KIERKEGAARD

A cura di

POSTILLE NON SCIENTIFICHE

Alle Briciole seguirà nel '46 la monumentale Postilla conclusiva non scientifica. A partire da questo volume (che secondo Kierkegaard doveva essere un'antitesi alla Logica di Hegel), Kierkegaard si lamenta di non avere più un interlocutore. Nelle Briciole, infatti, il "re senza terra", lo "scrittore senza pretese" -come si autodefinisce nel Concetto dell'angoscia) crede ancora nel valore di un pubblico riconoscimento della sua produzione letteraria. Ma nella Prefazione della Postilla -visto il pessimo risultato editoriale delle Briciole- cambia completamente parere, chiarendo anzi che la celebrità è un grave impedimento alla realizzazione del suo ideale religioso. Così pure afferma nel discorso edificante Vangelo delle sofferenze, edito sempre nel '46, ove esalta la figura di Giobbe. Tuttavia, i fatti successivi al '48 dimostreranno che Kierkegaard non era affatto alieno dal desiderare una pubblica notorietà. Con la Postilla -di cui riuscirà a vendere solo 50 copie- l'intenzione di Kierkegaard era quella di concludere la sua attività di scrittore: lo attesta il fatto che con essa egli fa un bilancio di tutta la sua precedente produzione letteraria, rivelando al pubblico, che peraltro già lo sapeva, chi si celava dietro i diversi pseudonimi usati per i suoi libri. A chiudere tale attività l'aveva indotto anche la polemica con la rivista satirica Il corsaro, che lo prese in giro per diversi mesi, facendo colpo sul pubblico. Il giornale venne chiuso dal governo e il direttore espulso dal paese per "indegnità morale", ma Kierkegaard se ne risentì profondamente, anche perché pochissimi avevano preso le sue difese. Egli aveva sopportato gli scherni perché così gli sembrava di adempiere al compito di testimoniare una verità religiosa, ma ciò non era avvenuto senza profondi drammi personali. Nella vita di Kierkegaard gli avvenimenti esteriori sono molto pochi ma, a causa del suo autoisolamento, essi venivano ad acquistare un'importanza eccezionale per la sua coscienza. Kierkegaard voleva essere uno scrittore per il popolo, o meglio per i molti singoli della società: Il corsaro invece aveva capito ch'egli altro non era che uno "scrittore per scrittori", cioè un'individualità astratta, isolata, con pretese sproporzionate rispetto alle sue forze. Nella Postilla comunque il disprezzo per la socialità raggiunge forme di particolare conservatorismo filo-monarchico. Kierkegaard teme chiaramente le idee liberali, democratiche e socialiste. Tuttavia, nella Postilla la rottura col pubblico non è così esacerbata come lo sarà nella Malattia mortale e nell'Esercizio del cristianesimo. Forse perché la sua posizione esistenziale restava, in ultima istanza, ancora troppo poco determinata: lui stesso la definisce "umoristica". "Climacus" (lo pseudonimo scelto per i due volumi di filosofia) è un "umorista privatista", cioè un intellettuale indifferente alle vicende della vita, è un "poeta", "senza autorità", senza essere seguace di alcun partito, ha solo il senso del "comico" (che è tipico delle nature malinconiche) e scrive per il gusto di scrivere, senza sentirsi coinvolto sino in fondo in quello che dice. La sua preoccupazione è quella di porre il problema di come vivere il cristianesimo, non è quella di dimostrare come vada vissuto concretamente. "Climacus" non è cristiano ma è impegnato a diventarlo. La Postilla vuole anzitutto essere un testo anti-hegeliano. Essa rappresenta il tentativo di fare del cristianesimo un'esigenza personale, non solo l'oggetto di una speculazione intellettuale. In questo senso la filosofia di Kierkegaard è sempre una filosofia religiosa o della religione. Ciò che più gli interessa non è il problema "oggettivo" della verità, cioè non gli interessa discutere sulla verità oggettiva del cristianesimo, poiché questa verità egli la dà per scontata. Il problema per lui è dimostrare soggettivamente il valore di questa verità. La speculazione, le prove ontologiche dell'esistenza di Dio, la tradizione, la Bibbia, la considerazione storica...: tutto ciò o è tautologico (in quanto non dimostra soggettivamente ciò in cui dice di credere oggettivamente) o è ipocrisia (in quanto dice il contrario di quello che vive, di quello che è la realtà). L'oggettività o è falsa o non serve, in quanto non può provare nulla. Per Kierkegaard è definitivamente tramontato il tempo in cui il cristiano può considerarsi tale solo perché dice di credere nelle verità di fede della chiesa. La sua propria religiosità deve dimostrarla nei fatti, coll'atteggiamento personale. Tuttavia nella Postilla Kierkegaard arriva a tale consapevolezza solo a livello teoretico, con l'affermazione principale che "la verità è la soggettività", che vuol dire: solo nel modo come il soggetto vive la verità si può comprendere se questa verità è per lui autentica, genuina, profonda. Il criterio della verità è la pratica della verità stessa. Questa pratica per Kierkegaard è eminentemente religiosa. La fede è quella forma di interiorità (destinata a esplicitarsi in un giudizio di condanna della cristianità stabilita) che non si lascia oggettivare da alcunché. La soggettività infatti è la sola realtà che Kierkegaard sia disposto ad ammettere. Nel Vangelo delle sofferenze (1846) Kierkegaard fa coincidere espressamente "interiorità" con "sofferenza". Cioè la sofferenza è il criterio della verità: senza pathos una qualunque verità è astratta, non edificante. In particolare nel Vangelo delle sofferenze il singolo-Giobbe soffre da innocente davanti a Dio, pur pensando, umilmente, d'essere colpevole, poiché davanti a Dio l'uomo ha sempre torto. Kierkegaard dunque sa di non aver nulla da rimproverarsi davanti agli uomini, in quanto l'esteriorità della Chiesa trionfante è chiaramente per lui una falsità.

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