EMILE MEYERSON


Polacco di origine e naturalizzato francese, Émile Meyerson (1859-1933) giunge alla filosofia attraverso lo studio delle scienze naturali. Dei suoi scritti meritano di essere ricordati: Identité et réalité (1908), De l’explication dans les sciences (1921), La déduction relativiste (1925), Du cheminement de la pensée (1925). In essi risulta evidente l’influenza esercitata dalla tradizione francese della critica delle scienze, da Poincaré e da Duhem a Boutroux e a Bergson. Meyerson si oppone alla prospettiva fenomenologia ve positivista secondo cui le scienze della natura, nel loro stadio puù evoluto, devono rinunciare ad ogni spiegazione causale dei fatti nella loro realtà ontologica e limitarsi ad indagare solamente sulle uniformità (o leggi fenomeniche). La scienza, invece, è ai suoi occhi essenzialmente ontologica ed esplicativa: "ontologica" nel senso che non può accontentarsi di meri rapports sans supports, quali sarebbero quelli che il fenomenismo stabilisce tra i dati della sensazione, ma richiede fondamenti stabili, oggettivi, delle cose, il più possibile indipendenti dalle condizioni soggettive delle percezioni; ed è "esplicativa" nel senso che la scienza ha di mira non solo la legalità, ma anche (e ancor di più) la causalità dei fenomeni, la quale ci fornisce il perché delle loro connessioni. Nondimeno, proprio per l’istanza ontologica immanente alla scienza, le cose, che essa tende a determinare nel modo più indipendente dalle condizioni soggettive della percezione, si fanno via via così lontane dalla sensibilità da risolversi alla fine in meri enti di ragione (atomi, etere, ecc). Il progresso della scienza consiste per l’appunto in questa epurazione degli elementi, che può sembrare come una materializzazione degli oggetti: così, l’abbandono del vecchio atomismo ha la sua ragione intrinseca nell’eccessiva corpulenza dei suoi atomi, che trascinava con sé troppi detriti di qualità sensibili; e il successivo polverizzamento degli atomi in entità ancora più elementari (gli elettroni), l’assunzione dell’etere come un’espressione fisica dello spazio matematico, e, infine, il principio di relatività che rende superfluo anche l’etere, riducendo la fisica a una geometria superiore, obbediscono alla costante esigenza realistica della scienza di porre delle entità per sé sussistenti e non modificabili dai nostri sensi. Tale processo, che può essere detto razionalistico, è il processo in virtù del quale la scienza moderna tende sempre più a semplificare tutte le varietà e le differenziazioni della realtà naturale, tende cioè a ridurle o a ricondurle nell’ambito di un solo principio. Del principio di identità, inteso in senso attivo e sintetico come principio di identificazione. In virtù di tale principio, infatti, non soltanto riconosciamo l’identico là dove esso esiste, ma riconduciamo all’identico ciò che dapprima non ci era parso tale: in ciò consiste propriamente l’istanza esplicativa della scienza. E invero la spiegazione causale dei fenomeni non è, nell’ambito dell’indagine scientifica, se non un modo di ricondurre all’identico: la spiegazione, mediante la quale mostriamo che ciò che esisteva prima sussiste dopo, che niente s’è creato e niente s’è perso; in altri termini, la spiegazione del mutevole col persistente. Ne segue che, in forza dell’identità perfetta tra la causa e l’effetto postulata dalla tendenza causale, si rende possibile, nella ricerca scientifica, rovesciare il fenomeno, ricostruire la causa con l’effetto, giungere cioè all’antecedente partendo dal seguente. E tale è, in realtà, la tendenza esplicativa della scienza, come si osserva nella meccanica razionale, nella quale tutti i movimenti sono reversibili. Ma, proprio quando in forza di tale procedimento, la scienza razionale crede di poter celebrare i suoi maggiori trionfi, proprio allora quella realtà che alla scienza è parso di aver determinato nella sua intima essenza, sembra svanire nel nulla. Col sostituirsi dell’identico al diverso e con l’assottigliarsi degli elementi delle cose fino a diventare meri enti di ragione, il mondo oggettivo sconfina nell’astratto; e il più strano è che questo annientamento progredisce a misura che l’ontologismo scientifico si consolida e si purifica delle scorie sensibili, in modo che gli ultimi enti della scienza sono, a un tempo, più sostanziali delle cose dell’esperienza comune e più inconsistenti ed inafferrabili. Se siffatta tendenza identificatrice non incontrasse ostacoli nella resistenza degli oggetti, il progresso della scienza ci porterebbe ad una specie di acosmismo concettuale, distruttivo di quelle esigenze empiriche e realistiche che la scienza non può fare a meno di riconoscere e di fare sue. Invece la realtà (che è, di per sé, diversità e novità e molteplicità) resiste allo sforzo riduttivo del nostro procedimento razionale, cosicché la sua resistenza ci costringe a constatare qualche cosa di irriducibile, a cui diamo perciò il nome di irrazionale (proprio perché antitetico alla razionalità). Di qui deriva il celeberrimo paradosso epistemologico cui approda Meyerson e in cui, in definitiva, si sintetizza il suo pensiero. Riprendendo il testè esaminato contrasto tra il razionale e l’irrazionale, egli asserisce che la scienza studia i fenomeni, i quali non sono che mutamento, con l’aiuto di un principio che mira ad affermare l’identità dell’antecedente e del conseguente, che mira cioè a negare che le cose mutino. Nel fare ciò, nel tentar di penetrare l’essenza delle cose di cui afferma la realtà, si avvale di una concezione che annulla tutta la loro varietà; e (cosa ancora più bizzarra e contraddittoria) riesce in qualche misura in questa sua impresa, siccome la natura, benché limitatamente, sembra mostrarsi penetrabile ad una teoria che mira a dimostrarla insussistente. Tale dualità (d’identità e di realtà, di unità e di molteplicità, di razionalità e di irrazionalità) non vuole tuttavia essere per Meyerson una dualità di ordine metafisico, ma piuttosto di ordine meramente epistemologico: vuole cioè essere una dualità che sorge in seno alla scienza stessa e che, in forza di ciò, lascia impregiudicata (e cioè insoluta) la questione metafisica sulla natura della realtà in se stessa. Di qui riaffiora, pertanto, l’ombra del mistero o dell’inconoscibilità della kantiana cosa in sè. La ragione, egli dice, mira a scoprire quell'unità, quell'identità dell'essere con se stesso di cui ha parlato Parmenide. Perciò ogni attività scientifica dev'essere coerente con gli scopi propri della ragione: deve spiegare razionalmente i fatti percepiti riportando la molteplicità e il mutamento - percepiti - all'identità; cioè deve unificare il molteplice, individuando l'identico ed escludendo il diverso. Ciò evidentemente, osserva Meyerson, non significa che la scienza non trovi nel suo cammino degli irrazionali, dei fatti irriducibili all'identità, come ad esempio la discontinuità dell'energia scoperta da Planck. Ma questi irrazionali, ponendo la ragione di fronte ai suoi limiti scientifici, l'autorizzano a camminare per le vie della filosofia, che, anch'essa attività razionale, è accomunata alla scienza dallo stesso scopo, l'individuazione dell'identità, dallo stesso punto di partenza, il mondo percepito, e dallo stesso procedimento, quello dell'unificazione. A differenza della scienza (che realizza l'identificazione in via provvisoria e in modo parziale, accogliendo come "fatti" gl'irrazionali) la filosofia mira invece all'identità totale e stabile, dando spiegazione anche di quello che per lo scienziato è l'irrazionale.


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