Morandi, Natura morta

Il quarto libro della Repubblica

Felicità degli individui e felicità della città
Le virtù della città: sapienza, coraggio, sophrosyne, giustizia
La giustizia nella città e nei cittadini
Per un sapere rigoroso sul molteplice
La tripartizione dell'anima
La giustizia come virtù personale


A cura di M. C. Pievatolo

Felicità degli individui e felicità della città

La costruzione della città socratica, come è andata delineandosi nel III libro, induce Adimanto ad interrompere Socrate con una obiezione. I guardiani, pur dominando la polis, non ne ricavano nessun profitto. La loro eudaimonia personale è trattata da Socrate come una questione trascurabile, anche perché, di fatto, l'educazione, la socializzazione e l'organizzazione economica della loro vita rende loro impossibile perseguire interessi personali connessi alla proprietà, alla libertà di movimento e alle relazioni con gli altri che conseguono da questi due elementi. [419a ss]
Socrate risponde a Adimanto osservando, in primo luogo, che non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se questi uomini fossero, anche così, molto felici. In secondo luogo, egli sottolinea che la sua polis non viene fondata perché un solo ethnos (gruppo, classe) sia particolarmente felice, ma perché sia felice l'intera (hole) polis.


...noi pensiamo di plasmare la polis felice non prendendo pochi [individui] separatamente e rendendoli tali [lett. "ponendoli come tali"], ma considerandola tutta intera [holen]. [420c]


Se ci si preoccupasse, aggiunge Socrate, del benessere di alcune persone, nessuno farebbe più il suo lavoro, e la polis diverrebbe informe. E questo vale soprattutto per quanto concerne i guardiani, perché è da loro che dipende la buona amministrazione e la felicità. La scelta se rendere felici solo alcuni, o la polis come un holon è dunque una questione decisiva. [421b-c] Ma se la felicità o il corretto funzionamento della polis come intero è lo scopo prioritario, allora ciascuno deve svolgere il proprio compito e partecipare della felicità nella misura in cui glielo concede la natura.



Socrate continua a descrivere la città che sta costruendo. [422d ss] La città non deve essere né ricca né povera, perché ricchezza e povertà sono fattori politicamente e moralmente destabilizzanti; deve essere di dimensioni territoriali contenute; deve essere fondata sull'educazione - anzi su una educazione che si attiene rigorosamente ad una tradizione e rifiuta ogni novità - e non sull'ingegneria costituzionale. Questo progetto politico ricorda, per alcuni aspetti, la costituzione di Sparta.

Ma la fondazione della città non ci ha ancora detto nulla su dove possano essere la giustizia e l'ingiustizia, su quale differenza intercorra fra loro, e su quale delle due debba possedere chi voglia essere felice, di nascosto o no dagli dei e dagli uomini. Socrate fa questa osservazione rivolgendosi a Glaucone con l'appellativo "figlio di Aristone" - un appellativo che si sarebbe potuto usare per Platone stesso - e parlando della città così costruita come della sua polis. Glaucone replica osservando che Socrate stesso aveva promesso di impegnarsi in quest'indagine, e non può tirarsi indietro. [427d]


Questo scambio di battute può suggerirci qualcosa sul rapporto fra Socrate e Platone. La città che Socrate, stimolato da Glaucone, è andato costruendo, è la città "del figlio di Aristone". Ma il figlio di Aristone, che potrebbe essere Platone stesso, non avrebbe mai edificato questa città se Socrate non avesse posto, per primo, il problema della giustizia. Platone sembra alludere, in questo passo, a un rapporto di continuità creativa con il pensiero del suo maestro. Un rapporto che è la miglior prova del successo dell'insegnamento di Socrate, il quale non cercava epigoni ed imitatori, ma persone che si mettessero in gioco discutendo con lui e cercando di rispondere alle sue domande.

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Le virtù della città

La nostra città, continua Socrate, se è stata rettamente fondata, sarà perfettamente buona, e dunque avrà le virtù della sophia (saggezza), della andreia (coraggio), della sophrosyne (prudenza, temperanza) e della dikaiosyne (giustizia). Dato che queste virtù sono parti di un tutto, indagare su una o più di esse ci può dare notizie, per esclusione, anche sulla o sulle rimanenti. [428a ss]

La prima dote della città è la sophia o sapienza, cioè la conoscenza rigorosa (episteme). Ora, esistono molte forme di episteme: per esempio la falegnameria, la metallurgia e l'agronomia, che hanno ad oggetto cose particolari nella città. La sapienza della città non consisterà in queste, pur importanti, discipline, bensì nella scienza nella quale la polis non si consiglia su alcune delle cose che sono in lei, ma su tutta (hole) se stessa, e sul suo modo di comportarsi su se stessa e su altre città. Questa scienza è posseduta solo da alcuni cittadini, e si chiama phylakiké (scienza della guardia). [428d]
Questa scienza sarà posseduta da una minoranza di cittadini, coloro che governano. Ma una città fondata kata physin sarebbe saggia nel suo complesso (hole) proprio in virtù di questa minoranza. Una minoranza destinata a rimanere tale, perché la sophia è rara e poco diffusa. [429a]


Com'è possibile che una sola parte della città renda sapiente il tutto? Socrate, rispondendo alla domanda di Adimanto sulla felicità dei guardiani, aveva osservato che la felicità di alcuni individui non implica la felicità dell'intero. Perché, invece, la sapienza di alcuni comporta anche la sapienza dell'intero?
La felicità non ha nulla a che vedere con la divisione tecnica del lavoro, anche perché il fatto che alcuni, o uno solo (per esempio, il tiranno di Trasimaco) siano specializzati in felicità non ha ricadute sugli altri. Una persona competente in una techne, può insegnarla agli altri, oppure può organizzare appropriatamente una quota dello spazio pubblico, nella sfera della sua competenza. Uno specialista nel farsi i suoi interessi non può compiere nulla di tutto questo. D'altro canto, però, finora non abbiamo trovato nessun elemento il quale garantisca che la parte sapiente della città usi la sua sophia in modo da farla ricadere sull'intero, e non a proprio vantaggio.
Vale la pena sottolineare che il ragionamento della Repubblica non procede dalla felicità alla giustizia, bensì dalla giustizia alla felicità, perché la competenza sulla felicità ha un carattere intransitivo: io posso essere espertissimo nel farmi i miei interessi, ma questo non implica affatto - fa, anzi, presumere il contrario - che sappia amministrare con giustizia gli interessi degli altri.


La seconda virtù della città è l'andreia o coraggio: il coraggio della città come intero è dato dalla parte che ha la funzione di combattere a sua difesa. Questa parte della polis ha la dynamis, cioè la capacità o potenzialità di salvaguardare la doxa o opinione sulle cose da considerare temibili, in modo tale che essa concordi con ciò che era stato inculcato tramite l'educazione. Questa doxa può corrompersi, o, come dice Socrate, può stingersi, se viene a contatto con i detersivi delle passioni. [429b ss]

Questa tesi sul coraggio come virtù essenzialmente cognitiva, si armonizza con l'identificazione socratica, compiuta, per esempio, nel Protagora, fra la virtù e la conoscenza. Però, essendo qui il coraggio una virtù di una parte della città che dovrebbe riverberarsi sul tutto, ci si può chiedere se il coraggio come capacità di mantenere la retta doxa non comporti una manipolazione della parte sul tutto. La parte coraggiosa, che sa rimanere costante nelle sue idee in mezzo alle difficoltà, deve rendere coraggiosa la città intera imponendole con la forza a coloro che non sono specialisti in andreia?
Se le virtù sono molteplici, e si applicano a parti diverse, si pone il problema del principio della loro coordinazione - esattamente come sosteneva Socrate nel Protagora.


Abbiamo visto due virtù - la sapienza e il coraggio - di carattere dichiaratamente parziale. Entrambi, infatti, consistono nello sviluppo eccellente di una attitudine particolare in una categoria particolare di cittadini. Potremmo chiederci che cosa mai garantisca che queste virtù parziali si ripercuotano sull'intero trasmettendogli la medesima virtù.
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo affrontare la terza virtù, la sophrosyne, che riguarda non tanto lo sviluppo eccellente di una parte determinata, bensì la relazione fra le parti. Socrate, infatti, la definisce come una sorta di consonanza e di armonia, che consiste nella capacità di controllare i piaceri e gli appetiti (epithymiai)
La capacità di autocontrollo è una virtù, perché l'uomo ha in sé una parte migliore e una peggiore. La parte peggiore predomina in chi non ha sophrosyne, a causa di una cattiva educazione o della sua vita di relazione. Anche questa capacità, nel mondo reale, è la dote di una minoranza, mentre la maggioranza degli uomini liberi, dei fanciulli, delle donne e degli schiavi ne è priva. [431a ss]

Da queste considerazioni, dovrebbe seguire - se Socrate ragionasse come nei casi della sapienza e del coraggio - che i pochi dotati di autocontrollo comandano sulla maggioranza intemperante, manipolandola in base alle passioni da cui si fa trascinare. Ma per la sophrosyne le cose non stanno così: una città dotata di temperanza è una città priva di conflitti per il potere, nella quale governati e governati hanno la stessa opinione su chi deve governare. E questo significa che la sophrosyne è una virtù di tutti i cittadini, cioè di tutta (hole) la polis. Come la sophrosyne individuale è l'autocontrollo consistente nella prevalenza della parte migliore e nella propensione ad obbedire della peggiore, così la sophrosyne politica è la homonoia, cioè la concordia di tutti i cittadini su chi ha titolo a governare.
Essendo la sophrosyne una virtù di relazione, nella quale l'autocontrollo individuale è strettamente legato al rispetto per gli altri, una città può essere temperante solo se tutti sanno moderare le proprie pretese: chi non lo sa fare può essere strumentalizzato da chi lo manipola in base alle sue passioni, o può a sua volta invadere lo spazio degli altri a causa della sua avidità. Questo rende la città un luogo conflittuale, dominato dai cittadini peggiori, gli assetati di potere.

Rimane da definire la giustizia. Socrate osserva che, a ben guardare, di giustizia si è già parlato, quando si è detto che ciascuno deve svolgere, nella polis, una sola attività, quella per la quale la physis l'ha plasmato; e che ciascuno deve fare ciò che gli è proprio senza polypragmonein, cioè occuparsi di molte cose - accusa, questa, tipicamente riservata all'educazione poetica.
L'identificazione della giustizia con il possesso di ciò che è proprio e con l'esplicazione del proprio compito comporta, in termini politici, che ciascuno dei tre gruppi della società faccia il proprio lavoro e non pretenda di fare quello degli altri: un uomo d'affari non deve pretendere di essere governante o guerriero, né un militare deve esigere di governare. [432e ss] La giustizia, in altri parole, è quel principio per il quale la parte sapiente e quella coraggiosa della città, svolgendo il ruolo che si addice loro, fanno riverberare le loro virtù particolari sull'intero; è inoltre il principio che fissa i confini di quella essenziale virtù "di relazione" che è la sophrosyne. Una polis giusta non si regge su una armonia organica, ma su una divisione del lavoro la cui realizzazione è una costruzione e un compito morale. L'equazione socratica fra virtù e conoscenza viene articolata con un principio di coordinazione: la giustizia diventa la virtù che assegna alla conoscenza quel ruolo dominante che contraddistingue la persona virtuosa.


Una delle possibili interpretazione di questa tesi sulla giustizia è l'immagine della polis ideale come una tecnocrazia. Questo può essere l'esito della diffusione della scrittura. In una cultura orale, gli unici "specialisti" potevano essere quelli della memoria, mentre una cultura scritta, che ha superato il problema della conservazione del sapere, può permettersi una maggiore specializzazione, proprio perché dispone gli strumenti per por rimedio alla docta ignorantia degli specialisti. I sofisti, con il loro sapere patrimoniale e specializzato, si collocano in questo contesto.
Una simile, pur plausibile, interpretazione deve tuttavia mettere fra parentesi il fondamentale tema platonico dell'educazione. Una tecnocrazia può concentrare la conoscenza in poche mani privilegiate, e può legittimarsi raccontando menzogne più o meno nobili, ma sicuramente vergognose; la polis ideale ci pone il problema di come sia possibile far riverberare il sapere di una parte sul tutto.
Se risolviamo la giustizia della Repubblica in un principio tecnocratico di divisione del lavoro, questo problema é marginale. Tuttavia, giustizia e sophrosyne sono virtù di relazione: esse possono sussistere solo se, in qualche misura, la conoscenza è partecipata - anche perché devono superare il test dell'anello di Gige. Se così non fosse, il più razionale dei tecnocrati si ridurrebbe, come mostra di rendersi conto Socrate nel terzo libro, a un narratore di racconti fenici. Visto dall'esterno, il governo dei competenti non differirebbe in nulla della più oscurantista delle dittature.

Come può esserci giustizia in un mondo in cui non c'è partecipazione della conoscenza?

Franco Prattico, La scienza si diffonde se sa comunicare

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La giustizia nella città e nei cittadini

Socrate aveva suggerito, nel secondo libro, che la giustizia della polis e quella del singolo uomo significassero la stessa cosa. Ma per provare la solidità di questa affermazione, occorre controllare se il modello della giustizia della polis può essere applicato a ciascun singolo (individuo) in modo tale che sia riconoscibile la giustizia anche in questo caso. [434c]

Una cosa uguale a un'altra in un certo aspetto, sarà uguale al suo termine di paragone proprio per questo aspetto. Quindi se la giustizia nell'uomo e nella polis significano la stessa cosa, un uomo giusto non differirà da una polis giusta, per quanto riguarda la giustizia. [435b] La polis è stata definita come giusta quando, in essa, le tre categorie di cittadini svolgono ciascuna il proprio compito; in questo modo, sapienza, coraggio e temperanza si riverberano nell'intero. In un individuo giusto deve avvenire qualcosa di simile.


Non siamo necessariamente costretti a riconoscere che in ognuno di noi ci sono quelle medesime forme e caratteri morali (eide te kai ethe] che esistono nella polis? Infatti, questi caratteri sono penetrati nello polis non altro che da qui. [435e]


Socrate e Glaucone hanno preso le mosse dalla città, allo scopo di chiarire il significato della giustizia. Ma le qualità della città dipendono da quelle degli individui, e dal senso che la giustizia ha in loro e per loro.
Abbiamo visto che la giustizia è una virtù di relazione: perché ci possa essere giustizia anche entro il singolo uomo, questi non deve essere considerato come un in-dividuo o un atomo, ma deve apparire come una creatura divisibile, molteplice e potenzialmente conflittuale, capace di porsi variamente in relazione con se stessa. La tripartizione politico-sociale della città deve rispecchiarsi in una tripartizione dell'anima umana in un elemento con il quale apprendiamo, un elemento con il quale proviamo emozioni che ci spingono ad agire, e un elemento con il quale proviamo appetiti. [435c ss]

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Per un sapere rigoroso sul molteplice

Prima di affrontare il tema delle parti dell'anima, Socrate cerca di render rigorosi i suoi strumenti logici in merito a due questioni:
  1. la possibilità di parlare di una stessa cosa in rispetti differenti senza cadere in contraddizione;
  2. la definizione di termini la cui caratteristica essenziale è la relazione a un oggetto.
(1) E' possibile descrivere nella sua molteplicità un elemento assunto come unitario senza cadere in contraddizione, se ricorriamo all'espediente di suddividerlo in parti distinte. Per esempio, una trottola che ruota mantenendo fisso il suo asse potrebbe, sofisticamente, essere detta immobile e in movimento nella stesso tempo. Ma questa contraddizione cade se si suddivide la trottola in asse e circonferenza, e si dice che il primo, essendo fisso, resta immobile, mentre la seconda gira. [436d-437a]

(2) Quando si definiscono termini in base ad una relazione con un oggetto, la definizione può colpire un bersaglio determinato solo se questo oggetto è una e una sola cosa, definita rigorosamente, e sono messe fra parentesi le caratteristiche accessorie o accidentali degli oggetti con i quali si attualizza, di volta in volta, la relazione. Per esempio, la sete è un desiderio che si definisce in relazione al bere. Se considerassimo elementi come la qualità o la quantità delle bevande (buone o cattive, calde o fredde), la nostra definizione "in relazione a" diventerebbe confusa, proprio perché ridondante rispetto a quanto richiesto. Una definizione di un oggetto (un desiderio o una scienza, per esempio) in base alla sua relazione con un altro, deve essere "economica", se vuol essere funzionale. In secondo luogo, la relazione con un oggetto, che caratterizza il termine da definire, non comporta affatto che al termine si trasferiscano la qualità dell'oggetto. E' la relazione con l'oggetto, e non l'oggetto stesso, che caratterizza il definiendum: per esempio, la medicina è scienza del sano e del malato, ma non ne segue che essa stessa sia sana o malata.[437b ss]
La mentalità comune, educata poeticamente, si basava su serie paratattiche di esempi, per forza di cose ridondanti e confusi. Le puntualizzazioni logiche di Socrate fanno ricorso agli strumenti dialettici della sofistica per elaborare i canoni del nuovo sapere concettuale.


Dalla tesi (1) segue che è possibile parlare in rispetti differenti e in termini contraddittori di un elemento assunto come unitario, il singolo uomo o la polis nel suo complesso, se lo suddividiamo in parti.

La divisibilità logica di qualsivoglia elemento in parti sembra dimostrare che la prospettiva di Platone è molto lontana dall'olismo metafisico, se per olismo si intende una posizione per la quale esistono interi semplici, che sono essenziali per la spiegazione della realtà. Per il Socrate del IV libro, nulla è semplice e tutto si può suddividere, purché si indichino con chiarezza i criteri della divisione.


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La tripartizione dell'anima

Queste puntualizzazioni logiche permettono a Socrate di esporre la dottrina della tripartizione dell'anima: la psiche individuale, nelle sue relazioni interne, è come un campo conflittuale. E la composizione dei conflitti interiori, in base a un ideale di autonomia razionale, è il vero compito della giustizia. La giustizia non è una questione di ingegneria istituzionale o di forme giuridiche, ma è in primo luogo un problema morale e culturale, connesso alla comunicazione e alla distribuzione del sapere.
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Socrate arriva ad affermare che il principio in base al quale ciascuno deve fare il lavoro che più gli si addice era un eidolon o un simulacro di giustizia: la vera giustizia non sta nei comportamenti esteriori, bensì nell'autonomia e nell'armonia interiore del singolo. La giustizia è la capacità di autogovernarsi. Per questo motivo, il giusto possiede anche l'eudaimonia, cioè ha un felice rapporto con se stesso e col mondo. [443c ss]
La forma di politeia (costituzione) analizzata nel IV libro viene chiamata da Socrate basileia (regno) se il filosofo-governante è uno solo, o aristokratia (aristocrazia) se gli eccellenti al potere sono più di uno. [445d]

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