PIERRE KLOSSOWSKI

 

 

A cura di Fabrizio Cerroni

 

 

 

LA VITA E LE OPERE

 

Pierre Klossowski è stato romanziere, filosofo, disegnatore, saggista, pittore, e cineasta.

PIERRE KLOSSOWSKINasce Parigi nel 1905 da genitori polacchi. Fratello del pittore Balthus (il cui vero nome era Balthazar Klossowski) durante l’infanzia, il suo mentore fu Rainer Maria Rilke (compagno della madre di Klossowski dopo la separazione di questa dal padre). Dal 1920, lo stesso ruolo fu svolto da André Gide, per il quale Klossowski lavorò come segretario e curatore de I Falsari. Nella sua opera, Klossowski cercò sempre di unire queste due profonde influenze.

A partire dagli anni ’30 il Marchese de Sade, insieme a Nietzsche, divenne il suo maître à penser, affinità condivisa con surrealisti come Robert Desnos, Paul Eluard, e Georges Bataille; ma mutata d’accento, giacché, a differenza di questi, Klossowski è sempre stato interessato alle implicazioni filosofiche della pornografia sadiana, piuttosto che alle violenze ed agli eccessi da cui questa è caratterizzata.

In questo periodo inizia la propria attività di traduttore che continuerà negli anni successive. Tradurrà opere di Hölderlin (poema della follia, 1928), Hamann (meditazioni bibliche, 1948), Virgilio (Eneide, 1964), Svetonio (La vita dei dodici Cesari, 1959), Tertulliano, Virgilio, Nietzsche (La gaia scienza, 1954, ed i frammenti dell’ultimo periodo), Heidegger (Nietzsche, 1971), Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, 1961).

Negli stessi anni Klossowski è vicino al Fronte Popolare, e pertanto interessato alla possibilità di utilizzo dell’arte per propaganda politica. Quest’impegno insieme al fascino per il ruolo delle nuove tecnologie nell’arte, lo portarono a stringere amicizia con Walter Benjamin, ed a tradurre in francese un saggio di quest’ultimo sul ruolo dell’arte negli anni della riproduzione meccanica.

Nel 1935, dopo aver frequentato la Scuola Psicoanalitica di Parigi, la cui rivista pubblica i suoi primi saggi su Sade, incontra Georges Bataille con il quale nasce una forte amicizia. È Sotto lo stimolo di Bataille che Klossowski prende contatti con André Breton e Maurice Heine, nel gruppo di Contre-Attaque, e che più tardi parteciperà alla rivista Acéphale.

Nel 1939, un crescente interesse per la teologia, unito ad una montante avversione per la politica, lo portarono ad unirsi all’ordine dominicano di La Lesse. Durante l’occupazione, intraprende degli studi di scolastica e teologia alla facoltà domenicana di Saint-Maximin, successivamente a Lione, ed infine all’Istituto cattolico di Parigi. Svolge inoltre attività di recensore e di critico, pubblicando lavori su Gide, Kafka, Nietzsche, Kirkegaard, Bataille, Blanchot, Barbey d’Aurevilly. Nel frattempo lavora come cappellano nel campo di internamento per prigionieri politici di Vichy, ed entra in contatto con la Resistenza. Nel 1944 formò, insieme ad altri intellettuali, il gruppo Dieu vivant, per riflettere sulle questioni morali poste dall’occupazione.

Nel 1947 ritornato laico, si sposa e pubblica Sade prossimo mio ( Sade mon prochain). In questo periodo partecipa al movimento esistenzialista pubblicando alcuni articoli nella rivista diretta da Sartre, Les Temps Modernes.

La sua attività di romanziere comincia nel 1950 con il romanzo La vocazione sospesa (La Vocation suspendue), trasposizione letteraria della sua crisi religiosa. Ma le sue opere più importanti sono quelle successive, a cominciare da Roberta questa sera (Roberte ce soir), del 1953, il cui personaggio principale, Roberte, alter ego della moglie Denise, comparirà come segno unico in molti altri romanzi. La novella racconta la storia di Octave, che concede la moglie ai propri ospiti, appositamente invitati, per trarne piacere voyeuristico, e conoscere i lati nascosti della propria consorte. Si tratta, dunque, di un romanzo erotico, al limite tra l’invenzione narrativa e la speculazione filosofica. Carattere limitare che sarà mantenuto in tutte le novelle successive.

Tale novella sarà molto apprezzata dalla critica, come mostrano gli esempi di Blanchot e Gilles Deleuze, con il quale nascerà una profonda amicizia. Essa sarà completata da altre due novelle, che ne condividono personaggi e situazioni: La revoca dell’editto di Nantes (La révocation de l’édit de Nantes) del 1959, ed Il suggeritore (Le souffler) del 1960. Queste tre opere furono riunite nel 1965 in un unico volume dal titolo: Le leggi dell’ospitalità (Les lois de l’hospitalité); nel quale, su richiesta dell’autore, lo scritto, che in ordine cronologico è il secondo, venne inserito per primo.

L’altro frutto di quest’attività di narratore fu Il Bafometto (Le Baphomet) del 1965 che trasforma in mito la leggenda dei Templari e la trasferisce in un turbinoso regno di spiriti.

A partire dal 1975 Klossowski abbandona la sua attività di scrittore per dedicarsi esclusivamente alle arti visive: pittura e fotografia. Se già in passato aveva elaborato dei disegni per contornare le sue opere letterarie, ed aveva esposto alcuni quadri, si verifica ora il completo passaggio dalla parola all’immagine, «dallo speculativo allo speculare» per utilizzare la sua espressione. Ciò coerentemente con la sua opera filosofica, nella quale denuncia la falsificazione che «il codice dei segni quotidiani» opera dell’esperienza, attraverso la sua funzione di mediazione; e ad essa oppone la rassomiglianza rispetto alla realtà dell’immagine immediata.

Quanto alla fotografia Klossowski inizia collaborando con Pierre Zucca lavorando ad una versione illustrata de La moneta vivente, successivamente nella realizzazione cinematografica delle sue novelle, operata inizialmente dallo stesso Zucca e successivamente da Raoul Ruiz.

Quanto alla pittura, il cui carattere erotico non è meno pronunciato che nei romanzi, si è dapprima accompagnata ad i suoi romanzi, fornendo dei tableaux-vivants delle scene più importanti; successivamente (come detto dal 1975), è stata per più di vent’anni attività esclusiva di Klossowski. Dopo la prima esposizione privata nel 1956, a partire dal 1967 le sue opere saranno esposte, oltre che a Parigi, in tutto il mondo: Genova, Roma, Milano, Torino, Anversa, Messico, ecc. ottenendo un successo ed un riconoscimento della critica crescenti.

Il suo pensiero filosofico ha trovato espressione: nel già ricordato Sade prossimo mio; nel saggio il Bagno di Diana (La Bain de Diane) del 1956, analisi del mito di Diana e Atteone; Un così funesto desiderio (Un si funeste désir) del 1963, nel quale sono raccolti alcuni acuti saggi su Gide, Nietzsche, Barbey d’Aurevilly, ecc.; La moneta vivente (La mannaie vivante) del 1970. Ma la sua opera filosofica più importante è Nietzsche e il circolo vizioso (Nietzsche et le cercle vicieux) del 1969, nella quale non solo Klossowski dà un’interpretazione originale del pensiero di Nietzsche, ma, inoltre, attraverso di esso fornisce una lettura critica della cultura occidentale.

Grazie a queste opere è introdotto nel dibattito filosofico il concetto di simulacro, con un significato sfuggente a qualsiasi codificazione, destinato ad avere grande seguito nel pensiero francese degli anni sessanta e settanta; in particolare nel pensiero di Deleuze e Baudrillard.

Klossowski muore a Parigi il 12 Agosto del 2001, all’età di ottantasei anni, pochi mesi dopo la morte del fratello Balthus.

 

 

BREVE SINTESI DEL PENSIERO

 

Pierre Klossowski si definiva monomane ed inventore di simulacri. Nel suo pensiero la prospettiva ateologica della morte di dio si lega alla filosofia della differenza. Giacché dio è il garante dell’io, la fine della trascendenza fa venir meno anche il principio di identità.

Tuttavia l’identità è ancora resa possibile dal codice dei segni quotidiani, ossia il linguaggio. La filosofia della differenza di Klossowski si esprime allora in una critica del linguaggio istituzionale, il quale consente l’annullamento dell’alterità attraverso la dialettica speculativa. La priorità data al logos nella cultura occidentale, consente la supremazia della parola sull’esperienza, attraverso la quale la parola si costituisce come stereotipo.

Il linguaggio si costituisce come verità, occultando l’indicibile, ossia il fondo impulsionale, in cui si esprimono le forze pulsionali che abitano l’individuo, e che sono prive di senso, scopo ed intenzione. Il linguaggio falsifica la realtà imponendo un’identità fittizia che dissimula la differenza ontologica dell’individuo. Si configura una ragione contro la quale l’arma migliore è la parodia.

Per queste ragioni è necessario un passaggio dallo speculativo allo speculare, ossia all’immaginario. L’immagine crea un rapporto di rassomiglianza con il reale, che lascia sussistere l’indicibile, rinviando ad esso attraverso il segno unico.

Prima che l’impulso sia deformato dall’interpretazione dell’intelletto (mezzo dell’identità), esso si esprime nel fantasma. Anche il fantasma però è sottoposto ad interpretazione, e quindi deformato dall’intelletto. Si configura quindi il problema dei rapporti tra fantasma ed ambiente istituzionale, problema centrale nel pensiero di Klossowski. Questione che egli affronta attraverso il concetto di simulacro, destinato ad un largo seguito nel pensiero francese. Il simulacro è il corrispettivo del fantasma: «Il simulacro non è il prodotto del fantasma, bensì la sua ingegnosa riproduzione» (Klossowski, Nietzsche e il Circolo Vizioso).

Nel mondo contemporaneo il simulacro sostituisce il principio di realtà con il dominio della simulazione, cosicché l’individuo non incontra mai un’esperienza autentica, ma riproduzioni di una realtà assente. Tante copie senza originale. Tutto è falsificato, l’umanità abbandona il tempo storico per entrare nel tempo del mito.

 

 

DALLO SPECULATIVO ALLO SPECULARE

 

Il pensiero filosofico di Klossowski si caratterizza per una radicale critica del linguaggio istituito. La sua funzione di mediazione è alla base della dialettica speculativa che, da Platone ad Hegel, annulla la differenza. Nella sua attività di artista questa sfiducia è alla base della decisione di abbandonare le “opere di linguaggio” per dedicarsi esclusivamente alla pittura.

Si delinea così una critica del pensiero occidentale, incentrato sul primato del logos sull’esistenza che porta ad «una svalorizzazione dell’esistenza mediante una parola che, separata dall’esistenza, prende il posto dell’esistenza» (Klossowski, Le Langage, Le Silence et Le Communisme). La parola, separata dall’esperienza, diventa stereotipo.

Attraverso la mediazione linguistica si costituisce l’identità, falsificazione della realtà psichica abitata da una pluralità di forze differenti, irriducibili all’unità. Questo fondo impulsionale è inscambiabile, pertanto non si può esprimere a parole, ma nell’immediatezza dell’emozione derivante dalla visione ossessionante.

In tale visione si esprime l’immaginario o speculare. La relazione dell’immaginario con il reale è quella della rassomiglianza, al fondo della quale sussiste un dato irrappresentabile. L’immaginario si contrappone alla contraffazione del linguaggio. «L’immagine era per me un condensato di esperienza incomunicata. Nessun contenuto di esperienza si può comunicare se non in virtù dei solchi concettuali scavati dal codice dei segni quotidiani. E, inversamente, questo codice dei segni quotidiani censura ogni contenuto di esperienza» (Klossowski, Je Me Fait Sous La Dictée de L’Image).

L’immagine è concepita come alternativa rispetto alla violenza dell’interpretazione imposta dal linguaggio. Allo speculare è collegata l’emozione che nella coscienza si distingue dalla parola. Nell’ambito dello speculare il segno si configura come segno unico, ossia come immagine che rinvia all’incomunicabile mediante la sua rassomiglianza con esso.

Il linguaggio occulta la pluralità delle forze impulsionali che abitano la psiche, rispetto alle quali Klossowski concepisce una nuova coerenza, basata sempre sul codice dei segni quotidiani, ma che invece di porre questo come verità negando l’incomunicabile, rimanda costantemente alle ineffabili forze impulsionali che lo determinano. L’identità diventa così incoerenza nei confronti delle forze impulsionali la cui intensità configura il supporto (l’io), il quale le occulta per difendere la sua coerenza con l’intelletto, che rispetto a tali forze costituisce la forza repressiva.

Il venir meno dell’identità permette all’individuo di costituirsi nella discontinuità, intesa come discorso che non giunge a compimento, impedendo al pensiero di costituirsi come strumento di dominio, il quale è invece consentito dalla continuità del codice dei segni quotidiani. Questo processo porta al passaggio dalla coscienza dell’identità alla coscienza della forza, nella quale la soggettività non viene meno, ma insieme ad essa trova espressione l’energia delle forze impulsionali. Questa espressione si realizza attraverso il gesto muto, il quale costituisce un termine medio tra linguaggio istituzionale ed idioma corporale, poiché è capace sia di essere ricondotto nella designazione, sia di esprimere l’indicibile che ad essa sfugge. Il gesto muto si trova in stretto rapporto con lo speculare, rapporto reso possibile dall’esistenza di un quadro preliminare, nel quale le forze impulsionali si articolano in una visione, in un’immediatezza originaria rispetto alla concettualità. Questo quadro concettuale è anche alla base della rassomiglianza.

Klossowski propone, dunque, un passaggio “dallo speculativo allo speculare”, in cui il tradizionale primato della parola sull’esperienza viene invertito in favore di un realismo nell’ambito del quale si possa accedere all’indicibile dell’emozione. In questo modo diventa possibile per l’individuo porsi di fronte all’alterità, la quale è invece negata dalla dialettica speculativa che costituisce il tratto distintivo della filosofia occidentale. Questo riconoscimento dell’alterità è resa possibile dal simulacro che imita la differenza, sostituendo la rassomiglianza all’imitazione. Si realizza così il riconoscimento della differenza, ossia l’etica.

 

 

 

 

KIERKEGAARD CON NIETZSCHE

 

Lo scritto principale di Klossowski dedicato a Kierkegaard è il “Don Juan Selon Kierkegaard” .

Tale scritto è dedicato in particolare all’analisi di un’opera del filosofo danese: “Gli Stadi Erotici Immediati ovvero Il Musicale Erotico”, pubblicata in Enten-Eller tomo I. Testo basato sull’idea che l’immediato erotico o «genialità sensuale» essendo «forza, respiro, insofferenza, passione» non possa trovare espressione nel linguaggio, medium della riflessione, ma si manifesti solo nella musica.

L’immediato erotico è il desiderio forte ed infinito, impersonificato, secondo Kierkegaard, dal Don Giovanni di Mozart.

Il suo carattere immediato deriva dal suo essere senza scopo, essendo centrato esclusivamente su stesso.

Da qui l’irrequietezza della genialità sensuale, e la sua irriducibilità al linguaggio, per il quale rappresenterà sempre l’ineffabile e l’inintelligibile. Gli stadi erotici immediati, annullando la riflessione, lasciano la coscienza indeterminata e disindividualizzata.

Kierkegaard pone, dunque, una contrapposizione tra immediato erotico e riflessione, intendendo quest’ultima come la mediazione della coscienza. Dicotomia dalla quale deriva quella tra musica e linguaggio, modalità di espressione rispettivamente dell’immediato e della riflessione.

Questa spaccatura, sempre secondo Kierkegaard, è stata introdotta dal cristianesimo con la sua esaltazione della parola e dello spirito e la contemporanea denigrazione della musica e della sensualità. Questa trae quindi dall’esclusione del cristianesimo non le sue peculiarità, ma la sua qualità di interdetto, giacché l’escluso deve esistere prima dell’esclusione, ma è solo dopo quest’ultima che diventa tale.

L’immediato erotico è così costretto a confluire nel dominio dello spirito, che lo conserva a prezzo però della sua falsificazione. La sensualità è osteggiata perché essendo senza scopo impedisce la prospettiva teologica.

Klossowski condivide pienamente le tesi di questo saggio. In particolare, la dicotomia tra immediatezza e riflessione cui si collega quella tra musica e linguaggio; nonché la tesi per la quale il cristianesimo attraverso la mediazione riconduce a sé l’immediato e l’indeterminato, occultandone la natura.

Ciò gli permette di porre un legame tra Kierkegaard e Nietzsche. Anche questi, infatti, è convinto che la musica dia espressione agli impulsi ineffabili, come mostra questo frammento tradotto dallo stesso Klossowski: «la musica è un linguaggio semiotico di affetti» (Nietzsche citato in Klossowski 1969). L’immediato kierkegaardiano è così ricondotto al dionisiaco di Nietzsche. Secondo Klossowski infatti Don Giovanni è «l’incarnazione del dionisiaco» (Don Juan Selon Kierkegaard).

Il processo descritto da Kierkegaard rappresenta perciò la dissimulazione del dionisiaco effettuata dal cristianesimo, e denunciata da Nietzsche. Si spiega così la teoria della morte di dio, volta ad impedire che l’uomo si fissi in un’identità che dà luogo alla riflessione ed alla coscienza, giacché dio è il fondamento dell’io.

Proseguendo nel confronto, Klossowski afferma che Nietzsche e Kierkegaard rappresentano le due coscienze che «formano la testa di Giano della coscienza moderna» (Don Juan Selon Kierkegaard). Il primo si caratterizza per la teoria del fato, il secondo per quella della colpa.

Distinzione in linea con quella postulata da Kierkegaard tra il tragico antico e moderno: mentre l’eroe moderno vive nell’angoscia della colpa, quello antico vede la propria responsabilità limitata dalla credenza nel destino, e da gruppi sociali che ne riducono la libertà di scelta.

Secondo Klossowski, Don Giovanni rappresenta entrambe le coscienze, giacché è un eroe moderno ma è anche espressione dell’eroe antico nella sottomissione agli impulsi, la cui necessità è ineliminabile sia per gli uomini che per gli dei.

Per questo, l’attrazione che Kierkegaard prova per il Don Giovanni mozartiano, ne testimonia i dubbi sull’esistenza di un al di là rispetto alla divinità, costituito appunto dal fondo impulsionale (il dionisiaco). «Don Giovanni fu per lui la forza elementare ed informe che, arrestata fortuitamente nel suo movimento e sul punto di incontrarsi con l’oggetto, ricade nella sua prima informità per riprendere il suo ritmo infinito» (Don Juan Selon Kierkegaard).

Tali dubbi sono controllati e dissimulati attraverso l’angoscia della colpa. Don Giovanni «è la melodia infinita del possibile che l’anima di Kierkrgaard intendeva con una nostalgia angosciata dal sentimento di colpevolezza» (Don Juan Selon Kierkegaard).

Se tale al di là esistesse veramente, sarebbe necessariamente intaccata anche la coscienza, nonché l’etica cristiana.

Questo è il fondamento della critica radicale di questa etica che Klossowski porta avanti in altri scritti. Nel momento in cui essa diventa una convenzione, possono essere giustificate tutte le azioni compiute in nome degli stereotipi che veicola. L’istituzione trasforma la convenzione in convinzione, permettendo a qualsiasi idea morale di imporsi divenendo il codice sulla cui base giustificare comportamenti divenuti totalmente irresponsabili.

Ciò che Klossowski contesta è l’idea della divinità onnisciente il cui disegno consente agli uomini di agire senza responsabilità per i propri atti. È l’idea del dio che permette all’individuo di agire secondo i propri obiettivi di dominio, sicuro della moralità dei propri atti in quanto conformi all’imperativo codificato.

Klossowski denuncia quindi il dio divenuto il fondamento di sopraffazione e violenza.

Il cristianesimo, i suoi valori ed i suoi concetti (bene, male, colpa, peccato, ecc,), raggiungono il risultato paradossale per cui imponendosi come base per la moralità, diventano il presupposto dell’irresponsabilità. È questa la ragione per la quale Klossowski condivide la critica radicale che di questi valori fa Nietzsche.

L’idea centrale, che accompagnerà Klossowski in tutta la sua opera, è che ogni linguaggio istituzionale comporta sempre una falsificazione. La morale cristiana è un mero simulacro.

Il valore serve a nascondere l’assenza di scopo della volontà umana, attraverso una parvenza di giustizia ottenuta attraverso la conformità agli imperativi trascendenti.

È necessario un cambiamento per il quale, come afferma Nietzsche, si passi dal “tu devi”, imperativo codificato dal gregge che falsifica l’esperienza, all’”io voglio” in cui si esprime il fondo impulsionale che fa dell’individuo un singolo.

In conclusione Klossoswki lungi dall’opporre Kierkegaard a Nietzsche, ne mostra l’affinità. Il filosofo che teorizzava la colpevolezza dell’uomo, e quello che enfatizza Dioniso, “l’innocenza del divenire”, e la critica i valori occidentali, s’incontrano nella constatazione che Kierkegaard avverte, attraverso il Don Giovanni di Mozart, il dionisiaco ma lo rimuove attraverso la colpa.

Il risultato di questo legame non è la fine della colpa, quanto l’impossibilità della sua codificazione dovuta alla deformazione che il linguaggio comporta; a cui contrapporre un pensiero corporante in cui trovi espressione il fondo impulsionale, l’eterno dionisiaco la cui scoperta accomuna Kierkegaard a Nietzsche.

 

 

 

 

SADE PROSSIMO MIO

 

Sade Mon Prochaine inaugura un periodo di studi e rivalutazioni dell’opera sadiana, fino a quel momento considerata scandalosa, al quale parteciperanno filosofi come Sartre, Bataille, De Beauvoir, Deleuze; è questo uno dei maggiori meriti dell’opera.

Il saggio ha avuto una prima edizione nel 1947, una seconda nel 1967 con l’aggiunta, in apertura, dello scritto “Il Filosofo Scellerato” (Le philosophe scélérat) che corregge l’impostazione eccessivamente teologica ed hegeliana del primo.

La riflessione di Klossowski su Sade è continuata nel 1970 con il saggio “La Moneta Vivente” (La mannaie vivante) e nel 1974 con “Gli Ultimi Lavori di Gulliver seguito da Sade e Fourier” (Les derniers travaux de Gulliver suivi de Sade et Fourier).

Il saggio del 1947 si apre con l’analisi della posizione di Sade dinanzi alla Rivoluzione Francese.

Tale analisi è una spiegazione della tesi sadiana in base alla quale la Rivoluzione, essendo rovesciamento del crimine monarchico si possa mantenere solo restando nel crimine.

In Sade, secondo Klossowski, agiva la cattiva coscienza del libertino, il quale si aspettava dalla Rivoluzione «un rifacimento totale della struttura dell’uomo» (Klossowski 1947). Essa avrebbe dovuto portare ad una società in cui il silenzio delle leggi avrebbe finalmente permesso il discorso dell’uomo.

Tale posizione evidenzia un latente atteggiamento teocratico nei confronti del re. Infatti, per i teorici laici della Rivoluzione, l’uccisione del re è resa necessaria dal suo alto tradimento nei confronti dello stato; per i cattolici controrivuzionari, al contrario, il re è l’unto di dio, pertanto il suo assassinio è l’uccisione del rappresentante temporale della divinità. Sade, nel suo pensiero più profondo, condivide quest’ultima impostazione, ma, considerando dio malvagia fonte di tutti i mali, ne trae un giudizio di segno opposto. Per Sade, e per Klossowski, l’uccisione del re è il simulacro dell’uccisione di dio, al crimine inaugurale ed inespiabile, potrà seguire solo una società che si fonda essa stessa sul crimine. La Rivoluzione deve essere permanente, perpetuandosi attraverso un progressivo annientamento dell'idea di dio nella vita familiare e sociale.

Riprendendo il sillogismo di Ivan Karamazov, dalla morte di dio tutto è permesso, per cui la repubblica che ne nasce non dovrà essere basata sulla fraternità ma dovrà essere cainica. «Probabilmente Sade voleva sostituire alla fraternità dell’uomo naturale (passata alla storia come uno dei tre valori rivoluzionari-repubblicani) la solidarietà del parricidio (che sarebbe stata la logica conseguenza della messa a morte di Luigi XVI) parricidio eseguito come volontà popolare» (Klossowski 1947). La società nata dal parricidio non può che essere, per Sade, una società di criminali.

L’uccisione del re è la rivoluzione politica, logica conseguenza della rivoluzione morale dei libertini che ha portato alla morte di dio. Su queste basi Klossowski critica la Rivoluzione. Il suo errore è stato quello di voler fornire una legittimazione politico-giuridica all’uccisione del re. Per questo Robespierre è stato il rivoluzionario più coerente: il re non può essere giudicato, giacché ciò significherebbe riconoscerlo innocente fino a prova contraria, e quindi mettere in discussione la Rivoluzione. «Luigi XVI deve morire affinché la patria possa vivere» (Klossowski 1947).

Il crimine non deve essere giustificato ma portato fino alle sue estreme conseguenze. Klossowski propone qui un’interpretazione hegeliana (la dialettica hegeliana sarà il leit motiv di tutto il saggio) della Rivoluzione, nei termini della dialettica del Servo e del Padrone (nella versione di Kojéve). Divenuti atei Padroni e Schiavi, vengono meno tutte le giustificazioni del rapporto di signoria, e non può che nascerne un conflitto con cui gli Schiavi cercano di rovesciare i rapporti di forza. Gli Schiavi si ribellano così contro i Padroni e li processano.

Questo movimento dialettico ha come motore il privilegio del crimine. Per rovesciare lo status quo lo Schiavo deve assumere su di sé il carattere criminale del potere del Padrone, mantenendone il carattere autoreferenziale. «L’unico esito del processo è l’assunzione da parte degli Schiavi delle prerogative dei Padroni» (Klossowski 1947).

Klossowski oppone dunque l’autoreferenzialità del crimine alla ricerca di una giustificazione, che non può che essere un simulacro, ed individua in questa ricerca l’errore dei rivoluzionari che ha impedito loro di portare a termine il processo iniziato con l’uccisione di dio.

Nella sezione successiva, intitolata Esquisse du Sistéme Sade, Klossowski analizza più dettagliatamente il Sade libertino, mostrando come esso sia portato alla filosofia della natura.

Lo scenario rimane quello della morte di dio, con il conseguente venir meno dell’identità personale e della nozione di prossimo.

La ricerca di una libertà originaria assume la forma di un’utopia del male, nella quale l’uomo lascia libero sfogo alle forze impulsionali costrittive nell’immaginazione di crimini privi di razionalità.

L’ateismo è per Sade solo una maschera, sotto la quale persiste la considerazione per la nozione di prossimo. Per Sade dopo la morte di dio il crimine trionfa, paradossalmente, per la ricerca di fini virtuosi. Pertanto, l’unico modo per conservare il prossimo è quello di costituirlo come oggetto della pratica criminale.

Per il libertino, dunque, dio ed il prossimo sono fondamentali per rimanere nel vizio, pervertendo i valori tradizionali per raggiungere i propri fini. «Il suo [di Sade] ateismo non è che una forma di sacrilegio» (Klossowski 1947).

Il mondo venuto meno con la morte di dio è ricreato attraverso le forze impulsionali, chiuse nell’immaginazione, dalla quale emergono crimini mostruosi ed il loro oggetto: il prossimo.

Secondo Sade tutto è vizio e distruzione, ad imitazione di dio, padre di tutti i crimini. L’altro è ricostruito attraverso la sua distruzione.

Per effetto di questo movimento il sadico si differenzia sempre più dal libertino. Quest’ultimo,

infatti, ritiene il prossimo fondamentale per la perversione, giacché in essa si costituisce un rapporto di odio-amore in forza del quale l’affermazione di sé passa attraverso la costruzione dell’altro.

Per il sadico, al contrario, il prossimo dilegua sempre più nella distruzione permanente di cui è oggetto, divenendo un puro nulla sul quale far valere la coscienza di sé. La coscienza sadica cade così in contraddizione tra la necessità della distruzione e quella della conservazione. Riducendosi a nulla il prossimo, anche l’io sprofonda. «Se l’altro non è più nulla per me, non solamente io non sono più nulla per lui, ma nulla anche a riguardo della mia propria coscienza, quando è necessario che la coscienza sia ancora mia» (Klossowski 1947).

Questa contraddizione porta la coscienza sadiana dalla figura del libertino a quella del filosofo della natura. Giacché è necessario che il prossimo si ricomponga dopo la sua distruzione, Sade sceglie a modello del proprio movimento quello della natura, nella quale distruzione e creazione convivono in vista di un fine predeterminato.

In altri termini, giacché l’essere nulla del prossimo porta al dileguamento dell’io, è necessaria per la continuazione del movimento l’esistenza di due soggetti. La soluzione è immaginata da Sade, ad imitazione della natura, nella «reiterazione senza fine degli atti» (Klossowski 1947).

In questo modo, la dialettica del movimento sadico è ricondotta ad una più alta legge di natura, per la quale il vizio, il male, la morte non sono che un momento della sua metamorfosi perenne.

Giacché la distruzione è frutto di una legge di natura, la reazione del soggetto sadico, di fronte ad i propri atti, non può che essere l'apatia. Sentimento che emerge dall’individuazione nel movimento della distruzione e ricomposizione della natura la spiegazione della propria perversione. Nel riconoscere il suo prossimo, il sadico lo distrugge per poi ricomporlo di nuovo.

In questo modo la morale viene meno, per essere però reintrodotta, invertita di segno, ossia orientata verso la prossimità più lontana ed irraggiungibile: la vergine.

Al fondo di questo movimento corporale, l’anima (intesa da Klossowski come “spazio puramente psichico” nel quale agiscono “forze oscure”) scopre la noia e «la durata nel tempo insopportabilmente lungo e vuoto, come l’incatenamento alla sua propria condizione» (Klossowski 1947). Venuto meno il prossimo, l’anima si considera caduta nella maledizione del vuoto, condannata alla solitudine. Diventa allora necessario negare la distruzione attraverso «l’ossessione della verginità; esperienza di base del temperamento di Sade» (Klossowski 1947). Nel “crimine puro” «distruzione e purezza si confondono e divengono una sola esigenza assoluta» (Klossowski 1947).

In quanto irraggiungibile il copro della vergine è disincarnato, per esistere solo nell’immaginazione del sadico, il quale sostituisce alla ferocia del carnefice l’attesa destinata a restare frustata. Questa situazione è definita da Klossowski delectatio morosa. Con questa espressione Klossowski intende un attacco meramente immaginario portato dal perverso alla purezza verginale, con cui egli ricerca di ricostituire il peccato, con il quale superare la noia nella quale la sua anima è sprofondata. «La delectatio morosa consiste in questo movimento dell’anima, attraverso il quale [il sadico] si porta volontariamente verso le immagini di atti criminali e spirituali proibiti, per attardarsi nella loro contemplazione» (Klossowski 1947).

Nell’immaginario la coscienza cerca di ricostituire la propria colpevolezza, attaccando la vergine che nella realtà è irraggiungibile. Gli oggetti scomparsi vengono ricostituiti nell’immaginazione ma solo per essere distrutti di nuovo. Anche nell’immaginazione si attua il movimento distruttore che ha annientato gli oggetti reali portando alla scomparsa anche di quelli immaginari. «La delectatio morosa è sterile, non serve alla necessità per cui il pensiero la pratica, in quanto incatena alla noia perpetua, piuttosto che liberare. È attesa distruttrice del presente» (Klossowski 1947).

Anche nell’immaginario si rinnova la contraddizione tra il desiderio di distruggere e quello di conservare gli oggetti, e l’esito è lo stesso: la noia.

Riassumendo: la rabbia di Sade contro il re e dio, è la ribellione contro le istituzioni che schiacciano le forze impulsionali nelle convenzioni e nei divieti. Nel suo movimento distruttore, però, Sade annienta il prossimo, e per sfuggire alla solitudine che ne deriva, lo ricostituisce nell’immaginario. In esso il prossimo assume la forma della vergine, quale simbolo di purezza inaccessibile.

La criminalità pura è dunque abitata dalla speranza di raggiungere la purezza attraverso la colpa.

Questa analisi dell’opera sadiana è fortemente influenzata dalla dialettica hegeliana, tanto che, nel suo commento, Bataille vede in essa la chiave interpretativa utilizzata dal suo amico Klossowski nella lettura degli scritti del marchese.

Negli Ecrits d'un Monomane Essais 1933-1939, serie di saggi di Klossowski dedicati a Sade, Nietzsche e Kierkegaard, pubblicati nel 2001, emerge come Klossowski considerasse la figura del libertino e quella del filosofo della natura come due metafore del dominio. La prima mostra come il potere si accerti di sé nella negazione ripetuta dell'altro, nella sua distruzione infinita. Nella seconda prevale invece la fredda autonomia di un ordine meccanico, in cui l’altro non esiste più, lo si può uccidere senza più provare né piacere, né dolore, nell' apatia dell’adesione totale alla grande macchina.

Vent’anni dopo il suo primo saggio su Sade, Klossowski torna ad occuparsi dell’argomento nello scritto Il Filosofo Scellerato. In questo testo, successivamente posto in apertura di Sade Prossimo Mio, Klossowski prende le distanze dal suo primo lavoro, ravvisandovi un certo «romanticismo quasi wagneriano» (Klossowski 1967).

L’opera sadiana si caratterizza per la contrapposizione tra la generalità istituita, e la singolarità anomala del perverso. Questi si caratterizza per la sua coerenza con il fondo impulsionale del corpo, che si manifesta nel pensiero corporante. Da qui la giustificazione e l’approvazione per i crimini dei suoi personaggi, vista l’impossibilità di mantenersi nella purezza.

Sade sente la necessità di divulgare questa singolarità, e per farlo utilizza, paradossalmente, l’organo più importante della generalità: il linguaggio istituzionale. In questo modo, Sade incrina la coerenza del linguaggio, facendolo entrare in crisi, poiché lo costringe ad ospitare i fantasmi del perverso. Quest’espressione inevitabilmente falsificherà il fantasma, poiché il fondo impulsionale è indicibile, e pertanto non può essere espresso dal linguaggio.

L’opera di Sade è allora un simulacro di scrittura. La mostruosità di Sade non è più considerata la sua volontà di distruggere tutto, ma quella di servirsi del linguaggio istituzionale per invertirne il senso, rendendolo autocontraddittorio. Conservare la morale e la nozione di prossimo è dunque necessario per fornire al perverso gli oggetti con cui affermare la propria singolarità.

Il fine perseguito da Sade attraverso la perversione del linguaggio istituzionale è la distruzione della ragione normativa, il fondamento dell’identità e dell’io. Solo attraverso la distruzione del concetto di identità potranno emergere nella coscienza le forze impulsionali che abitano il corpo.

Corollario della critica della ragione normativa è quella del monoteismo. Per liberarsi dell’io, infatti, è necessario anche liberarsi del dio monoteista, che è alla base dell’identità personale.

Dunque la critica del monoteismo è necessaria per quella della ragione normativa, ma l’inverso è altrettanto vero. Da qui la critica dell’ateismo razionale che è solo «un monoteismo rovesciato» (Klossowski 1967), nel quale sono mantenute tutte le garanzie di stabilità dell’io e dell’identità. È necessario, quindi, un ateismo integrale, che oltre a dio elimini tutti le altre maschere del monoteismo.

Secondo Klossowski, la questione fondamentale posta da Sade è quella relativa al modo in cui piegare il linguaggio, strumento della razionalità, per asservirlo alle anomalie.

Sono due gli strumenti attraverso i quali Sade fa emergere la singolarità nel tessuto istituzionale.

In primo luogo la sodomia, che Klossowski considera la parodia sadiana della sessualità convenzionale. Essa è il simulacro della procreazione, la trasgressione nei confronti della generalità, della regola istituzionale.

Il secondo strumento è il linguaggio corporale, ossia la comunicazione silenziosa tra i corpi. «Gli atti obbediscono al silenzio, le parole non sono dette che per nascondere questa obbedienza» (Klossowski 1967).

Tale linguaggio corporale è in realtà un simulacro di comunicazione, giacché le parole valgono per ciò che è scambiabile, l’inscambiabile si manifesta nella contraffazione. Esso è dunque la parodia della parola.

Questo non-linguaggio è ostacolato dalla coscienza. Tale conflitto è legato alla duplice funzione svolta dalle forze impulsionali, consistente nella creazione di «un organo di intimidazione sotto la pressione del mondo istituzionale, come di un organo di sovversione sotto la pressione interna di quelle forze» (Klossowski 1967). L’apatia è il sentimento che risulta da questo movimento, poiché in esso non si dà priorità a nessuna delle due forze, ma vengono espresse insieme, in quella che Klossowski definisce simultaneità contraddittoria. Da una parte, affinché i corpi s’incontrino devono essere affetti dall’impulsionalità esplosiva, uscire dal proprio io per essere possedibili; dall’altra per alienare il proprio corpo occorre possederlo ed esercitare su di esso un controllo attraverso l’impulsionalità implosiva. Pertanto la trasgressione necessita delle interdizioni sociali.

Sade delinea così il circolo vizioso della trasgressione, che Klossowski considera una grande intuizione poiché anticipa la nozione di “innocenza del divenire” elaborata da Nietzsche.

Riassumendo, le norme istituzionali (in particolare il linguaggio) formano la coscienza e l’identità basandosi sull’istinto gregario. Il perverso, invece, realizza la propria pratica singolare attraverso l’oblio del concetto di io. Il perverso sente il corpo altrui come proprio, ed il proprio corpo come estraneo, giacché ha dissolto nell’apatia i limiti tra le persone. La parola è sostituita dal linguaggio corporale, ossia dal gesto in cui si esprime la simultaneità contraddittoria; ed il razionale dall’immaginario.

Questa esperienza disindividualizzante è espressa da Sade nella scrittura, ossia attraverso il codice dei segni quotidiani. Giacché è sempre necessario utilizzare le convenzioni esistente, anche per modificarne l’uso. In questo modo il linguaggio viene contaminato dal fondo impulsionale, che esso non può esprimere poiché è indicibile. Questo ineffabile non può che essere falsificato dal linguaggio. Da questa distorsione si configura la scrittura simulacro, che ha i caratteri della coerenza razionale, ma comporta un residuo rivelato ed insieme occultato dal simulacro stesso.

Proprio perché il filosofo deve rivelare il fondo impulsionale, egli deve essere un filosofo scellerato.

 

 

 

 

LO SCAMBIO DEI CORPI: SADE O FOURIER?

 

Nel 1970 Klossowski pubblica La Moneta Vivente, opera nella quale torna ad occuparsi di Sade.

Se con Il Filosofo Scellerato Klossowski aveva liberato Sade dalla dialettica hegeliana di Sade Prossimo Mio, considerando la opera sadiana come perversione del linguaggio istituzionale; con il suo nuovo saggio si ha un allargamento dell’analisi che considera ora la perversione alle prese con la società industriale.

Klossowski continua, dunque, a considerare il rapporto tra fantasma ed istituzioni, ma ora la sua analisi cambia di oggetto: dal linguaggio alla produzione seriale di beni di consumo. Come il linguaggio, anche le nozioni dell’economia di mercato sono pervertite dal loro senso abituale, per entrare in nuovo luogo in cui il godimento è l’oggetto di scambio. In questo modo il fondo impulsionale entra nel meccanismo economico e configura un’economia impulsionale.

Klossowski postula una equivalenza tra economia impulsionale ed economia di mercato. Il termine medio è il simulacro. Infatti, questa eguaglianza diventa possibile nel caso in cui «un oggetto sia di uso necessario proprio in quanto simulacro» (Klossowski 1970). Con l’industrializzazione e l’economia di mercato l’utensile assume il carattere del simulacro. «Un utensile può essere un utensile solo se è un simulacro» (Klossowski 1970). 

Giacché in questo tipo di economia il valore rivelante non è quello d’uso, ma quello di scambio. Affinché il bene sia scambiabile, l’operatore dovrà produrre il simulacro del valore d’uso inutilizzabile, ossia dovrà rendere produttivo il fondo del bene in sé sterile. La società industriale imita il perverso.

Il bene è acquistato in quanto simulacro del fantasma del perverso. Ma questo non è scambiabile, pertanto non ha prezzo. Entrando nella sfera della produzione invece viene fissato un prezzo, che è tanto maggiore quanto più comporta il dissolvimento dell’identità dell’individuo. Il commercio di beni di godimento risiede, dunque, nella conservazione e nella trasgressione dell’io.

Nel momento in cui la perversione del sistema industriale è realizzata, sarà possibile far entrare nel commercio le stesse persone. Per l’individuo che possiede il proprio corpo, l’oggetto di scambio sarà la rinuncia di tale possesso, l’alienazione di se stesso. «Il fantasma perverso si forma in quanto oggetto d’uso dell’emozione voluttuosa» (Klossowski 1970). Ma tale fantasma potrà entrare nel mercato solo come oggetto di scambio, ossia come simulacro, il cui prezzo dipenderà dalla sua utilità, la quale a sua volta dipende dal livello della domanda di voluttà.

Ma se il perverso rinuncia volontariamente al proprio io, per l’operatore economico una simile rinuncia non è possibile. Pertanto l’operatore potrà accettare questa logica perversa solo se esiste un equivalente «uno che valga per qualcosa tanto nella sfera del fantasma elaborato a spese dell’unità individuale, quanto a livello dell’individuo, nella sfera esterna dell’oggetto fabbricato» (Klossowski 1970). Il denaro diventa così un mezzo convenzionale della perversione. «Mentre rappresenta ciò che esiste il denaro diventa ancora di più il segno di ciò che non esiste, ossia del fantasma» (Klossowski 1970).

Lo scambio dei corpi diviene simile allo scambio economico, ed il denaro, strumento istituzionale che consente al perverso di realizzare i propri fantasmi, diventa moneta vivente. La moneta vivente è il corpo che nello scambio è l’oggetto dato in cambio del denaro. Pagando, l’individuo adotta la mediazione istituzionale per rapportarsi all’altro, oggetto della propria voluttà. Il mezzo principale dell’economia utilizzato come mezzo di perversione: ecco la perversione della società industriale. Il corpo pagato diventa il simulacro del fondo impulsionale privo di prezzo.

In Gli Ultimi Lavori di Gulliver seguito da Sade e Fourier, Klossowski confronta le posizioni di Sade e Fourier dinanzi a questo sistema industriale.

Anche per Fourier, come per Sade, la creazione del simulacro è necessaria, ma, al contrario di questi, Fourier è molto critico nei confronti del sistema industriale. «Per Fourier il fantasma in sé incomunicabile, come per Sade, esige la creazione di un simulacro; ma il senso del simulacro dal punto di vista dello scambio, Fourier lo sviluppa in una direzione totalmente opposta» (Klossowski 1970).

Per Fourier lo scambio dei beni oggetto della volontà deve avvenire su basi gratuite, il valore viene quindi annullato. Per Sade, invece, la moneta, e quindi il valore, è uno strumento di mediazione per ottenere il corpo alienato, divenuto merce.

 

 

 

 

NIETZSCHE E LA SEMIOTICA IMPULSIONALE

 

Nietzsche e Il Circolo Vizioso è l’opera filosofica più importante di Klossowski. Essa partecipa alla Nietzsche-renaissance, fornendole un contributo originale e profondo. Questa rinascita degli studi sul filosofo tedesco, basata sull’interpretazione che di esso fece Bataille negli anni venti, inizia subito dopo la fine della guerra e raggiunge il suo culmine negli anni sessanta e settanta. Comincia Blanchot con il suo saggio Dalla Parte di Nietzsche del ’49, un altro contributo importante è l’opera L’Avant Dernière Pensée de Nietzsche di Jean Wahl del 1961. Ma il saggio che spicca maggiormente è quello di Gilles Deleuze Nietzsche e La Filosofia del 1962.

Klossowski trova in Nietzsche piuttosto che un maestro un complice, il cui pensiero rappresenta uno strumento senza pari per la critica dei valori occidentali. L’adesione pressoché totale al pensiero del filosofo tedesco non si trasforma in Klossowski in un dogma, proprio perché si riferisce ad una “teoria” profondamente antidogmatica.

L’interpretazione di Nietzsche proposta da Klossowski, è legata alla filosofia della differenza teorizzata da Deleuze, al quale, significativamente, Nietzsche e Il Circolo Vizioso è dedicato. Questa visione si oppone sia alla distorsione nazista, sia all’esegesi proposta da alcuni marxisti, i quali non considerano «il fatto che questo pensiero ruota intorno al delirio come al proprio asse» (Klossowski 1969).

Klossowski analizza non solo gli scritti dell’ultimo Nietzsche (1880-1888), da lui stesso tradotti, ma anche la sua biografia, con le patologie che l’attraversano e la follia in cui culmina. Sia la vita che il pensiero sono letti come un complotto delle forze impulsionali che abitano il corpo contro il principio di identità (ossia la coscienza), e ciò che lo fa sorgere: l’autorità istituzionale (ossia il linguaggio definito codice dei segni quotidiani); complotto culminante nella valorizzazione del delirio, nel quale è abolito il principio di identità personale. Delirio la cui estrema lucidità è occultata dalla coscienza. Complotto, delirio e lucidità sono i tre i cardini del pensiero nietzscheano.

Questo conflitto avviene tra due potenze: «quella livellatrice del pensiero gregario e quella erettiva del caso particolare» (Klossowski 1969). Il pensiero gregario è espresso dalla coscienza nella sua sottomissione al codice dei segni quotidiani che le permette di costituirsi come io. La personalità erettiva è invece la singolarità che si eleva al di sopra del gregge poiché sprofonda volutamente nel proprio organismo, inventando la semiotica impulsionale ossia la strategia comunicativa adottata dalle forze impulsionali.

Il venire alla luce del fondo impulsionale comporta la supremazia dell’immaginario, il quale deve però trovare espressione anche nella dimensione istituzionale. Affinché ciò avvenga è necessario che la semiotica della coscienza sia invertita nella semiotica impulsionale, in un pensiero corporante in cui si esprime la coerenza tra l’individuo e le sue pulsioni.

Gli stati valetudinari di Nietzsche sono, dunque, il risultato della reazione della coscienza agli assalti delle forze impulsionali. «L’emicrania torturante di cui soffre periodicamente come di un’aggressione che sospende il pensiero, non è un’aggressione dall’esterno; la radice del male è in lui, nel suo organismo: è il suo io fisico che attacca per difendersi dallo sfacelo» (Klossowski 1969). Questo sfacelo è però considerato tale solo dal cervello. «Nel corpo la situazione è molto diversa: vi sono delle forze attive che, essendo funzioni organiche, e dunque non libere, vogliono spezzare la loro schiavitù; ciò può avvenire soltanto se questa volontà passa per il cervello: il quale d’altro canto sente questa volontà come propria soggezione alle forze dello sfacelo: l’impossibilità di pensare è la sua minaccia» (Klossowski 1969).

C’è, dunque, in Nietzsche un conflitto tra corpo e cervello, dove con corpo si intende «il risultato del caso fortuito: è solo il luogo d’incontro di un insieme di impulsi individuati nell’intervallo costituito da una vita umana, impulsi che aspirano solo a disindividualizzarsi» (Klossowski 1969). Il corpo dunque è la sede della forza degli impulsi.

Negli stati valetudinari questi impulsi cercano di trovare espressione. «Se il corpo soffre a tal punto, se dal cervello non vengono che segnali angosciosi, ciò vuol dire che in tutto questo c’è un linguaggio che cerca di farsi intendere a dispetto della ragione» (Klossowski 1969). Più Nietzsche intende questa semiotica impulsionale «più diffida dalla persona che ha il corpo come supporto» (Klossowski 1969). La conseguenza per Nietzsche è «un sospetto, un odio, una rabbia nei confronti della propria persona cosciente e ragionevole. Non è questa persona – formatasi secondo i condizionamenti di un’epoca, in un clima familiare sempre più aborrito – che Nietzsche vuole conservare; anzi vuole distruggerla per amore di quel sistema nervoso che sa di possedere e da cui trae vanto» (Klossowski 1969).

Esistono due codici radicalmente contrapposti: la semiotica impulsionale espressione delle forze che abitano il corpo, ed il codice dei segni quotidiani, forniti dall’esterno e dai quali sorge la coscienza. Questa contrapposizione deriva dal fatto che il linguaggio istituzionale inverte i messaggi del fondo impulsionale. «Il corpo vuole farsi capire per mezzo di un linguaggio di segni che la coscienza decifra in modo errato: essa costituisce un codice di segni che inverte, falsifica, filtra tutto ciò che si esprime attraverso il corpo. La coscienza stessa non è altro che il cifrario dei messaggi trasmessi dagli impulsi, e la decifrazione è proprio quella inversione del messaggio che l’individuo si attribuisce» (Klossowski 1969).

Il segno è originariamente la traccia lasciata da una fluttuazione di intensità tornata su se stessa. «Com’è allora che [l’intensità] acquista un senso […]? Tornando appunto su se stessa, anche in una nuova fluttuazione! Così ripetendosi e quasi imitandosi essa diventa un senso» (Klossowski 1969). Tuttavia il segno così costituito non può nascondere il Caos che l’ha generato. «nonostante il segno in cui culmina la fluttuazione di intensità, il significato, costituendosi solo nell’afflusso, non emerge mai completamente dagli ondeggianti abissi che cerca di nascondere. Ogni significato rimane funzione del Caos generatore di senso» (Klossowski 1969). Affinché da questa traccia ancora rivelatrice della propria origine, si passi al codice dei segni quotidiani, è necessario che l’intensità subisca un processo di abbreviazione e deformazione da cui scaturisce la parola, la quale determina la sensazione di continuità. Quando un nuovo impulso si prospetta alla coscienza, essa lo conosce attraverso la traccia lasciata da una precedente intensità, che questo nuovo impulso intensifica, per questa ragione il nuovo è considerato già noto. Questo processo dà alla coscienza l’impressione che l’esterno sia diventato un suo possesso, e pertanto annulla l’alterità.

La coscienza è solo un prodotto del codice dei segni quotidiani, per questo in essa trova espressione l’istinto gregario. «In che misura si dirà che è “cosciente” […]? Nella misura in cui si produce in esso lo scambio più o meno disuguale tra la pulsione e il segno del codice quotidiano» (Klossowski 1969). Questo scambio è anche alla base dell’occultamento delle forze impulsionali. «Ma allora non è forze inconsapevole di quello che vogliono tali impulsi per sé?» (Klossowski 1969). La coscienza rovescia i segnali che le provengono, ricostituendoli con il codice dei segni quotidiani. Ne deriva la differenza tra la semiotica cosciente ed il fondo impulsionale. «dove vige un sistema di designazione diverso e per il quale non esiste né fuori né dentro. Ne segue che noi siamo presi, abbandonati, ripresi e sorpresi, ora dal sistema di designazione pulsionale, ora da quello dei segni quotidiani» (Klossowski 1969).

Il linguaggio è, come affermava Mallarmé, una moneta consumata che gli individui si scambiano, in silenzio. Giacché più gli individui parlano, più utilizzano il codice dei segni quotidiani, più cresce la differenza tra il linguaggio istituzionale ormai completamente automizzato, e il reale dell’esperienza, che esso dovrebbe designare, ma che in realtà occulta. La parola diventa uno stereotipo. La costituzione fortuita della coscienza e dell'io deriva dall'imposizione da parte del linguaggio istituzionale, di, utilizzando l'epressione di Deuleze-Guattari, una "surcodificazione dispotica" al fondo impulsionale incomunicabile. Ma questo è incomunicabile, muto. Solo se il fuori s’incontra con tale mutismo, questo potrà diventare parola. Ma, proprio attraverso tale processo l’individuo apprende ad essere questo fuori a parlare, l’esterno si sostituisce all’ineffabile, distorcendone il contenuto. L’idioma della coscienza, originariamente interpretazione del fondo impulsionale, ne dissimula ora il contenuto, uniformandosi al codice istituzionale. La coscienza è l’esterno di un interno. «Nella misura in cui l’esteriorità, attraverso il codice dei segni quotidiani, penetra nel supporto, questo dichiara o dichiara a se stesso, pensa, non può pensare, tace, non può tacere se non in funzione di quel codice. Esso stesso in quanto pensante ne è il prodotto. […] Anche l’intimità, anche la cosiddetta vita interiore, sono ancora il residuo dei segni istituiti all’esterno con il pretesto di significarci in maniera “oggettiva”, “imparziale”: residuo che indubbiamente prende la configurazione del modo pulsionale proprio di ciascuno, perciò adattando i contorni dei nostri modi di reagire a quell’invasione che non siamo stati noi ad inventare. Ecco la nostra “coscienza”» (Klossowski 1969). L’atto del pensiero è dunque una passività fondata sulla fissità dei segni del linguaggio.

Benché i punti di contatto siano numerosi, emerge qui la differenza tra Klossowski e Freud (è, infatti, da una simile concezione del pensiero nietzscheano che Freud prese le mosse, come mostra la lettera a Fliess, 1.2.1900: «spero di trovare in lui [in Nietzsche] le parole per tutto quanto resta muto in me»). Mentre per Freud la distinzione è all’interno della psiche tra inconscio e conscio, per Klossowski la differenza è tra corpo e coscienza, l’inconscio non essendo nulla di reale. «Dunque i termini coscienza e incoscienza non corrispondono a nulla di reale: se Nietzsche li usa è per convenzione “psicologica”» (Klossowski 1969).

Riassumendo, il linguaggio è una falsificazione dell’esperienza che consente all’individuo di costituirsi nell’illusione dell’identità. In realtà, l’individuo (per usare l’espressione di Groddeck, anch’egli influenzato da Nietzsche) è vissuto da una serie di forze impulsionali che sfuggono al suo controllo. L’io si costituisce solo attraverso l’oblio e l’occultamento di tali forze, grazie al codice dei segni quotidiani, che gli dà l’illusione del controllo e dell’autonomia. «la persona può credere di ridere, tremare, soffrire, godere per un’evocazione di motivi che sono invece soltanto un’interpretazione di sensazioni corporali. La coscienza che rivendica per sé tali sintomi può farlo solo prima o dopo la loro comparsa. […] Nell’intensità del dolore o del piacere, e in special modo nella voluttà, la “persona” scompare per un attimo, e allora quel che resta della coscienza si limita così strettamente al sintomo corporale che la struttura stessa si inverte: l’incoscienza è qui solo un’immagine dell’oblio» (Klossowski 1969). È solo «il mutismo del corpo» che ci consente «di restare quello stesso che crediamo di essere» (Klossowski 1969). Ma il vero sé si trova nel corpo, mentre l’io è solo una finzione. «La sofferenza che si manifesta negli stati valetudinari è una conseguenza di questa imposizione di un’identità fittizia. «tutte le sofferenze risultano da questo conflitto tra la pluralità del corpo con le sue mille velleità pulsionali, e l’ostinazione interpretativa del senso cerebrale; è dal corpo, è dal sé che scaturiscono le forze creatrici, le valutazioni; è dalla loro inversione cerebrale che nascono gli spiriti mentali, a cominciare da un io volontario» (Klossowski 1969).

Ma questo sé non è altro che «un’estremità prolungata del caos» (Klossowski 1969) pertanto esso è inscambiabile, non significa nulla. Dall’incapacità dell’uomo di affrontare quest’assurdo deriva la sua costituzione identitaria. «E, appunto perché, dietro a tutto, sussiste questa inscambiabilità, noi ci ripariamo con quello schermo che chiamiamo coscienza, cultura, morale e che è tutto basato sul codice dei segni quotidiani. Dietro lo schermo c’è il nulla, il fondo o il caos» (Klossowski 1969). Per difendere questa finzione di senso e scopo, che in realtà è solo un simulacro, è necessario assicurare la coerenza tra il supporto (l’io) e il suo intelletto. L’intelletto è un impulso che costituisce l’inverso degli altri impulsi, verso i quali agisce come forza repressiva ogni volta che si stabilisce una coerenza tra di essi ed il supporto, coerenza che è in totale discordanza con quella tra supporto ed intelletto. Si configura così il pensiero come repulsione dell’impulso, attraverso la quale esso è escluso dalla coerenza con il supporto. L’intelletto è il mezzo dell’identità. Al punto limite in cui l’impulso diviene pensiero si produce il fantasma, ultimo stadio al quale è possibile articolare la coerenza tra supporto ed impulso. Quando il fantasma si converte in parola, attraverso il codice dei segni quotidiani, subisce un’interpretazione che ne distorce il senso e gli impone un volere. Al fantasma non rimane che un mezzo per esprimersi: «sotto la sua coercizione noi simuliamo ciò che esso “vuol dire” con la nostra dichiarazione: ecco il simulacro» (Klossowski 1969). In questo modo il linguaggio diventa contemporaneamente il simulacro della resistenza dell’ambiente istituzionale, ma anche il simulacro della singolarità del fantasma.

Per questo, la soluzione prospettata da Klossowski non è l’uscita dal codice dei segni quotidiani, ma la rinuncia all’identità ed all’intenzione, a favore di un pensiero corporante in cui si esprima la coerenza tra il supporto e gli impulsi da cui è vissuto, in un linguaggio che non occulti ma dia espressione al Caos da cui è abitato.

 

 

 

 

L’ETERNO RITORNO COME SIMULACRO DI DOTTRINA

 

Gli stati valetudinari mostrano a Nietzsche la falsità del concetto di identità. La filosofia della differenza che ne deriva è espressa da Nietzsche, secondo Klossowski, attraverso due teorie: l’Eterno Ritorno (che Klossowski denomina Circolo Vizioso) e la morte di dio. «Il punto da rivelare è la perdita dell’identità data. La “morte di dio” (del dio garante dell’identità dell’io responsabile) dischiude all’anima tutte le sue possibili identità» (Klossowski 1969).

Klossowski insiste spesso sulla necessità di considerare l’Eterno Ritorno come una liquidazione del principio di identità, a favore di una filosofia per la quale non esistano né origine, né fine, né identità date, ma solo serie di individualità differenti. «Quando abbraccio con lo sguardo la necessità del ritorno come legge universale, disattualizzo il mio io attuale nel volermi in tutti gli altri io di cui devo ripercorrere la serie. […] Nel momento della rivelazione dell’Eterno Ritorno, io cesso di essere io hic et nunc e sono suscettibile di diventare infiniti altri. […] Un corollario della dottrina è la necessità di rivivere in una serie di individualità diverse. Dunque la ricchezza del Ritorno consiste nel voler essere altro da quello che si è per diventare quello che si è» (Klossowski 1969).

La dottrina dell’Eterno Ritorno è, secondo Klossowski, solo una maschera della filosofia della differenza, essa dunque è un principio apparente, falso. L’Eterno Ritorno è un simulacro di dottrina, è solo una parodia. «Il segreto del Circolo Vizioso può benissimo passare per un simulacro inventato secondo un fantasma di Nietzsche» (Klossowski 1969).                          

Appare qui un aspetto paradossale del pensiero di Nietzsche: egli demistifica il principio di identità, ma non per sostituirlo con la “verità”, bensì con un’altra mistificazione. Sembra che egli demistifichi solo per mistificare meglio. Le forze del negativo sono transvalutate nell’affermazione dell’Eterno Ritorno, ossia una nuova mistificazione.

Per Klossowski questo paradosso ruota intorno a tre concetti: mistificazione, demistificazione e simulacro. La sua riflessione parte da una frase di Nietszche: “A noi i bei simulacri! Dobbiamo essere gli impostori che abbelliscono l’umanità! Questo è essere filosofi”. Questa affermazione nasconde un giudizio negativo sulla realtà.

Nietszsche è preoccupato dal nichilismo negativo e riconosce la necessità che la filosofia non si limiti alla critica, ma crei nuovi valori. Per questo il filosofo deve essere un filosofo impostore.

L’Eterno Ritorno è necessariamente un simulacro poiché è la parte comunicabile di un’esperienza non comunicabile, un fantasma, quindi una contraffazione. Pertanto, la divulgazione del fantasma non è possibile fino a quando la sua falsità è intesa come contraffazione positiva. Il fondo impulsionale, con i suoi fantasmi, costituisce la critica del codice istituzionale, ma questa negatività viene transvalutata attraverso l’invenzione di simulacri creativi.

Il simulacro è, dunque, il corrispettivo del fantasma. «Non esiste nulla all’infuori degli impulsi essenzialmente generatori di fantasmi. Il simulacro non è il prodotto del fantasma, bensì la sua ingegnosa riproduzione, ed è in esso che l’uomo trova la capacità di prodursi da sé, nella forza dell’impulso esorcizzate e dominate. Il Turgbild – il simulacro – diventa nelle mani del filosofo “impostore”, la riproduzione voluta di fantasmi non voluti, nati dalla vita impulsionale. Perché il simulacro eserciti la sua coercizione è necessario che risponda alle necessità del fantasma» (Klossowski 1969).

Attraverso il simulacro, il fondo impulsionale non nega la realtà istituzionale, ma afferma valori positivi. Il simulacro deve raggiungere un compromesso con la realtà, l’arte ne è l’esempio maggiore. Per questo è possibile affermare che «il simulacro è in rapporto all’intelletto, la licenza da questo concessa all’arte: una sospensione ludica del principio di realtà» (Klossowski 1969). Il simulacro si sostituisce al principio di realtà, questo è il senso del famoso enunciato di Nietzsche, contenuto nel Crepuscolo Degli Idoli, secondo il quale il mondo reale si è convertito in una favola. Nel mondo contemporaneo tutto è elevato al massimo grado di falsificazione. «Non vi è realtà che quella perfettamente arbitraria espressa dai simulacri istituiti» (Klossowski 1969).

Secondo Klossowski il simulacro dell’Eterno Ritorno è pensato da Nietzsche come complotto contro il pensiero gregario. Anche l’otreuomo, è solo un simulacro di scopo, giacché il Circolo Vizioso in sé non ha fine. L’obiettivo di questo complotto non è la negazione del livello istituzionale, ma la transvalutazione dei suoi valori in falsità affermativa riconsegnata al fondo impulsionale privo di fini.

 

 

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