JOHN STUART MILL

A cura di

UTILITARISMO DELLE NORME

Influenzato dall’utilitarismo di Jeremy Bentham, Mill è convinto che, accanto ai piaceri di natura fisica, ne esistano altri, spirituali e intellettuali: questi, almeno per il dotto, hanno intensità decisamente superiore rispetto ai primi. In questo modo, Mill abbandona la “quantificazione del piacere” (il piacere è quantificabile soltanto se riferito alla sensibilità) e arriva a sostenere apertamente la natura qualitativa dei piaceri. Anch’egli, come gli altri utilitaristi, è convinto che il motore dell’agire umano sia il piacere, inteso però in maniera qualitativa: viene così a cadere l’accusa di quanti liquidavano l’utilitarismo come mera riproposizione dell’etica epicurea. Su questa scia, Mill distingue attentamente tra “soddisfazione” (della quale si accontentano gli animali) e “felicità”, tipica degli uomini e caratterizzata da un senso di realizzazione implicante la soddisfazione di piaceri intellettuali. Mill critica Bentham accusandolo di non aver considerato i piaceri intrinsecamente, ma sempre solo per le loro conseguenze contingenti. L’introduzione dell’elemento qualitativo fa sì che la matematizzazione dei piaceri operata da Bentham sia impossibile: la conseguenza è che la valutazione dei piaceri qualitativamente intesi sfugge alla calcolabilità e al cognitivismo etico; l’utilitarismo dell’azione di Bentham cede il passo ad un utilitarismo della norma. Quest’ultimo mantiene il principio per cui le azioni devono essere valutate in base alle conseguenze, ma nella consapevolezza che, perché ciò sia possibile, si debbano impiegare regole accumulate tramite esperienze pregresse. Questa mossa teorica permette a Mill di difendersi dall’accusa tradizionalmente mossa all’utilitarismo, accusa secondo la quale esso sarebbe inapplicabile perché destinato a rimanere in un’insuperabile condizione di attesa di verifica delle conseguenze di ogni azione. Le norme con cui secondo Mill deve operare l’utilitarismo gli permettono di evitare le secche dell’attesa inattiva e, al tempo stesso, gli forniscono criteri operativi alternativi all’algebra dei piaceri. Queste norme sono, in definitiva, il risultato dell’esperienza che l’uomo ha storicamente fatto a partire dalla preistoria per arrivare fino ad oggi. Con l’utilitarismo delle norme diventa però difficile riconoscere quali siano le azioni positive, nella misura in cui il piano del piacere è passato al piano qualitativo e soggettivo e investe tutta un’esperienza storica. A questo punto, Mill introduce il senso del dovere come componente interna all’uomo che lo esorta ad agire in un determinato modo: è infatti il senso del dovere che fa sì che io valuti come positiva un’azione sulla base del patrimonio storico sedimentato nella mia coscienza. Tale senso del dovere non deve essere confuso con l’imperativo categorico kantiano, che prescinde dalle determinazioni storiche e ha un valore assolutamente aprioristico: il senso del dovere di cui dice Mill ha una sua storia, si basa sull’utile, proviene da un sentimento poggiante su tutte le esperienze passate tradottesi in dimensione coscienziale. In questo modo, Mill si sta avvicinando inaspettatamente al “sentimento morale” di Hutcheson, secondo il quale vi sono azioni che dispiacciono immediatamente al mio sentimento morale e vanno perciò incontro a una condanna morale.

INDIETRO