LATTANZIO

 

 

"Voglio dunque esporre quell’importantissima verità che mai i filosofi, che pur hanno detto il vero, hanno potuto scoprire, perché non seppero dedurre fino in fondo le conseguenze. Il mondo è stato creato da Dio, perché nascesse l’uomo. Gli uomini sono stati creati, perché riconoscessero Dio come padre: in ciò consiste la sapienza. Essi riconoscono Dio per onorarlo: in ciò consiste la giustizia. Essi lo onorano, per riceverne il premio dell’immortalità. Ricevono poi il premio dell’immortalità, per servire Dio in eterno. Vedi dunque come tutto è concatenato: il principio con il mezzo, e il mezzo con la fine? Consideriamo dunque le singole asserzioni, e vediamo se le prove reggono. Dio ha creato il mondo per l’uomo. Chi non vede ciò, non si distingue molto dagli animali. Chi guarda su in cielo, fuori che l’uomo? Chi ammira il sole, le stelle e tutte le altre opere di Dio, fuori che l’uomo? Chi coltiva la terra? Chi ne raccoglie i frutti? Chi naviga sul mare? Chi ha in suo potere i pesci, gli uccelli e i quadrupedi, se non l’uomo? Dunque Dio ha fatto tutto in vista dell’uomo, perché tutto è stato lasciato in uso all’uomo. Ciò hanno riconosciuto rettamente anche i filosofi pagani; ma la conseguenza che ne risulta, non l’hanno vista: che cioè Dio ha creato l’uomo stesso per Dio. Eppure questa sarebbe stata la conclusione ovvia, doverosa e necessaria" (Epitome delle Divine Istituzioni, 36-37).


Vita 

L. Cecilio Firmiano Lattanzio nacque in Africa da famiglia pagana intorno alla metà del III secolo d.C.: fu allievo di Arnobio a Sicca. Per la sua fama di retore, Lattanzio fu chiamato da Diocleziano a Nicomedia, in Bitinia, capitale della parte orientale dell'Impero e residenza ufficiale dell'imperatore, come insegnante di retorica latina. Convertitosi in data imprecisata al cristianesimo, dopo gli scarsi risultati nell'insegnamento (data la prevalenza a Nicomedia di allievi greci), fu costretto a ritirarsi dall'incarico perché colpito dalle persecuzioni del 303, vivendo in miseria. Lattanzio abbandonò la Bitinia nel 306 per ritornarvi cinque anni dopo, forse grazie all'editto di tolleranza di Galerio, e nel 317 fu chiamato da Costantino a Treviri, in Gallia, come precettore di Crispo, figlio dell'imperatore. Probabilmente morì a Treviri dopo questa data. Tra il 303 e il 317 Lattanzio compone una nutrita serie di scritti apologetici, assumendo come modello il latino di Cicerone, fluente e architettonicamente ben strutturato: tra questi, le Istituzioni divine (Divinae Institutiones), in sette libri, sono un attacco indirizzato alla religione e alla filosofia pagane, alle quali il nostro autore contrappone i capisaldi della dottrina cristiana. L’opera Sulla creazione di Dio (De opificio Dei) è invece innervata dall’elogio della sapienza dispiegata da Dio nel creare l’uomo, del quale Lattanzio esalta la bellezza e la finalità. Sulle morti dei persecutori (De mortibus persecutorum) è invece un’opera dedicata alla tremenda fine dei persecutori dei Cristiani.  


Opere 

Perdute le opere che precedettero la conversione, nonché l'epistolario, di Lattanzio abbiamo – come dicevamo poc’anzi –   numerosi scritti apologetici: 

1.     De opificio Dei (303-304): in quest'opera, Lattanzio esalta la potenza divina che si riflette nell'atto della creazione di quel microcosmo che è il corpo umano. 

2.     Divinae Institutiones (304-313): il titolo si contrappone alle Institutiones pagane, di tipo oratorio o giuridico; si tratta, infatti, di un trattato in sette libri che si propone non solo l'apologia del Cristianesimo tramite la confutazione degli errori pagani (libri I-III: De falsa religione, De origine erroris, De falsa sapientia), ma anche di fornire ai cristiani un manuale sistematico in cui dare un'esposizione complessiva del pensiero cristiano (libri IV-VII: De vera sapientia et religione, De iustitia, De vero cultu, De vita beata). Il grande successo dell'opera portò Lattanzio stesso a farne, dopo il 314, un riassunto (Epitome). 

3.     De ira Dei (dopo il 313): Lattanzio polemizza con gli Stoici e gli Epicurei, sostenitori dell'atarassia e dell'imperturbabilità degli dèi, affermando che Dio interviene nelle vicende umane, in bene o in male, specie per punire gli uomini che lo offendono. In particolare, Lattanzio si accanisce contro Epicuro e la sua convinzione del disinteresse divino per le umane vicende.  

4.     De mortibus persecutorum (316-21): di dubbia attribuzione per la violenza dello stile e delle sferzanti requisitorie, l'opera intende dimostrare che Dio ha sempre punito i persecutori dei cristiani, da Nerone in poi. L'attribuzione è dubbia per l'insistenza sulle immagini macabre e allucinate delle varie morti dei persecutori e per la violenza ed il compiacimento per la loro punizione, estranee alla medietà stilistica ed argomentativa di Lattanzio. Gli imperatori si dividono in due categorie: quelli che hanno tollerato o aiutato il Cristianesimo e quelli che l’hanno perseguitato. Contro questi ultimi si è abbattuta l’ira divina, che ha inferto loro tremende punizioni. Tra gli imperatori “amici” del Cristianesimo spicca la figura di Costantino, che assurge a vero e proprio simbolo del rapporto tra potere e Chiesa.  

5.     Carmen de ave Phoenice: di attribuzione incerta, è un carme simbolico che descrive, in 85 distici elegiaci, il mito della leggendaria fenice, che rinasce dalle sue ceneri: chiaramente nella fenice si adombra l'immortalità dell'anima o la resurrezione di Cristo. 


Considerazioni 

Lattanzio è essenzialmente un retore, che però possiede notevoli conoscenze filosofiche: come il suo maestro Arnobio, convertitosi al cristianesimo nell'età matura, resta legato più profondamente a schemi argomentativi e teorici della cultura classica, specie neoplatonica, assorbendo superficialmente gli elementi dottrinari e teologici cristiani. Già affermava san Girolamo, nelle sue biografie degli scrittori cristiani: “Lattanzio, che è quasi un fiume di eloquenza ciceroniana, magari avesse reso salde le nostre dottrine come ha smontato quelle altrui!”. Infatti, Lattanzio eccelle nella forma, in cui imita l'ampio periodare e il lessico di Cicerone, proponendosi in questo modo di accostare al cristianesimo i pagani colti. Tuttavia tanto la sua conoscenza della dottrina cristiana quanto in generale la sua cultura filosofica non sono all'altezza di questo stile, poiché spesso Lattanzio confonde e sbaglia nell'interpretare le stesse dottrine filosofiche pagane, attingendo il più delle volte a raccolte manualistiche e a compendi che legge erroneamente o frettolosamente. Resta comunque ammirevole il suo stile fluente e il fatto che l'argomentazione sia stringente e segua un preciso filo logico, secondo i dettami retorici. Nel De opificio Dei traspare un’evidente impostazione filosofica, mentre le Divinae Institutiones sembrano ormai lontane dalla filosofia e saldamente ancorate nella tradizione della sistematizzazione della dottrina cristiana. Interessantissimo è lo studio che il nostro autore conduce sul politeismo, indagandone le radici a partire dalla divinizzazione dei grandi uomini. In contrapposizione con Tertulliano, che traccia una vera e propria cesura tra filosofia antica e Cristianesimo, Lattanzio sembra sostenere che l’insuperabile grandezza del Cristianesimo risieda nella capacità di appropriarsi al meglio della cultura dei Greci, dei quali è, in un certo senso, il “frutto” naturale. E del resto, Lattanzio intrattiene coi filosofi greci un dialogo incessante, quasi come se anch’essi avessero sinceramente cercato la verità con ogni sforzo senza però riuscire a rinvenirla poiché non soccorsi dalla Rivelazione cristiana. Si tratta dunque di recuperare quanto di vero la ragione ha scoperto tramite i filosofi per poi arricchirlo dell’eterna verità rivelata da Dio.       

 

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