MACINTYRE



A cura di Diego Fusaro



"Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro san Benedetto, senza dubbio assai diverso". ("Dopo la virtù")

 

MACINTYREAlasdair MacIntyre nasce a Glasgow nel 1929: dopo aver studiato a Londra e a Manchester, è diventato professore di Filosofia e di Sociologia nel 1951. Ha mantenuto tali ruoli fino al 1970, anno in cui si è trasferito negli Stati Uniti: qui è diventato docente prima a Boston, poi alla Vanderbilt University del Tennessee. A partire dal 1988, è stato docente presso l’Università di Notre Dame nell’Illinois. Tra le sue opere principali meritano di essere ricordate A short History of Ethics (1966), Against the Self-Image of the Age (1971), Whose Justice? Which Rationality? (1988), Three Rival Version of Moral Enquiry (1990). Ma la sua opera più famosa, alla quale è legato il suo nome, è After vitue: a Study in Moral Theorie (1981).

In questo scritto di importanza capitale, MacIntyre sostiene la tesi secondo cui, al giorno d’oggi, ci troveremmo in una situazione critica, simile a quella che portò al crollo dell’Impero Romano: si tratta di una crisi sia dei valori, sia della politica. Essa si prospetta come una vera e propria catastrofe, e non è che il necessario esito delle arroganti pretese (fatte valere soprattutto dall’Illuminismo) di innalzare la ragione umana individuale a legislatrice assoluta, a unica determinatrice della condotta morale. La Modernità, da Hume a Kant, s’è proposta di liberare l’uomo da ogni autorità religiosa e politica, fondando la morale sulla coscienza individuale: la società stessa, in questa prospettiva, viene a prospettarsi come il teatro in cui le singole volontà individuali, esistenti in maniera atomica, vengono a incontrarsi, ognuna col proprio insieme di preferenze e di atteggiamenti. In questo senso, il risultato è che il  mondo diventa “l’arena dove combattere per il raggiungimento dei propri scopi personali”, intendendo la realtà come una serie di occasioni per il proprio godimento personale.

L’esito ultimo di questa situazione catastrofica è dato, secondo MacIntyre, dal fatto che alla questione riguardante i fini si è sostituita la razionalità burocratica, che (secondo la precisa diagnosi di Weber) consiste nell’adeguare i mezzi agli scopi in maniera economica ed efficace. Del resto, le questioni inerenti i fini della convivenza umana sono questioni di valori e, per ciò stesso, di fronte ad essi la ragione non può far altro che tacere. Se intendiamo i valori come il frutto di decisioni soggettive e mai assolute (come aveva insegnato Weber stesso), allora ne seguirà necessariamente che ogni scelta individuale è buona. Sciolte da ogni vincolo oggettivo, tutte le fedi e le valutazioni sono infatti ugualmente irrazionali, perché puramente soggettive. È per questo motivo che, secondo MacIntyre, la coscienza moderna è soggettivista, relativista ed emotivista. La stessa battaglia senza sosta combattuta dai difensori della libertà individuale (i liberali) contro i difensori della regolamentazione e della pianificazione (i comunisti) è più apparente che reale, giacché i due schieramenti si trovano poi d’accordo sul fatto che siano possibili soltanto due forme di vita sociale, delle quali l’assunzione dell’una esclude l’altra. Queste due forme sono appunto quella delle libere scelte individuali (è la forma propugnata dai liberali) e quella della burocrazia (difesa dai comunisti). Ciascuna non è che la negazione dell’altra: la forma liberale (ad esempio quella di Nozick) è negazione di quella comunistica, e viceversa. Ciò induce MacIntyre a concludere che “burocrazia e individualismo sono tanto alleati quanto antagonisti. Ed è nel clima culturale di questo individualismo burocratico che l’io emotivista si trova nel proprio ambiente naturale”.

Come antidoto a questo dualismo manicheo fra burocrazia e individualismo, MacIntyre propone un recupero della filosofia pratica di Aristotele, incentrata sulla nozione di “saggezza pratica” (phrònesis), sulla solidarietà all’interno della comunità e sull’impossibilità di ogni discorso etico che prescinda dai valori. È questo l’ambizioso progetto che MacIntyre porta avanti nel suo scritto Dopo la virtù: in particolare, egli distingue tra virtù e verità. La virtù è quella teorizzata dagli antichi, in particolare da Platone e da Aristotele: essa (declinata ora come giustizia, ora come amicizia, ora come coraggio, e così via) è un tipo di condotta radicato nella comunità a cui il singolo appartiene e nei valori della tradizione. Del tutto diversa è la virtù dei moderni, che si configura come una astorica astrazione (di marca illuministico/kantiana), un metacontestuale ente di ragione (ens rationis) a cui il singolo individuo, indipendentemente dal suo specifico progetto di vita e dalla sua concreta identità personale, deve obbedire. La virtù antica è assolutamente concreta, calata nella comunità; quella moderna, al contrario, è quanto di più astratto possa essere concepito. Si tratta di una vera e propria catastrofica sostituzione delle tante virtù con una sola virtù: a questa sostituzione sono seguiti molteplici sforzi di fondazione dell’etica sulle passioni (Hume e Diderot), sulla ragione universale (Kant) e sulla scelta (Kierkegaard). Questi sforzi si sono conclusi con un clamoroso fallimento della pretesa di dare una giustificazione razionale pubblicamente condivisibile dell’etica. La posizione di Kant poggia infatti sulla confutazione di quella di Hume; e quella di Kierkegaard sulla confutazione di quella di Kant: sicché, dalla critica efficace che ciascuna posizione fa delle altre, risulta il fallimento complessivo di tutte. Proprio a questo fallimento epocale è dovuta la progressiva marginalizzazione a cui è andata incontro la filosofia, che è ormai – agli occhi di MacIntyre – soltanto più un argomento accademico, privo di relazioni con la vita. Il culmine di questo incessante e nefasto processo di egemonizzazione dell’individuo è rappresentato prima dal Superuomo di cui parla Nietzsche e, in seguito, dal soggettivismo emotivista di tendenza analitica (ad esempio, Russell).

All’analisi del pensiero di Nietzsche, MacIntyre dedica un capitolo del suo Dopo la virtù: il capitolo si propone come un invito a scegliere tra Aristotele e Nietzsche (ed è perciò significativamente intitolato Nietzsche o Aristotele). Commentando l’aforisma 335 de La gaia scienza nietzscheana, mostra come Nietzsche smascheri l’illusorietà del progetto illuministico (specialmente kantiano) di fondare la morale sulla ragione universale e oggettiva e affermi una “nuova tavola dei valori”, prodotta dalla volontà di potenza del soggetto. Se infatti la morale non è che una serie di espressioni della volontà, ne segue allora che la mia morale potrà solo essere ciò che la mia volontà crea: ecco perché Nietzsche invita a diventare ciò che già si è, ad essere i legislatori e i creatori di sé. Alla ragione egli ha sostituito la volontà e, così facendo, ha proposto una morale alternativa a quella fatta valere dall’Illuminismo e incentrata sulla ragione. Ma la grandezza di Nietzsche, per MacIntyre, si esaurisce nella demolizione che egli ha fatto delle morali illuministiche: le soluzioni che ha proposto sono da buttare a mare, in quanto frivole e inconsistenti. In particolare, esse sono assurde nella misura in cui si illudono di creare una nuova tavola di valori fondata sulla volontà e sulla soggettività, che della Modernità sono i massimi mali. In sostanza, Nietzsche ha preso il male per un rimedio. A lui dev’essere contrapposto Aristotele, con la sua nozione solidaristica e comunitaria di virtù: il filosofo greco, infatti, è “filosoficamente la più potente forma premoderna di pensiero morale”. Contro la virtù indebitamente intesa come espressione di individui separati, dobbiamo far valere, con Aristotele, la più alta forma di una virtù intesa come manifestazione di tradizioni collettive. Egli è il massimo rappresentante della “visione classica dell’uomo”, la quale sorge nell’Iliade, prosegue nella polis greca (la cui etica è quella esposta da Aristotele stesso) e trova la sua estrema propaggine nell’etica della virtù di Benedetto da Norcia, incentrata sulla comunità e sui valori religiosi. Nelle antiche culture greche, medievali e rinascimentali il pensiero e l’azione morali sono solidali con l’organizzazione sociali, e ogni individuo riveste un ruolo e un rango prestabilito entro un sistema ben definito, che trova nelle categorie del casato e della parentela le sue più alte espressioni. In tali strutture, ogni uomo sa chi è proprio perché conosce il proprio ruolo sociale e, in forza di ciò, sa anche che cosa deve e che cosa gli è dovuto nell’ambito della comunità di cui fa parte: in questo caso, la virtù è il frutto dei valori tradizionali e della comunità. In società di questo tipo (emblematico è il caso della Grecia) l’ospite ha un suo statuto specifico, ha il diritto di essere ricevuto con ospitalità (non a caso, in greco xènos significa sia ospite sia straniero). La grande lezione che dobbiamo apprendere da queste società antiche è che, senza una comunità, non esistono né la vera libertà né la vera virtù. MacIntyre nota come non tutto il mondo moderno sia stato contagiato dagli infausti effetti del progetto illuministico: qua e là sono sopravvissute e sopravvivono (anche solo in certe opere) nicchie incontaminate in cui sopravvive la nozione tradizionale di virtù: è il caso dei giacobini (che veicolavano valori di fraternità, uguaglianza, libertà, famiglia, patriottismo), di William Cobbett (e delle virtù praticate nelle comunità contadine), di Jane Austen (e delle virtù coltivate nel microscopico piano dei suoi spazi sociali e culturali). Ma si tratta di episodi del tutto marginali, che non possono contenere lo strabordare del progetto illuministico: da esso, come male estremo, è derivato lo stato laico e neutrale. Dopo aver sottoposto a dura critica l’Illuminismo e dopo aver ad esso contrapposto Aristotele come eroe della virtù, MacIntyre chiude l’opera con un appassionato appello (sia etico sia politico) a ritornare alle antiche comunità, basandosi sull’analogia che intercorre tra la nostra situazione e quella tardoromana: “stiamo aspettando: non Godot, ma un altro san Benedetto, senza dubbio assai diverso”.

Nelle sue opere successive (soprattutto in Whose Justice? Which Rationality? e in Three Rival Version of Moral Enquiry), MacIntyre ha ribadito i concetti espresso in Dopo la virtù, ma approfondendoli con più rigore e maggiore acribia: egli ha, ad esempio, individuato quattro principali tradizioni etico/politiche dell’Occidente: a) aristotelica; b) agostiniana; c) scozzese; d) liberale moderna. Ad esse ha poi fatto seguire quella ebraica, quella luterano/kantiana, quella islamica, quella indiana e quella cinese. MacIntyre è assolutamente convinto dell’inesistenza di criteri obiettivi e neutrali che ci permettano di scegliere tra queste diverse tradizioni: dinanzi ad esse, l’unica possibilità è quella di parlare come attori e partecipanti di una di esse; oppure tacere.

 


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