IL IV LIBRO DEL DE RERUM NATURA

Un riferimento alla grande opera di Lucrezio "Sulla natura delle cose" ("De rerum natura") proviene da un illustre pensatore a lui contemporaneo: Cicerone. Questi, in una delle sue lettere private "Ad familiares", riferisce di essersi personalmente curato della pubblicazione del testo lucreziano, ma poi, di fatto, in nessuno dei suoi numerosi scritti a carattere filosofico fa il nome di Lucrezio, pur menzionando costantemente Epicuro e la nutrita schiera di Epicurei. Lo stesso poema lucreziano è avvolto da un'aura di mistero, che i molti studi svolti su di esso non sono stati in grado di diradare completamente: ad una prima lettura dell'opera, si ha l'impressione che non si tratti di un'opera conclusa e rivista, e questo soprattutto perché abbondano i passi ripetuti o dal significato oltremodo oscuro. Cercheremo ora di soffermare la nostra attenzione sul IV dei sei libri in cui è strutturato il "De rerum natura": se al centro del III era la discussione sulla natura dell'anima (intesa, secondo i dettami della filosofia epicurea, come un aggregato di atomi), il IV libro è dedicato alle sensazioni. Il proemio stesso è curiosamente diverso rispetto a tutti gli altri: non troviamo, infatti, un elogio della figura del maestro Epicuro e della sua dottrina salvifica, bensì una giustificazione che Lucrezio stesso dà della propria opera, anche sul piano della scelta stilistica. Egli può vantarsi di essere stato il primo ad intraprendere un'opera di tal genere:

Percorro remote regioni delle Pieridi, ove nessuno prima
impresse orma. Godo ad appressarmi alle fonti intatte
e bere, e godo a cogliere nuovi fiori
e comporre per il mio capo una corona gloriosa,
di cui prima a nessuno le Muse abbiano velato le tempie;
anzitutto perché grandi cose io insegno, e cerco
di sciogliere l'animo dagli stretti nodi della superstizione;
poi perché su oscura materia compongo versi tanto luminosi,
tutto cospargendo col fascino delle Muse.
Infatti anche questo appare non privo di ragione.

Il merito che egli attribuisce a se stesso, come portavoce del messaggio epicureo, è di aver liberato l'uomo dal pesante fardello della superstitio , per Lucrezio sinonimo di religio (merita di essere ricordato come invece in Cicerone i due termini fossero rigorosamente distinti, tant'è che l'Arpinate poteva fieramente affermare: superstitio, non religio, tollenda est ), e, così facendo, di avergli donato la felicità, concepita come assenza di turbamenti: quella di Lucrezio, com'egli stesso tiene a sottolineare, non è una banale traduzione in latino della precettistica epicurea, ma, piuttosto, un'interpretazione ragionata, e Lucrezio asserisce di aver scelto di scrivere in versi in funzione pedagogica, per la stessa ragione per cui Platone si serviva di un linguaggio immaginifero e ricco di miti. La poesia, come è noto, fa presa sull'animo umano, e oltre a trasmettere i severi insegnamenti epicurei, può anche allietare il cuore di chi la legge:

Come i medici, quando cercano di dare ai fanciulli
il ripugnante assenzio, prima gli orli, tutt'attorno al bicchiere,
cospargono col dolce e biondo liquore del miele,
perché nell'imprevidenza della loro età i fanciulli siano ingannati,
non oltre le labbra, e intanto bevano interamente l'amara
bevanda dell'assenzio e dall'inganno non ricevano danno,
ma al contrario in tal modo risanati riacquistino vigore;
così io ora, poiché questa dottrina per lo più pare
troppo ostica a coloro che non l'hanno coltivata,
e il volgo rifugge lontano da essa, ho voluto esporti
la nostra dottrina col canto delle Pieridi che suona soave,
e quasi cospargerla col dolce miele delle Muse,
per provare se per caso potessi in tal modo tenere
avvinto il tuo animo ai miei versi, finché comprendi tutta
la natura e senti a fondo il vantaggio.

L'impatto con la dottrina di Epicuro può essere aspro, poiché stravolge le convinzioni in cui la maggior parte degli uomini vive: tuttavia, mettendo in versi tali verità e quindi rendendole meno sgradite, alla pari dello stratagemma con cui i medici cospargono di miele le medicine per renderle meno detestabili, viene fornita la cura ai mali dell'uomo (di un'immagine analoga si avvarrà il Tasso nella sua "Gerusalemme liberata"). La medicina è amara ma reca salute: ne sono destinatari i bambini, ovvero tutti coloro che non hanno ancora sviluppato facoltà razionali e vivono seguendo le convinzioni comuni. Immediatamente dopo questi versi, Lucrezio introduce la dottrina dei simulacra , termine col quale traduce la parola che in Epicuro (e in Democrito) designava le rappresentazioni di costituzione atomica delle cose: gli eidwla .

Esistono quelli che chiamiamo simulacri delle cose;
i quali, come membrane strappate dalla superficie delle cose,
volteggiano qua e là per l'aria; e sono essi stessi
che atterriscono gli animi, presentandosi a noi,
sia mentre vegliamo, sia nel sonno, quando spesso osserviamo
figure strane e spettri di gente che ha perduto la luce della vita,
i quali spesso, mentre languivamo addormentati, paurosamente
ci svegliarono: perché non crediamo, per caso, che le anime
fuggano dall'Acheronte o che le ombre volteggino tra i viventi
o che qualcosa di noi possa durare dopo la morte,
quando il corpo e la natura dell'animo insieme disfatti
si sono disgregati nei loro diversi principi primi.

Nella prospettiva epicurea, di cui Lucrezio è vessillifero, i simulacra sono immagini atomiche che provengono da tutto ciò che circonda e colpiscono i nostri organi di senso; se, tuttavia, non ci fosse l'anima e, con essa, la sua capacità di riflettere su di essi, non si potrebbero avere sensazioni. I simulacra vengono anche da Lucrezio accostati a membrane o alla corteccia, poiché, in effetti, le membrane e la corteccia ne sono il corrispettivo visivo: tali "membrane" si distaccano dalla superficie esterna dei corpi (il termine "corteccia" rende bene l'idea) per via di un "pulsare" dei corpi stessi e, volteggiando nell'aria, giungono ai nostri organi di senso, riportando fedelmente la forma dell'oggetto quale esso è (i simulacra possono tuttavia anche riportare l'interno dei corpi da cui provengono, anche la disposizione mentale degli individui da cui giungono). Questa emissione di pellicole degli oggetti si configura come un flusso continuo e ciò vale per tutti gli oggetti del mondo:

Dico dunque che immagini delle cose e tenui figure
sono emesse dalle cose e si staccano dalla loro superficie.
Ciò si può conoscere di qui, anche con mente ottusa.
Ma, poiché ho insegnato quali siano i principi
di tutte le cose e quanto differenti per varietà di forme
spontaneamente volteggino, stimolati da moto eterno,
e in che modo da questi si possa produrre ogni cosa,
ora comincerò a dirti ciò che con queste cose è connesso
strettamente: esistono quelli che chiamiamo simulacri delle cose,
cui si può dare quasi il nome di membrane o di corteccia,
poiché l'immagine presenta aspetto e forma simile all'oggetto,
qualunque sia, dal cui corpo essa appare emanata per vagare.
Anzitutto, poiché molte tra le cose visibili emettono
corpi, in parte liberamente diffusi,
come la legna emette fumo e il fuoco calore,
e in parte più strettamente contesti e densi, come si vede
talora, quando le cicale in estate depongono le fini tuniche,
e quando i vitelli nascendo lasciano cadere membrane
dalla superficie del corpo, e similmente quando la lubrica
serpe lascia tra i pruni la veste: infatti spesso vediamo
i pruneti coperti di svolazzanti spoglie di serpi -
poiché tali cose accadono, una tenue immagine deve pure
dalle cose essere emessa, staccarsi dalla superficie delle cose.

Per Democrito, gli eidwla volteggiavano per l'aria, ma, ad avviso di Epicuro, è più corretto parlare di vuoto, poiché talvolta l'aria può distorcere gli eidwla stessi e mutarne l'essenza: Lucrezio, dal canto suo, parla espressamente di "velocità" dei simulacra . Anche quando dormiamo abbiamo percezioni: i fenomeni onirici sono, infatti, secondo Lucrezio un fatto percettivo, anche se le percezioni cui siamo soggetti nei sogni non sono vere, altrimenti non si spiegherebbe perché ci capita spesso di rivedere in sogno persone decedute o cose irreali. Questo sarà dunque dovuto ad una percezione "falsa" o, meglio, alla casuale formazione di immagini che non rispecchiano la realtà. Lucrezio si trova di fronte al difficile problema di dimostrare al suo pubblico l'esistenza di questi simulacra che volteggiano per l'aria e che rendono possibile la percezione ma che non sono direttamente visibili: per convincerci definitivamente della veridicità del suo discorso, egli cerca, sulle orme del maestro Epicuro, di ravvisare un equivalente esperibile dei simulacra , un equivalente che attesti la possibilità che queste sottilissime "pellicole" si stacchino dagli oggetti giungendo fino a noi. Così come, nell'ambito visibile, i serpenti e le cicale, nel periodo della muta, perdono la pelle o come il fumo si distacca dal fuoco, così anche, per inferenza dal visibile all'invisibile, si può pensare che accada qualcosa di simile a livello atomico, immaginando che ogni corpo ceda incessantemente flussi di sottili atomi dalla sua superficie. Dopo aver rapidamente descritto l'analogo visibile dei simulacra , Lucrezio torna, dai versi 63 in poi, a soffermarsi su ciò che gli sta a cuore, il mondo atomico:

Poiché tali cose accadono, una tenue immagine deve pure
dalle cose essere emessa, staccarsi dalla superficie delle cose.
Infatti, perché cadano e si scostino dalle cose quegli oggetti
piuttosto che altri più sottili, non è possibile dire;
tanto più che le cose hanno in superficie molti corpi
minuti, tali che possono volarne via nello stesso ordine
in cui erano, conservando la forma esteriore,
tanto più velocemente, quanto meno possono essere impediti,
pochi come sono, e collocati in prima linea.

Anche dai corpi, dunque, una qualche "tenue immagine" ( tenuis imago ) deve staccarsi: e, proprio perché "tenue", e quindi leggera, non c'è da stupirsi che essa sia in grado di volteggiare per l'aria. Lucrezio afferma, con assoluta certezza, che il fatto stesso che i simulacra siano sottili fa sì che essi siano anche veloci, dinamici e penetranti: tuttavia, sul perché le cose procedano in questo modo, Lucrezio è chiarissimo (versi 65 e seguenti):

…perché cadano e si scostino dalle cose quegli oggetti
piuttosto che altri più sottili, non è possibile dire;

E' impossibile, egli nota, spiegare il perché ("cur") delle cose, dal momento che si tratta di un procedimento retto dal caso e quindi esulante da ogni finalità: con quest'affermazione, già presente in Epicuro e in Democrito, viene definitivamente espunta quella causa finale che stava alla base della filosofia di Platone e di Aristotele; ancora Dante, in età medioevale, si stupirà dell'annullamento della causa finale da parte degli atomisti ed etichetterà sarcasticamente Democrito come colui "che 'l mondo a caso pone" (Inferno, IV). Come accennavamo, la piccolezza dei simulacra ne spiega anche l'incredibile rapidità di movimento: infatti, come già notava Epicuro, solo se essi sono di velocità pari a quella del pensiero si può ammettere che riportino fedelmente le cose da cui si sono distaccati, rendendo in tal maniera certa la sensazione. Tuttavia, è necessario riconoscere che la materia che si stacca continuamente dai corpi sotto forma di simulacra non sia superiore a quella acquisita, altrimenti il corpo non sussisterebbe: questo vale, appunto, fino a che il corpo non si disgrega, e anche questo avviene casualmente, senza progettualità alcuna: ecco perché Cicerone osservava scandalizzato come non ci fosse nulla di eterno nella fisica epicurea. I versi 110/122 sono dedicati alla speciale costituzione dei simulacra:

E ora apprendi di che tenue natura consti l'immagine.
E in primo luogo, considera quanto i primi principi
sono al di sotto dei nostri sensi e quanto più piccoli delle cose
che gli occhi primamente cominciano a non potere più scorgere.
Ora, tuttavia, affinché io ti confermi anche questo, apprendi
in poche parole quanto siano sottili i principi di tutte le cose.
Anzitutto, già ci sono alcuni animali talmente piccoli
che una terza parte di loro non si può in alcun modo vedere.
Un viscere qualunque di questi, come si deve credere che sia?
E il globo del cuore o dell'occhio? E le membra? E gli arti?
Quanto son piccini? Che dire poi di ciascuno dei primi princìpi
di cui deve constare la loro anima e la natura dell'animo?
Non vedi forse quanto siano sottili e quanto minuti?

Gli atomi non si vedono non già perché sono incorporei, bensì perché talmente piccoli da non riuscire ad essere colti dai nostri occhi; si tratta dunque di trovare, ancora una volta, un analogo nel mondo visibile, attraverso il quale esemplificare ciò che accade anche a livello atomico. E a tal proposito Lucrezio adduce come esempio l'esistenza di animali piccolissimi, ma pur tuttavia visibili, dei quali non riusciamo però a cogliere la composizione interna. Pur non riuscendo a visualizzare le loro viscere, ciononostante sappiamo che esse esistono: così dobbiamo, similmente, pensare che ogni corpo che ci circonda e che vediamo sia costituito, nella sua struttura, da una miriade di atomi ( corpora per Lucrezio, swmata per Epicuro) a noi invisibili. Tali atomi, come aveva detto Epicuro nella "Lettera ad Erodoto", sono "il minimo dei minimi", la parte più piccola ch'io possa immaginare dividendo un corpo fino alle sue parti minime: il termine "atomo", del resto, è di origine greca e, letteralmente, significa "ciò che non può essere (ulteriormente) tagliato" (da a + temnw ). Il mondo che ci circonda è continuamente percorso dai simulacra che volano e già nel libro II, per esemplificare, Lucrezio, per farci meglio capire che cosa intendesse, ci aveva invitati ad immaginare la penombra di una casa dalla cui finestra penetra un fascio di luce in cui scorgiamo una miriade di particelle di polvere. Ora, nei versi 143/160 del libro IV, Lucrezio mette in evidenza come l'aria che ci circonda sia una sorta di officina per il formarsi di immagini: svolazzando per l'aria, infatti, succede casualmente che i simulacra provenienti da oggetti diversi si incontrino e diano luogo alla formazione delle immagini più bizzarre:

Ora, in che facile e celere modo si generino quei simulacri,
e di continuo fluiscano dalle cose e staccatisi s'allontanino,
[io esporrò...] ...
sempre infatti ciò che è all'estrema superficie trabocca
dalle cose, sì che esse possono emetterlo. E quando ciò raggiunge
altre cose, le attraversa, come fa soprattutto con la stoffa.
Ma, quando ha raggiunto aspre rocce o legname, lì sùbito
si lacera, sì che non può rimandare alcun simulacro.
Ma, quando fanno ostacolo oggetti risplendenti e densi,
qual è soprattutto lo specchio, niente di simile accade.
Infatti non può attraversarli, come la stoffa, né d'altra parte
può lacerarsi: a conservarlo così illeso provvede la levigatezza.
Perciò avviene che di lì tornino a noi riflessi i simulacri.
E per quanto subitamente, in qualsiasi momento, tu ponga
una cosa qualunque contro uno specchio, appare l'immagine;
sì che puoi conoscere che sempre fluiscono dalla superficie
dei corpi tessuti tenui e tenui figure delle cose.
Dunque, molti simulacri in breve tempo si generano,
sì che a ragione può dirsi che per tali cose sia celere il nascere.

La funzione dell'aria nella costituzione delle immagini è quella di mezzo di trasmissione tra oggetti percepiti e soggetto percipiente; e, il passo appena riportato, prelude a come possano formarsi immagini di cose inesistenti (mostri favolosi o persone scomparse): è infatti in virtù dell'incontro casuale di atomi provenienti dai corpi più disparati che ciò accade: ai versi 129/142 Lucrezio dice:

Ma, affinché tu non creda, per caso, che vadano vagando solo
quei simulacri che si distaccano dalle cose, e non altri,
esistono anche quelli che si generano spontaneamente
e si formano da soli in questa regione del cielo
che si chiama aria, e foggiati in molti modi volano in alto,
come talora vediamo le nuvole facilmente formarsi nell'alto
del cielo e oscurare il sereno aspetto del firmamento,
accarezzando l'aria col moto: ché spesso si vedono volare
volti di Giganti e spander l'ombra per ampio spazio,
talora grandi monti e macigni divelti
dai monti avanzare e passar davanti al sole,
poi una belva tirarsi dietro altri nembi e guidarli.
E fondendosi non cessano di mutare il proprio aspetto
e assumere contorni di forme d'ogni specie.

Particolarmente curioso è il paragone che Lucrezio fa tra le nuvole e i simulacra , un paragone che rende molto bene l'idea della sottigliezza e dell'impalpabilità di questi ultimi e di come essi cambino rapidamente forma, cosicchè ora ci appaiono come massi, ora come temibili mostri, ora come giganti. L'immagine della nuvola è destinata ad avere, in filosofia, gran successo: già Aristotele, nel suo scritto Sui sogni , per mostrare l'ingannevolezza delle immagini che abbiamo nei sogni, le accostava alle forme che vediamo nelle nuvole; molti secoli dopo, Schopenhauer si farà beffe di Hegel e del suo vedere una razionalità nella storia paragonandolo a quelli che nelle nuvole scorgono ora la forma di un cane, ora di un uomo, e così via. Ancora Heidegger, nel Novecento, ponendo l'accento sulla centralità indiscussa del linguaggio, dirà che " il linguaggio è il linguaggio dell'essere come le nuvole sono le nuvole del cielo" ("Lettera sull'umanismo"). Dai versi 176 in poi, Lucrezio si sofferma sulla rapidità dei simulacra , sul loro muoversi celeri motu e sul fatto che attraversano ogni spazio istantaneamente:

E ora, con che celere moto procedano i simulacri
e quale mobilità nell'attraversare a nuoto l'aria sia ad essi data,
sì che in lungo tragitto si consuma breve tempo,
quale che sia il luogo a cui ciascuno con diverso impulso tende,
esporrò in versi soavi piuttosto che numerosi;
così il breve canto del cigno è migliore di quel clamore
delle gru disperso tra le eteree nubi dell'Austro.
Anzitutto, molto spesso si può vedere che le cose leggere
e fatte di corpi minuti sono celeri.
Di tale specie sono, certo, la luce del sole e il suo calore
perché sono fatti di elementi minuti,
che vengono quasi battuti e non esitano ad attraversare
l'aria interposta, incalzati dal colpo susseguente.
Sùbito infatti luce succede a luce e, come in serie
ininterrotta, splendore è stimolato da splendore.
Perciò bisogna che i simulacri parimenti possano
trascorrere in un istante attraverso uno spazio
inimmaginabile, anzitutto perché c'è una piccola causa
lontano, da tergo, che li sospinge e li caccia innanzi,
quando, del resto, essi procedono con tanto alata levità;
poi perché vengono emessi dotati di un tessuto così rado
che posson penetrare facilmente in cose di qualunque tipo
e, per così dire, infiltrarsi attraverso l'aria interposta.

Per rendere più facilmente comprensibile la dimostrazione di questo punto, Lucrezio fa di nuovo appello (come già aveva fatto nell'incipit del libro IV) alla poesia: come il canto del cigno è preferibile allo stridore delle gru, così anche le soavi parole della poesia piaceranno di più rispetto alla fredda andatura della prosa (versi 181/182):

Così il breve canto del cigno è migliore di quel clamore
delle gru disperso tra le eteree nubi dell'Austro.

I simulacra , grazie alla sottigliezza e alla velocità che li contraddistinguono, volando fendono l'aria ( tranantibus auras ) e quanto più sono leggeri tanto più sono veloci: per i singoli atomi, come aveva acutamente notato Epicuro, è opportuno parlare di "equivelocità", ovvero di velocità pari a quella del pensiero; i composti atomici, invece, poiché più pesanti (in quanto aggregati di più atomi) sono più lenti nel muoversi. Nel loro movimento, gli atomi possono incontrare altri atomi, più piccoli o più grandi, e nello scontro si produce un urto che fa rimbalzare gli atomi più lontano o più vicino a seconda della loro grandezza stessa. La velocità con cui viaggiano gli atomi è talmente elevata che ci è impossibile percepire la distanza che essi hanno percorso: e la loro velocità è dovuta, oltre che alla leggerezza che li contraddistingue, al fatto che, in analogia con la tessitura, essi riportano la trama dell'oggetto, un tessuto rado e fluttuante, che consente loro di penetrare ogni superficie (versi 190 e seguenti):

…bisogna che i simulacri parimenti possano
trascorrere in un istante attraverso uno spazio
inimmaginabile, anzitutto perché c'è una piccola causa
lontano, da tergo, che li sospinge e li caccia innanzi,
quando, del resto, essi procedono con tanto alata levità;
poi perché vengono emessi dotati di un tessuto così rado
che posson penetrare facilmente in cose di qualunque tipo
e, per così dire, infiltrarsi attraverso l'aria interposta.

Così, se poniamo a terra una superficie riflettente quando c'è il cielo stellato, lo vedremo immediatamente riflesso, in modo istantaneo; e, similmente, con altrettanta velocità, gli atomi giungono ai nostri organi di senso. Lucrezio dà molto spazio al senso della vista, quasi come se -aristotelicamente- lo ritenesse un senso privilegiato, superiore agli altri; e nei versi 353 e seguenti affronta, in relazione a tale tematica, un problema su cui Epicuro si era particolarmente affaticato: se è vero che la sensazione è certa e non ingannatrice, come la dottrina epicurea ritiene, allora come si spiega che talvolta i sensi ci attestano le cose diversamente da come esse in realtà sono? Come mai il remo immerso in acqua ci appare spezzato? O, per attenerci all'esempio che Lucrezio adduce ai versi 353 e seguenti, come mai le torri quadrate, viste da distante, ci sembrano rotonde? E' un problema di primaria importanza e la posta in palio è alta: se non si riesce ad argomentare contro la fallacia delle testimonianze sensibili salta l'intera filosofia epicurea. Restando al paradosso delle torri, secondo Lucrezio è assolutamente vero ciò che ci attestano i sensi, sia quando (da vicino) ci dicono che le torri sono quadrate, sia quando (da lontano) ci dicono che esse sono tondeggianti: i nostri occhi non cadono in inganno, ma vedono da distante le torri a forma rotonda e non quadrata perché gli atomi che da esse si staccano e che dovrebbero riportarci la spigolosità che rende quadrate le torri vengono smussati dal contatto con l'aria. L'errore, secondo Lucrezio, consiste nel dire che le torri sono rotonde anziché quadrate, poiché, così facendo, si formula un giudizio prima di aver effettivamente visto le torri direttamente da vicino:

E quando vediamo da lungi le quadrate torri d'una città,
per ciò spesso avviene che sembrino rotonde,
perché di lontano ogni angolo si vede ottuso
o piuttosto non si vede affatto e se ne perde
il colpo, né la percossa perviene alle nostre pupille,
perché, mentre i simulacri viaggiano per molta aria,
coi frequenti scontri l'aria la costringe ad ottundersi.
[…]Né tuttavia concediamo che qui gli occhi s'ingannino in nulla.
Giacché vedere in quale luogo sia la luce e in quale l'ombra,
è loro proprietà; ma se sia o non sia la stessa luce,
e se la stessa ombra che fu qui, passi ora là,
o piuttosto accada ciò che abbiamo detto poc'anzi,
questo deve discernerlo soltanto il ragionare della mente,
né possono gli occhi conoscere la natura delle cose.
Dunque non attribuire falsamente agli occhi questo errore della mente.

Lucrezio, oltre all'esempio delle torri, ricorre ad un'ampia casistica di illusioni ottiche, che fanno sì che pensiamo la realtà diversamente da come essa è: in particolare, ai versi 426 e seguenti, cita il caso dell'illusione prospettica, quando un portico, visto da una certa prospettiva, può apparire stringersi a cono:

Un portico, ancora, benché sia di tracciato uniforme
e stia da un capo all'altro sorretto su colonne uguali,
tuttavia, se vien guardato da un'estremità per tutta la lunghezza,
a poco a poco si contrae nel vertice di un cono angusto,
congiungendo il tetto al suolo e tutto il lato destro al sinistro,
finché li unisce nell'oscura punta di un cono.

Ai versi 447/452, con un esempio desunto da Aristotele (dal suo scritto "Sui sogni"), Lucrezio ci fa notare come quando schiacciamo con un dito l'occhio, poi vediamo tutto raddoppiato:

E se per caso una mano, posta sotto un occhio, di sotto
lo preme, per una certa sensazione accade che tutte le cose
che guardiamo sembrino farsi allora doppie al guardarle,
doppie le luci delle lucerne che fioriscono di fiamme
e doppia per tutta la casa farsi la suppellettile
e duplici le facce degli uomini e doppi i corpi.

Tuttavia, con questi numerosi esempi, Lucrezio non vuol dimostrare l'ingannevolezza dei sensi, ma, al contrario, argomentare contro lo Scetticismo e le contraddizioni che scaturiscono da esso: dubitare della sensazione, come fanno gli Scettici, conduce infatti a dubitare di ogni cosa e, dunque, rende impossibile vivere. Peraltro, nota Lucrezio, lo stesso affermare di non sapere nulla è altamente contraddittorio: poiché, affermando con certezza di non sapere nulla, si è già in possesso di una forma di sapere: il sapere di non sapere. Tuttavia, Lucrezio non vuole ancora chiudere la partita con gli Scettici e, così, concede loro l'ammissibilità di questa tesi poc'anzi dimostrata contraddittoria: resta comunque il fatto che per affermare di non poter conoscere nulla, gli Scettici debbano almeno sapere che cosa significhi conoscere, quale sia la differenza tra certezza e dubbio, tra vero e falso, tra sapere e non sapere, ecc. E, nota Lucrezio, dove potrebbe essere il criterio per distinguere il vero dal falso, il certo dal dubbio, e così via, se non in quel qualcosa che non può mai essere contraddetto, ovvero l'esperienza? Poiché è dai sensi che nasce la nozione di vero e di falso, dal momento che ciascuna sensazione è, di per sé, vera. Questo è facilmente dimostrabile con l'arma scettica del regresso all'infinito: se non credo ai sensi (come fanno gli Scettici), devo trovare qualcosa di più affidabile rispetto ad essi, e per trovarlo ho bisogno di qualcos'altro che mi permetta di valutarlo, e così via all'infinito. Resta da chiedersi se la ratio , la ragione, sia più verace dei sensi: quasi come se essa fosse portavoce della verità e i sensi della menzogna. Ma, se così fosse, anche la ratio sarebbe distrutta automaticamente, giacchè il pensiero razionale esercitato dall'uomo poggia sulla sensazione, cosicchè se è ingannatrice questa, lo è anche quella. Ma dato che i sensi non sono ingannatori, anche la ragione è salva: ciascuno di essi, secondo Lucrezio (che qui rivela marcate influenze aristoteliche), percepisce secondo verità quelli che Aristotele definiva i "sensibili propri", cioè propri di ciascun senso, con l'inevitabile conseguenza che i sensi non si smentiscono a vicenda, ma cooperano per costruire la conoscenza. Alla fine, ammonisce Lucrezio, se proprio questo ragionamento non ci convince, allora, data la fondamentalità dell'avere un criterio, è meglio accettare una percezione errata piuttosto che dubitare che ci sia un criterio, perché altrimenti verrebbe trascinata via la possibilità di vivere. La vita, infatti, poggia su un criterio (giusto o sbagliato che sia) e se esso viene a mancare, crolla anche la possibilità di vivere felicemente; bisogna evitare i dirupi seguendo la ragione, consiglia Lucrezio: ed è particolarmente interessante il riferimento ai "dirupi", poiché, forse, in esso si cela una stoccata ai danni dello scettico Pirrone, che, come riferisce Diogene Laerzio, nell'assenza di un criterio per stabilire cosa fosse bene e cosa male, cosa vero e cosa falso, si gettava nei dirupi. Ai versi 513 e seguenti, il processo conoscitivo è da Lucrezio accostato (con un'immagine portante nella tradizione filosofica, antica e moderna) a quello con cui si fabbrica un edificio, l'edificio del sapere: per edificare una casa, occorrono strumenti adeguati; fuor di metafora, per costruire l'edificio del sapere occorrono le testimonianze dei sensi, poiché, senza di essi, la casa del sapere è instabile e soggetta a crolli improvvisi, a seguito dei quali è poi impossibile vivere.

Infine, se taluno crede che non si sappia nulla, anche questo
non sa se si possa sapere, giacché ammette di non sapere nulla.
Contro di lui dunque tralascerò di discutere,
perché da sé stesso si mette col capo al posto dei propri piedi.
E tuttavia voglio pure concedergli che sappia anche ciò;
ma gli domanderò soltanto: se nel mondo egli non ha prima veduto
mai nulla di vero, donde sa cosa sia sapere e, viceversa, non sapere?
Quale cosa ha prodotto il concetto di vero e di falso,
e quale cosa ha provato che l'incerto differisce dal certo?
Troverai che il concetto di vero è stato prodotto primamente
dai sensi e che i sensi non possono essere contraddetti.
Giacché maggiore credibilità dev'essere riconosciuta
a ciò che di per sé col vero possa confutare il falso.
Ma che cosa si deve giudicare maggiormente credibile
che il senso? Forse, nata da un senso fallace, la ragione
varrà ad oppugnare i sensi, essa che tutta da loro è nata?
Se quelli non son veritieri, anche la ragione diventa tutta falsa.
O potranno le orecchie correggere gli occhi, o il tatto
le orecchie? O, d'altronde, questo tatto sarà convinto d'errore
dal gusto della bocca, o lo confuteranno le nari, o gli occhi
lo smentiranno? Non è così, io penso. Giacché ogni senso
ha un potere specialmente distinto, ciascuno ha una facoltà
propria, e perciò è necessario percepire con un senso speciale
ciò che è molle e gelido o infocato, e con un senso speciale
i vari colori delle cose, e vedere quanto ai colori è congiunto.
Una speciale facoltà ha pure il gusto della bocca, per una via
speciale sorgono gli odori, per un'altra speciale i suoni. Si deve
perciò concludere che i sensi non possono confutarsi a vicenda.
E neanche potranno correggersi da sé,
poiché uguale fiducia si dovrà sempre ad essi accordare.
Quindi ciò che in ogni momento è a questi apparso, è vero.
E se non potrà la ragione discernere la causa per la quale
le cose che da presso erano quadrate, da lontano sembrano
rotonde, tuttavia è preferibile per difetto di ragionamento
spiegare erroneamente le cause dell'una e dell'altra figura,
anziché lasciarsi sfuggir via dalle mani cose manifeste
e far violenza alla fede prima e sconvolgere gl'interi
fondamenti su cui poggiano la vita e la salvezza.
Non solo, infatti, la ragione rovinerebbe tutta: anche la stessa
vita crollerebbe all'istante, se tu non osassi fidarti dei sensi
ed evitare i precipizi e tutte le altre cose di questa specie
che si devon fuggire, e seguire le cose che sono contrarie.
Concludi dunque che è un vano mucchio di parole tutto
quello che contro i sensi è stato messo insieme e approntato.
Ancora: come in una costruzione, se il regolo al principio
è storto, e se la squadra è fallace ed esce dalle linee dritte,
e la livella da qualche parte zoppica un pochino,
inevitabilmente tutto l'edificio riesce difettoso e piegato,
storto, cascante, inclinato in avanti, inclinato all'indietro
e disarmonico, sì che alcune parti sembra vogliano
già precipitare, e tutto precipita, tradito dalle prime misure
fallaci, così, dunque, il ragionare sulle cose deve riuscirti
storto e falso, qualora da falsi sensi sia nato.

Dopo essersi brevemente soffermato anche sugli altri sensi, Lucrezio, dai versi 722 in avanti, concentra la propria attenzione sul pensiero: come si pensa? Il passaggio da sensazione a pensiero nel IV libro avviene senza soluzione di continuità, poiché la funzione del pensiero è spiegata in analogia con quella dei sensi: già nel libro III del "De anima", Aristotele compiva un'operazione di questo tipo, con la conseguenza che nel pensiero così come lo concepiva lo Stagirita c'era analogia tra sensi e funzione del pensiero, non oggetti del pensiero. Per Lucrezio, invece, pensiamo nello stesso modo in cui percepiamo, e il pensiero stesso è una forma sui generis di percezione. Non è infatti possibile pensare se non perché si ricevono stimoli dall'esterno, come già sosteneva Democrito. Ora, Lucrezio distingue tra animus (inteso come funzione del pensiero e corrispondente all'anima razionale) e anima (intesa come funzione percettiva e biologica e corrispondente all'anima percettiva e nutritiva): tale distinzione tra parte razionale e parte non razionale dell'anima umana in Epicuro non era affatto scontata e viene trattata una sola volta, all'interno dell' "Epistola ad Erodoto" (il testo per di più è assai guasto in quel punto). Pur nella sua partizione e nella pluralità delle funzioni, l'anima è una, composta, come ogni altra cosa, da atomi e vuoto : la parte razionale, però, è più veloce e quindi più dinamica (perché costituita da atomi più sottili e leggeri). Il processo conoscitivo, in tale ottica, è da Lucrezio (e da Epicuro) concepito come la messa in moto dell' animus da parte dei simulacra penetrati nei vari sensi: ne consegue, naturalmente, che non potrà esserci pensiero se prima non c'è percezione; i simulacra, in virtù della loro sottigliezza, attraversano gli organi di senso e colpiscono direttamente l' animus : il pensiero nascerà dunque per contatto fisico e tale analogia di funzione si spiega con l'analogia di struttura; infatti, l'anima è materiale alla pari dei simulacra , i quali mettono materialmente in moto il pensiero. Lo spazio intorno a noi, afferma Lucrezio, è affollatissimo di simulacra che si staccano dagli oggetti e che, casualmente, si aggregano tra loro; per sottolinearne la sottigliezza che li rende pressochè impalpabili, Lucrezio li accosta (ai versi 725 e successivi) alle ragnatele o alle lamine d'oro. In tale prospettiva, possiamo pensare cose inesistenti proprio in virtù del fatto che (com'è chiarito dal verso 735 in poi) i simulacra vagano ovunque e si formano aggregazioni casuali: il simulacrum di un uomo può ad esempio aggregarsi, in maniera del tutto casuale, a quello di un cavallo e, in tal modo, si formerà l'immagine del Centauro. Come Lucrezio aveva detto nel libro III, l'anima razionale si distingue da quella nutritiva perché maggiormente sottile e questo spiegava anche, come abbiamo già sottolineato, la velocità del pensiero e il fatto che esso muti tanto rapidamente e colga anche gli atomi più sottili:

E infatti questi simulacri sono di tessuto molto più sottile,
in confronto a quelli che occupano gli occhi e provocano il vedere,
poiché questi penetrano per i pori del corpo e dentro destano
la sottile natura dell'animo e ne provocano la sensibilità.
E così vediamo Centauri e membra di Scille
e canine facce di Cerberi e i simulacri di coloro
che sono morti e di cui la terra abbraccia le ossa;
poiché simulacri d'ogni genere si muovono in ogni dove,
e parte nascono spontaneamente nell'aria stessa,
parte son quelli che in qualche modo si staccano dalle varie cose
e quelli che son fatti dal comporsi delle figure di questi.
Ché certo non viene da cosa viva l'immagine del Centauro,
poiché non è mai esistita la natura d'un tale essere vivente,
ma, quando le immagini d'un cavallo e d'un uomo per caso
s'incontrano, sùbito facilmente aderiscono, come abbiamo detto
prima, per la loro sottile natura e il tenue tessuto.

Anche le percezioni che abbiamo nei sogni, come quelle della veglia, sono percezioni di oggetti che provengono dall'esterno: si formano in modo del tutto analogo e questo è particolarmente rilevante perché implica che le immagini che percepiamo nei sogni abbiano origine assolutamente naturale, cosicchè è impossibile attribuire ai sogni un significato profetico e sovraumano (se annunciano la verità, ciò è completamente casuale). Ma allora, stando così le cose, esiste un criterio per distinguere le percezioni della veglia da quelle del sonno? E', in definitiva, possibile porre un confine tra realtà e sogno? Infatti, come spiega Lucrezio, se nei sogni mi appaiono persone defunte, ciò può ugualmente avvenire quando sono desto, poiché si tratta del risultato di un'aggregazione, retta dal caso, di simulacra che si incontrano nell'aria. La differenza, tuttavia, risiede nel fatto che, mentre nella veglia possiamo esprimere un giudizio sui dati dei sensi e tale giudizio è passibile di essere attestato o sconfessato dall'empiria, nel sonno questo manca, giacchè possiamo finire per credere che un morto sia vivo in quanto manca la possibilità di discernere il vero dal falso. Quest'attenzione riservata ai sogni spiega perché Lucrezio, all'interno del libro IV, si soffermi diffusamente sul sonno, da lui inteso come assenza temporanea di funzionamento della sensazione. Dal verso 769 in avanti viene introdotta una questione di gran peso: nel sonno, ci capita spesso di percepire immagini che cambiano, come quando vediamo una persona defunta prima giovane e poi vecchia, prima seduta e poi in piedi: come si spiega questo? Perché mai questi simulacra "muovono le braccia" (verso 769)? Ciò avviene con un procedimento analogo a quello delle moderne pellicole cinematografiche, in cui l'immagine cambia tanto rapidamente che sembra che sia la stessa immagine ad aver cambiato forma (ad esempio, prima viene proiettata l'immagine di una persona seduta, poi viene celermente sostituita da quella della stessa persona in piedi, cosicchè si crede che sia la stessa immagine che è mutata). Questo procedimento, valido a livello atomico, si spiega tenendo conto dell'incredibile velocità (pari a quella del pensiero) con cui si muovono i simulacra :

Quanto al resto, non è sorprendente che i simulacri si muovano
e in cadenza agitino le braccia e le altre membra.
Infatti accade che nei sogni l'immagine sembri far questo,
giacché, quando la prima è sparita e quindi un'altra è nata
in altra positura, sembra allora che la prima abbia mutato gesto.
Senza dubbio si deve pensare che ciò avvenga in modo celere:
tanta è la mobilità, tanta la moltitudine delle immagini,
e tanta è l'abbondanza delle particelle in un qualunque
minimo tempo percettibile, che può bastare all'effetto.

La trattazione dell'argomento, però, ammonisce Lucrezio ai versi 777, è alquanto ardua, soprattutto perché è un argomento da Epicuro lasciato in sospeso o, comunque, trattato in maniera non del tutto chiara. Il nuovo problema su cui si concentra il poeta (dal verso 779 in poi) riguarda il rapporto tra pensiero e volontà: come accade che, al pensare una cosa, siamo presi da un forte desiderio della medesima, da un'irresistibile volere ( voluntas ) quella cosa?

Si chiede anzitutto perché, quando a chiunque sia venuto
il capriccio di pensar qualcosa, sùbito la mente pensi proprio quella.

Il problema è delicatissimo, in quanto si tratta di spiegare in termini atomistici la libertà di giudizio: una prima possibile risposta che possiamo avanzare di fronte alla domanda poc'anzi formulata è che, forse, l'adeguazione immediata tra pensiero e desiderio avvenga perché i simulacra penetrano istantaneamente in noi a portarci l'immagine di ciò che vogliamo (sia esso il mare o la terra), come se la natura forgiasse immagini di ciò che noi desideriamo e ce le inviasse quando ne sentiamo il desiderio:

Forse i simulacri sono attenti al nostro volere
e, appena noi vogliamo, accorre a noi l'immagine,
se il mare, se la terra ci sta a cuore, o infine il cielo?
Radunanze d'uomini, una processione, conviti, battaglie,
ogni cosa la natura crea e appronta a una nostra parola?

Sembra, in prima analisi, una risposta soddisfacente, che prevede che la natura preveda i nostri desideri. Eppure, se letta in trasparenza, rivela tutta la sua inconsistenza: come si spiegherebbe la percezione che spesso abbiamo di simulacra in movimento, che "avanzano danzando" nei sogni? Tanto più che, ammettendo per assurdo la validità di tale risposta, scaturirebbero conseguenze inammissibili: ci si troverebbe costretti ad ammettere che i simulacra sono impregnati di arte ( arte madent ) e vagano istruiti ( docta ) per realizzare di notte il loro teatrino, pronti ad esaudire ogni nostro desiderio. Non è, quindi, accettabile l'esistenza di simulacra fuori di noi che sono pronti ad entrare al nostro interno quando lo vogliamo; vero è, invece, che fuori di noi volteggia una miriade di atomi che si succedono con un'incredibile rapidità e che si sostituiscono proprio in quegli istanti in cui non percepisco: in una tale sovrabbondanza di atomi, il pensiero si focalizza esclusivamente su quelli che gli interessano in quel momento, trascurando gli altri:

O non sarà piuttosto vero ciò? Poiché in un singolo momento
in cui sentiamo, cioè in cui viene emessa una singola voce,
si celano molti momenti, che la ragione scopre esistenti,
perciò accade che in qualsiasi momento simulacri d'ogni tipo
siano a disposizione e pronti in tutti i vari luoghi:
tanta è la mobilità, tanta la moltitudine delle immagini.
Perciò, quando la prima è morta e quindi un'altra è nata
in altra positura, pare allora che la prima abbia mutato gesto.
E poiché sono sottili, l'animo non può discernere distinte
se non quelle che cerca di cogliere; quindi tutte quelle che ci sono
oltre ad esse, vanno perdute, tranne quelle cui l'animo s'è preparato.
Esso, d'altra parte, si prepara e s'aspetta che gli accada di vedere
ciò che segue a ogni positura dell'immagine; quindi ciò avviene.

Sorge però un nuovo problema da risolvere: come fa il pensiero a soffermarsi solo su determinati simulacra ? Per rispondere, occorre fare riferimento alla concezione lucreziana dell'anima: se l' anima è disseminata in tutto il corpo (e ne è prova il fatto che tutto il corpo ha sensazioni ed è suscettibile di crescita), l' animus , dal canto suo, sta nel petto e, dato che gli atomi di quest'ultimo sono leggerissimi, affinchè il pensiero funzioni gli atomi non devono assolutamente disperdersi e ciò può avvenire solamente se il pensiero si concentra esclusivamente sulle cose cui pensa. Il pensiero, dunque, si focalizzerà su alcuni atomi, lasciando cadere tutto il resto: se ciò non avvenisse in uno spazio rigorosamente limitato, gli atomi sottili si disperderebbero. Per spiegarsi meglio, Lucrezio ricorre ancora una volta ad un'analogia con il mondo sensibile (versi 807 e seguenti): come gli occhi, per poter osservare le realtà più minute, devono concentrarsi, allo stesso modo agisce anche il pensiero; se non si presta attenzione e non si pone mente si rischia di fissare un oggetto senza vederlo. Pensiamo a quando gli occhi si sforzano per mettere a fuoco un oggetto e vedono tutto il resto sfuocato.

Non vedi che anche gli occhi, quando s'accingono a scorgere
cose che sono sottili, si tendono con sforzo e si preparano,
né senza ciò può accadere che discerniamo distintamente?
E tuttavia, anche nel caso di cose manifeste, puoi osservare
che, se non volgi ad esse la mente, è come se tutto
il tempo la cosa fosse distante e di gran lunga remota.
Perché, dunque, meravigliarsi, se l'animo perde tutte
le altre cose, tranne quelle alle quali esso è intento?

Gli atomisti, pur mettendo l'accento sulla materialità, non negano il potere del pensiero, bensì si propongono di mettere in chiaro come esso funzioni in modo non diverso rispetto ai sensi; se così non fosse, si inciamperebbe in quel dualismo centrale nella filosofia platonica e, in qualche misura presente, anche in Aristotele. La potenza del pensiero può, secondo Lucrezio, essere individuata nella sua capacità di formulare grandi teorie a partire da cose minuscole e, perfino, nella sua capacità di illudersi: esso è, in altri termini, talmente potente (di un potere per alcuni versi perverso) da riuscire ad ingannarsi (versi 816 e successivi). Da ciò scaturisce un'altra conseguenza di un certo spessore: esiste un fine in vista del quale la natura ci ha dotati di sensazione di pensiero? Assolutamente no, risponde Lucrezio al verso 822:

A tale proposito desideriamo vivamente che tu fugga
un vizioso ragionamento, e con grande cautela eviti l'errore
di credere che il chiaro lume degli occhi sia stato creato
affinché possiamo vedere, e che le estremità delle gambe
e delle cosce fondate sui piedi possano piegarsi per questo,
affinché siamo in grado di avanzare a lunghi passi,
e ancora, che gli avambracci siano attaccati alle forti braccia
e ci siano state date le mani per servirci dall'una e l'altra parte,
affinché possiamo fare ciò che abbisogna per la vita.

Affiora qui la polemica epicurea nei confronti del teleologismo di ascendenza platonica e aristotelica: ad avviso di questi due filosofi, la natura prima avrebbe determinato la funzione (mangiare, respirare, afferrare oggetti) e solo dopo e in base ad essa avrebbe creato gli organi per assolverla (lo stomaco, i polmoni, le mani). Proprio al verso 830, Lucrezio fa menzione della mano, probabilmente memore della diatriba tra Aristotele e Anassagora: come è noto, secondo Anassagora l'uomo è l'animale più intelligente perché dotato della mano, mentre, secondo Aristotele, l'uomo è dotato della mano perché è l'animale più intelligente. Ora Lucrezio, senza esitazione alcuna, si schiera dalla parte di Anassagora: in natura, per prima cosa c'è l'organo e solo dopo da esso si sviluppano le funzioni: chi procede come Aristotele e Platone argomenta "a rovescio", capovolgendo tutto ("omnia perversa praepostera sunt ratione").

Tutte le interpretazioni di questo genere [teleologiche]
mettono il prima al posto del dopo con ragionare stravolto,
poiché nessuna cosa è nata nel corpo per questo,
affinché potessimo usarne, ma ciò che è nato crea esso l'uso.
Né esistette la vista prima che nascessero gli occhi,
né il dire con parole prima che la lingua fosse creata,
ma piuttosto la nascita della lingua precedette di molto
la favella, e le orecchie furono create molto prima
che si udisse il suono, e, in breve, tutte le membra
esistettero, io credo, prima che esistesse il loro uso.
Non poterono quindi crescere per il fine dell'uso.

Si passa dunque dal fine al caso: nel V libro, Lucrezio farà vedere come l'assetto dell'uomo altro non è se non il frutto di una serie di tentativi della natura. Nella prospettiva appena delineata, Lucrezio dice che la lingua vien prima del linguaggio, le orecchie prima dell'udire e, in generale, tutti gli organi prima delle loro funzioni: se in natura la costituzione fisica precede l'uso, nell'ambito delle tecniche, intese come escogitazioni umane, il rapporto si inverte, cosicchè prima si fissa l'utilizzo e poi si crea il mezzo con cui ottenerlo (ad esempio, prima si stabilisce che la casa serve per viverci e poi, in vista di ciò, la si edifica). La tecnica è però incommensurabilmente inferiore alla natura, in quanto stravolge il processo naturale e crea cose mostruose, come le armi (verso 843 e seguenti), create per annientare i propri simili:

… venire alle mani nella zuffa della battaglia
e lacerar membra e insozzare di sangue il corpo
furono molto prima che volassero i lucidi dardi,
e la natura costrinse a evitare la ferita prima che il braccio
sinistro opponesse la difesa dello scudo foggiato dall'arte.
E senza dubbio l'abbandonare al riposo il corpo stanco
è molto più antico che il letto dai morbidi materassi,
e il placare la sete nacque prima delle coppe.
Si può dunque credere che siano state inventate per l'uso
queste cose che sono state scoperte secondo i bisogni della vita.

Con lo svilupparsi della civiltà, l'uomo ha fatto un uso atroce della tecnica, inventando le frecce, lo scudo e altri ordigni funesti. La radicale divisione operata da Lucrezio tra tecnica e natura (che egli pone agli antipodi) ha una motivazione profonda: in Aristotele e in Platone, esse erano appaiate e tale appaiamento era la base per fondare la teleologia, in quanto, secondo i due filosofi greci, sia la natura sia la tecnica mirano ad un fine; separandole (e anzi, contrapponendole), Lucrezio può ancora una volta (criticando la tecnica) criticare il finalismo, ed elogiare la natura, che procede in modo casuale. Dal verso 877 in avanti, Lucrezio affronta una questione spinosa, che costituirà uno scoglio difficilmente superabile per tutti i materialisti (Hobbes in primis): come si spiega il rapporto tra materia e pensiero? Come avviene che, all'insorgere di un pensiero, il mio corpo si muove? Adducendo un esempio non lucreziano, immaginiamo di decidere di andare a teatro: ci alziamo e andiamo. Come si spiega, in termini atomistici, questa corrispondenza tra pensiero e materia? Mi muovo perché percepisco oggetti in movimento, risponde Lucrezio: vedo cose che si muovono e mi viene voglia, a mia volta, di muovermi: l' animus trasmette il desiderio all' anima (la quale è diffusa in tutto il corpo), e tale trasmissione è di origine fisica: a questo punto, vengono messe in moto le parti del corpo. Questo avviene perché, tra anima, animus e corpo intercorre un rapporto di sumpaqeia , un "subire la stessa affezione". In quest'ottica, il pensiero è eterodiretto (e non autodiretto): è cioè dipendente dall'esterno, in quanto la volontà di muoversi ("inde voluntas fit", verso 883) sorge dalla percezione di cose in movimento:

Ora dirò come avviene che possiamo avanzare coi nostri passi
quando vogliamo, e che ci sia dato muover le membra in vari modi,
e quale forza sia solita spingere innanzi questo gran peso
del nostro corpo: tu ascolta attentamente le mie parole.
Dico che dapprima simulacri di movimento giungono
al nostro animo e lo impressionano, come abbiamo già detto.
Quindi nasce il volere; e infatti nessuno comincia a fare
qualcosa prima ‹che› la mente preveda quello che vuole fare.
E di quello che essa prevede, esiste un'immagine.
Dunque, quando l'animo si muove sì che vuole andare
e procedere, sùbito sprona la forza dell'anima
che è disseminata in tutto il corpo per membra e giunture;
e ciò è facile a farsi, poiché all'animo è strettamente congiunta.
Poi essa sprona a sua volta il corpo, e così tutta
la massa a poco a poco è spinta innanzi e si muove.
Inoltre, allora si dirada anche il corpo, e l'aria
(come naturalmente deve, giacché sempre è di mobile natura)
arriva attraverso le aperture e penetra nei fori in abbondanza,
e così si sparge qua e là, fino a tutte le parti minute
del corpo. Allora, dunque, avviene che il corpo sia mosso
da due cause, operanti da una parte e dall'altra, come una nave
spinta dai remi e dal vento. Né tuttavia in ciò fa meraviglia
che corpuscoli tanto piccoli possano dirigere un corpo
tanto grande e voltare attorno tutto il nostro peso.

Nella sua trattazione della sensazione del pensiero, Lucrezio si dilunga molto (in versi divenuti celeberrimi) sulla passione amorosa, mettendo in evidenza come essa ottenebri i sensi e, con essi, il pensiero e come dunque debba essere respinta.



INDIETRO
La filosofia e i suoi eroi