Adam Heinrich Müller

 

 

A cura di Diego Fusaro

 

 

 

 

 

Insieme a Ludwig von Haller, Adam Heinrich Müller (1779-1829) è uno dei principali esponenti del cosiddetto “romanticismo politico”: questa corrente filosofica poggia sulla convinzione (teorizzata da Novalis in Cristianità o Europa) che lo Stato, lungi dall’essere il frutto di un contratto sociale stipulato dagli individui, sia un organismo politico simile agli organismi viventi. In esso, le diverse componenti sono tra loro indisgiungibili e svolgono mansioni specifiche, determinate dalla loro collocazione rispetto alla totalità di cui fanno parte. La nozione di organismo aveva trovato una sua giustificazione filosofica soprattutto nella Critica del Giudizio di Kant, opera in cui il filosofo tedesco metteva in luce come la teoria della causalità su cui si fonda la scienza della natura sia del tutto inefficace a render conto della vita, anche nelle sue forme più basse (un filo d’erba o un verme). Negli esseri viventi, notava Kant, opera una causalità interna in virtù della quale sussiste una circolarità tale per cui ogni parte è funzionale all’insieme, proprio come le foglie di un albero sopravvivono fintantoché fanno parte dell’albero stesso. Ora, andando ben oltre le intenzioni di Kant, Novalis aveva sviluppato questo concetto, in Cristianità o Europa, da un punto di vista politico, notando come in una comunità i cittadini debbano identificarsi con la coppia reale (il re e la regina): e Novalis, nel sostenere ciò, guardava con simpatia al Medioevo, in cui gli individui, fusi sotto il potere imperiale e papale, formavano una totalità. Dal canto suo, Müller, soprattutto in Dottrina dell’opposizione (1804) recupera questa tesi e tende a spiegare la realtà in base ad una proto-dialettica tale per cui ogni realtà presenta un opposto (al soggetto si contrappone l’oggetto, al positivo il negativo, e così via). Così intesa, la realtà viene a configurarsi come una tensione tra opposti, in una polarità che rivela l’influenza della filosofia della natura di Goethe e di Schelling: e tale dialettica diadica esclude necessariamente ogni meccanicismo, nella misura in cui i due opposti sono due aspetti della medesima realtà. Tale realtà polarizzata ha dunque un carattere totalizzante, e la tensione polare non presenta mai un equilibrio, giacché altrimenti non si registrerebbe alcuna tensione. Interagendo con la totalità, le parti sono in perenne movimento e, pertanto, sono vive: sulla base di questo presupposto, Müller sottopone a critica l’idea illuministica di uno Stato concepito come macchina. Il movimento di cui dice Müller dev’essere inteso come un movimento dello Stato, non dei singoli individui che lo compongono: concretamente, se lo Stato ha bisogno della guerra, i sudditi devono andare a combattere, anche se di per sé preferirebbero la pace. Müller attacca anche il “concetto” di cui si serviva l’illuminismo per procedere in filosofia: il concetto come l’hanno inteso gli illuministi è un indebito tentativo di scomporre in parti la realtà, cercando di coglierne alcuni aspetti determinati; ma, così facendo, non si potrà mai cogliere la realtà nella sua totalità viva e in movimento. Per questa ragione, al “concetto” degli illuministi Müller contrappone la “idea”, intesa come coglimento della realtà nella sua viva interezza. Di qui Müller procede a smascherare i grandi errori che l’illuminismo ha generato: in primo luogo, la credenza che l’individuo possa uscire dalla totalità o, magari, distruggerla (come si è cercato di fare con la Rivoluzione francese); si tratta di un errore che, a sua volta, poggia sulla fuorviante credenza che l’individuo possa essere separato dal tutto e godere di vita autonoma. Il secondo errore consiste nel pensare che, all’inizio dei tempi, si fosse fuori dallo Stato o che ci si trovi attualmente alla fine dei tempi e che pertanto si possa giudicare in maniera distaccata ciò che è stato: in opposizione a ciò, Müller nota che l’individuo è nello Stato ed è legato a tutte le generazioni (passate e future). Gli illuministi avevano inteso lo Stato come una macchina che deve occuparsi soltanto delle azioni e, tutt’al più, delle manifestazioni esteriori del pensiero degli individui, senza però arrogarsi il diritto di giudicare le loro personali credenze religiose o politiche. Ma una tale concezione, nota Müller, è inaccettabile poiché finisce per non comprendere la parte spirituale dell’individuo: al contrario, lo Stato può e deve chiedere un’adesione spirituale del cittadino, in una fusione che coinvolge tanto le azioni quanto le intenzioni. Prima che venisse a formarsi lo Stato, secondo Müller non esisteva una condizione senza diritto: quest’ultimo consiste nel fatto che ciascun individuo possa esprimere esigenze personali, le quali possono entrare in conflitto con quelle altrui; il che richiede una mediazione. Ne segue allora che, per Müller, il diritto è una condizione di polarità che implica la contrapposizione di posizioni diverse date dalle diverse esigenze degli individui. Il diritto non deve decidere chi abbia ragione, giacché, a rigore, ciascuna parte in causa è dalla parte della ragione (tutte le esigenze sono legittime). In una simile cornice, il buon giudice è allora quello che media, tentando di trovare una connessione tra le due esigenze considerandole come i due poli della stessa realtà. Così facendo, il diritto si trasforma in legge, e quest’ultima ha un’espressione positiva. Sicché ci troviamo con un diritto naturale (le esigenze sono infatti naturali) e al tempo stesso con un diritto positivo (le esigenze diventano leggi positive). E lo Stato è il momento in cui la comunità (insieme naturale e positiva) assume una conformazione istituzionale precisa. È allora assurdo pensare che lo Stato nasca da un contratto sociale stipulando il quale gli individui si difendono dagli attacchi reciproci: Müller attacca senza tregua le tesi illuminista secondo cui lo Stato sarebbe una macchina artificiale avente per obiettivo la tutela degli interessi degli individui. Ad essa contrappone l’idea dello Stato come organismo totale avente per scopo non la felicità dei singoli, bensì il diritto. Egli attacca anche la teoria della contingenza dello Stato, secondo la quale, qualora venisse meno il motivo per cui lo Stato è sorto, esso dovrebbe essere sciolto; teoria che a sua volta poggiava sull’idea che un giorno gli uomini, educati al bene, non avrebbero più avuto bisogno di essere sottoposti a uno Stato e avrebbero creato spontaneamente una società equa. A questa teoria Müller contrappone quella secondo cui, proprio perché naturale e non artificiale, lo Stato non potrà mai essere sciolto. Le polarità che innervano la realtà vengono da Müller riferite anche allo Stato, soprattutto nel suo testo più matura: Gli elementi dell’arte politica (1809). Le polarità in questione sono giovane/vecchio, uomo/donna, diritto/economia, guerra/pace. Uomo e donna sono due realtà polari (forte il primo, dolce la seconda) che devono essere entrambe presenti, realizzandosi nella forma di ceti diversi: avremo allora un “ceto maschile”, borghese e aggressivo nel suo attivismo; e un “ceto femminile”, nobiliare e legato alla tradizione. Similmente, al “diritto romano” (per cui soggetto è la persona sia fisica sia giuridica) si contrappone il “diritto germanico” (per cui portatori di diritto sono anzitutto le cose). Nella polarità vecchi/giovani, i primi rappresentano lo spirito innovatore e borghese; i secondi quello conservatore e nobiliare. Altra opposizione è quella tra diritto ed economia: il primo, come abbiamo visto, è la mediazione tra esigenze opposte e si realizza nello Stato; la seconda è il luogo dell’interesse, dell’utile e del particolare. All’interno dell’economia, sussiste una polarità tra il bisogno che deve essere soddisfatto e il lavoro che serve a soddisfarlo: da questa polarità scaturisce una terza realtà, il capitale. Intendendo il lavoro come spirituale oltre che materiale, il capitale che ne trae origine può per Müller essere di due tipi: o materiale o spirituale (l’insieme di tutte le conoscenze scientifiche, tecniche, ecc). Con questa struttura polare, Müller può spiegare la vita dell’organismo statale come un incessante movimento in cui la costante tensione tra elementi opposti è il cemento che tiene insieme la totalità. 

 

 

 

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