificare il silenzio di Abramo con Sara, Isacco ed Eliezer? (pag.71)

Il pathos è il protagonista delle ultime pagine (pp.98-99). Nel silenzio di Abramo, Kierkegaard vede configurato il silenzio della fede, un silenzio fatto di angoscia e di sofferenza che si nutre della terribile responsabilità della solitudine (pag.104). Dunque per concludere possiamo citare il titolo di un’altra sua grande opera: Aut-aut. O esiste il paradosso di un singolo che sta in rapporto assoluto con l’Assoluto, oppure Abramo è perduto per sempre.

Dopo aver promesso ad Abramo una discendenza “numerosa quanto le stelle del cielo, come la sabbia sul lido del mare” (Gen 15,5), Dio lo mise alla prova (pag.16). Prova alla quale egli rispose con un “eccomi!” [hinneni].  Derrida, a tal proposito, così commenta l’atto di assoluta obbedienza, l’estrema sottomissione di Abramo: “Eccomi”: la prima e sola risposta possibile alla chiamata dell’altro, il momento originario della responsabilità in quanto mi espone all’altro singolare, colui che mi chiama[3].

In siffatta occasione, Abramo non pianse, non ebbe un attimo di esitazione e nulla chiese ad un Dio che palesemente si contraddiceva. In sfregio al pensiero greco-occidentale, egli non si mise a discutere, non chiese il perché, le motivazioni che spingevano Jahvé ad una simile richiesta, non intercesse per il figlio come aveva fatto per gli abitanti di Sodoma. Contrariamente ad ogni logica ed ogni buon senso, si sottomise semplicemente alla sua volontà. L’uomo di fede, il credente, ragiona come Abramo: accetta l’istanza religiosa a costo di mettersi contro la norma morale, contro la generalità degli uomini. Tra le due sfere non c’è passaggio, gradualità, continuità bensì salto, rottura, totale impossibilità di conciliazione (polemica con Hegel).

“Mantenendo tale segreto, egli di fatto tradisce l’etica ed assume su di sé quella responsabilità che coincide nell’essere sempre solo e trincerato nella propria singolarità al momento della decisione, poiché nessuno può prendere una decisione al mio posto”. Per questa ragione l’istante della decisione è follia.

Prosegue Derrida (pp.92-93): “L’altro non deve darci alcuna ragione, né renderci conto di nulla, non deve condividere le sue ragioni con noi […]. Questo Dio nascosto, segreto, separato, assente o misterioso, decide senza rivelare le proprie ragioni, esige da Abramo il gesto più crudele ed impossibile, il più insostenibile. Tutto accade in segreto”.

Un puro dono, per esser veramente tale, dev’essere gratuito, incondizionato, non prevede nulla in cambio, nemmeno gratitudine: non si attende il contraccambio. Eppure Dio volle che Abramo gli restituisse Isacco, l’essere che più amava, ciò che di più caro aveva al mondo. Quale Dio può esigere un simile sacrificio? Come poteva Jahvé esigere un tale sacrificio, che Abramo gli restituisse l’unico figlio che aveva avuto in dono proprio da lui, che glielo restituisse e per di più in olocausto? Non dimentichiamo che non siamo ancora in presenza del Dio di amore, giustizia, bontà, compassione del Nuovo Testamento: Jahvé è un Dio dai tratti terribili, geloso, iracondo, possessivo, un Dio di vendetta con caratteristiche tutte umane, troppo umane per dirla con Nietzsche. E che tipo di prova era mai quella? “Ingiungendogli di sacrificare suo figlio, di dare la morte a suo figlio, Dio lo lascia libero di rifiutare. Questa è la prova”. In questa sua presunta “possibilità di scelta” Dio lo lascia libero di rifiutare: Derrida ravvisa in questo punto tutta la portata dirompente della prova. Questa prova è definita tradizionalmente dall’esegesi biblica come la più drammatica cui fu sottoposto il patriarca e con la quale Dio avrebbe voluto un’estrema dimostrazione di obbedienza. Dio mise alla prova Abramo, ordinandogli di condurre suo figlio in sacrificio, e dunque le sue speranze per il futuro, così come la sua fede nella promessa divina. Filone alessandrino interpreta il gesto di Abramo come espressione suprema dell’amore verso il suo Dio mentre Maimonide ritiene che quest’episodio sia servito a far comprendere al mondo a quale grado di amore e di rispetto verso Dio l’uomo deve aspirare.

Questo racconto è – ad avviso di Kierkegaard – paradigmatico dell’esperienza di fede, fede per la quale l’uomo si spoglia di tutti i suoi attributi, le sue logiche, i tradizionali meccanismi di pensiero e ragionamenti per sperimentare l’assurdo e inaudito paradosso che la fede ci pone davanti. Che cosa avrebbe dovuto fare Abramo? Era giusto – eticamente – che corrispondesse agli obblighi di padre e proteggesse il figlio? Oppure che ascoltasse l’unico Dio al quale in realtà doveva obbedienza? Dio conosce l’esito della storia, ma l’uomo non lo conosce. Avviene dunque una sorta di scissione tra la sfera intima, privata, alla quale ogni uomo è chiamato a rispondere nei confronti di se stesso e quella che è l’ingiunzione di Dio. Un simile sacrificio di fatto avrebbe destituito di senso la vita di Abramo, che si basava sulla promessa che sarebbe stato il padre di un’intera nazione.

“Abramo deve sacrificare quello che ama […] Bisogna che Abramo ami assolutamente suo figlio per giungere a dargli la morte, a fare ciò che l’etica definisce odio e omicidio”. Si tratta qui del contrasto tra due imperativi, la legge morale dentro di sé, il dovere del padre che esigerebbe l’amore incondizionato per il figlio ed il dovere di prestare obbedienza assoluta all’unico Dio, in quel vincolo di assoluta fedeltà che lo lega indissolubilmente a Lui. Quello che più sgomenta e sconcerta in questa storia, oltre al silenzio e all’angoscia dell’incertezza di Abramo, è la solitudine dei personaggi, i quali rimangono soli, come può esserlo soltanto chi sta per confrontarsi con la morte, o chi sta per infliggerla. È una storia di infinita solitudine. Il credente ragiona in modo diverso dalla maggioranza, va avanti senza domandare dove va, senza calcolo, senza prevedere nulla. Dal punto di vista morale, la sua condotta si esprime dicendo che volle uccidere Isacco, da quello religioso che volle sacrificarlo. La logica vorrebbe che Abramo avesse implorato il suo Dio di risparmiare Isacco, ma non lo fece, forse perché credeva nella sua bontà e giustizia e sapeva che il figlio non sarebbe morto sull’altare (pag.18), forse Dio voleva innalzarlo a simbolo, esempio di fronte agli altri popoli per la sua fede illimitata.

Kierkegaard conclude con una definizione sublime di fede, là dove la fede per lui è quell’inaudito paradosso, un salto nell’oscuro, nell’incerto, nel vuoto, dinanzi al quale l’uomo non può che sperimentare l’abisso del nulla (pag.46). La fede è in definitiva scandalo per la ragione. Essa inizia là dove la ragione finisce.

Ed il fatto che Abramo fosse disposto a sacrificare Isacco costituisce il paradigma di una fede  che supera e trascende tutti i legami naturali, una fede che viene descritta come “rapporto privato tra l’individuo e l’assoluto”. Al di là del racconto per noi appena concepibile (o forse molto più attuale e all’ordine del giorno di quanto si credi) nella storia di un padre disposto a dare la morte al suo amato figliolo solo perché l’altro – il grande Altro – glielo ordina senza dargli la benché minima ragione, ciò che colpisce è l’angoscia e la drammaticità del silenzio, la solitudine di Abramo, che credette, credette l’assurdo, o l’impossibile per citare Tertulliano (credo quia absurdum) e proprio per questo si vide restituito ciò a cui stava per rinunciare, al di là di ogni attesa, di ogni aspettativa, di ogni previsione. L’uomo è perciò posto dinanzi ad un bivio: si tratta in definitiva di scegliere, se credere o non credere. Da un lato, è lui che deve scegliere, ma dall’altro è colui al quale ogni possibilità di scelta è preclusa dal momento che Dio stesso ha già predisposto tutto e da Lui deriva anche la fede. La vita religiosa si esplica all’insegna di questa contraddizione insanabile e inesplicabile: la vita stessa è caratterizzata da questa contraddizione, la fede crede nonostante tutto e si assume tutti i rischi. È per questa ragione che Kierkegaard ravvisa proprio nel Cristianesimo la possibilità stessa dell’esistenza con tutte le caratteristiche che questa comporta, scandalo, paradosso, impossibilità di decidere, dubbio ed angoscia.



[1] L’edizione alla quale faremo riferimento è quella curata da F. Fortini e K. Montanari Guldbrandsen, Mondadori, Milano 1991.

[2] Vedi E. Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud, Bompiani, Bologna 2004, p. 3.

[3] Vedi J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002, pag.105.



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