Lo Zarathustra di Nietzsche

 

 

Di Francesco Cardone

 

 

1. Introduzione.

Il così parlò Zarathustra è indubbiamente l’opera più ricca e complessa che Nietzsche abbia mai scritto. Ci troviamo di fronte ad un’opera che già per il suo stile crea delle grandi difficoltà. Essa infatti si presenta sia come un grande poema sia come una grande opera filosofica. Tantissimi autorevoli filosofi hanno speso centinaia di pagine[1] su quest’opera, sviluppando interpretazioni spesso assai distanti tra loro, che ovviamente non indicano l’incoerenza dell’opera di Nietzsche, ma semmai l’enorme ricchezza che questo testo porta con sé, una ricchezza che non si lascia imbrigliare in un’unica tesi interpretativa, lasciando aperta la strada per infinite altre interpretazioni.

I temi che questo testo affronta sono le vie portanti dell’intero pensiero di Nietzsche: la dottrina del superuomo, La volontà di potenza e l’eterno ritorno. Ma questi temi non sono affrontati da Nietzsche mediante una sintassi filosofica, o con i consueti aforismi, come nelle opere precedenti, qui ci troviamo di fronte ad un “nuovo testo”[2]. Un testo che fa suo sia il rigore del discorso filosofico sia la proliferazione semantica del testo poetico, nel senso che i grandi temi del pensiero di Nietzsche sono per così dire sciolti in un tessuto poetico di grande impatto, fatte di visioni che mostrano lo strato profondo del suo discorso filosofico. Questo significa però che il linguaggio poetico non è semplicemente l’abito che Nietzsche sceglie per esporre i suo argomenti filosofici, questi argomenti sono un tutt’uno con le visioni poetiche, sono per così dire la carne di questi temi. Esporre ad esempio il tema dell’eterno ritorno mediante una visione[3] enigmatica non è per Nietzsche una scelta secondaria, ma una necessità che inerisce lo stesso significato del tema, la visione è cioè un tutt’uno con il senso dell’eterno ritorno.

Un’ermeneutica dell’opera di Nietzsche richiede quindi questa premessa, in cui cioè forma e contenuto vengano ascoltati come un unicum. Questo unicum mostra il tramonto dell’Occidente e l’aurora di una nuova dimensione dell’uomo. Pars destruens e pars construens sono qui intimamente “inanellati”, e si incarnano in visioni straordinariamente significative.

Il nostro intento sarà quindi il rilievo di questo movimento di affrancamento dell’uomo dalla sua tradizione e, ad un tempo, l’annuncio di una nuova aurora, che si mostra per cenni enigmatici, rilevando come tutto il pensiero di Nietzsche ruoti attorno al “pensiero abissale” dello Zarathustra: l’eterno ritorno dell’uguale.

   

2. Zarathustra. Colui che annuncia.

Prima di iniziare l’esposizione dei contenuti del Così parlò Zarathustra dobbiamo chiarire la figura dello Zarathustra, capire perché Nietzsche ha scelto questa figura per annunciare le sue tesi di fondo. Lo Zarathustra non è certamente un personaggio che Nietzsche si è inventato. Zarathustra è colui che deve annunciare una nuova dimensione del mondo e quindi dell’essere. In primo luogo quindi lo «Zarathustra è l’espressione originaria, ricca di immagini e di parabole, di una “rivelazione”»[4].

Per capire fino in fondo il carattere dello Zarathustra faremo riferimento al prezioso contributo di Heidegger nel saggio Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?. Il titolo dell’opera è Così parlò Zarathustra. Questo significa che il compito di Zarathustra è quello di parlare: «Zarathustra parla. È un parlatore»[5]. Colui che porta un annuncio. Nella lingua tedesca la parola che indica il carattere orale dello Zarathustra è Fürsprecher che significa sia portavoce che avvocato[6]. Ed infatti nel brano Il convalescente Zarathustra dice «Io, Zarathustra, l’avvocato della vita, l’avvocato del dolore, l’avvocato del circolo»[7]. Chiarisce Heidegger: «Zarathustra parla a favore della vita, della sofferenza, del circolo, e questo egli proclama. Questi tre termini; “vita – sofferenza – circolo” sono connessi, sono la stessa cosa»[8]. Dire che tutti e tre questi termini sono la stessa cosa vuol dire che si alimentano vicendevolmente. La vita per Nietzsche è sinonimo di volontà di potenza, ma ogni cosa che vive soffre, o anche tutto ciò che soffre vuole vivere. Il mondo di Nietzsche è un insieme di forze che si contrastano, si urtano, tutte spinte dalla stessa tendenza, appunto la volontà di potenza[9]. In tal senso: «il “circolo” è il segno dell’anello (Ring) il cui lottare (Ringen) ritorna su se stesso e così ottiene (erringt) sempre il ritorno dell’uguale»[10]. Possiamo allora dire che Zarathustra è l’avvocato di tutto l’essente che spinto dalla volontà di potenza soffre, e così vuole questa volontà nell’eterno ritorno dell’uguale.

Un’altra considerazione da fare su Zarathustra noi la ricaviamo da due passi dell’opera, il primo si trova nel prologo, in cui Zarathustra dice «Io vi insegno il superuomo»[11], il secondo si trova nel Il convalescente in cui gli animali di Zarathustra gli dicono «tu sei il maestro dell’eterno ritorno»[12]. Zarathustra è quindi sia colui che insegna, cioè annuncia il superuomo, sia il maestro dell’eterno ritorno.

In questo testo ogni singola parola, come nei grandi poemi, ha la sua esatta collocazione, ogni singola sentenza è per così dire pesata fino in fondo. Ed infatti, il fatto che il suo essere il maestro dell’eterno ritorno non è detto da lui, come nella prima sentenza, è significativo per la figura di Zarathustra. La struttura simbolica in questo secondo caso è straordinaria. L’immagine che Nietzsche dà di questi due animali è così espressa: «Un’aquila volteggiava in larghi circoli per l’aria, ad essa era appeso un serpente, non come una preda, ma come un amico: le stava infatti inanellato al collo»[13]. L’immagine che si ha è quella del «circolo» e dell’«anello». L’animale più orgoglioso e quello più intelligente assumono il loro valore simbolico nel mostrare l’eterno ritorno, il circolo che tutto inanella. Ma gli animali di Zarathustra non dicono solo quello che Zarathustra è – il maestro dell’eterno ritorno –, ma qualcosa di più: «Giacché le tue bestie, Zarathustra, sanno bene chi tu sei e chi devi diventare: ecco, tu sei il maestro dell’eterno ritorno –, questo ormai è il tuo destino!»[14].

Nella sentenza Zarathustra deve divenire quello che è. In tutta l’opera questa trasformazione è vissuta da Zarathustra con grande sofferenza, perché divenire il maestro dell’eterno ritorno è per Zarathustra il passo decisivo, ma anche il più difficile. Ora proprio perché Zarathustra deve divenire il maestro dell’eterno ritorno, all’inizio del suo cammino (tramonto) non lo può già essere, ed infatti nel prologo di Zarathustra sentiamo la prima sentenza «Io vi insegno il superuomo». Il fatto che Zarathustra “insegni” il “superuomo”, è qualcosa che inerisce l’essenza stessa di Zarathustra; questo significa che per comprendere cosa sia Zarathustra, bisognerebbe comprendere cosa intende Nietzsche per Über-mensch. Alla lettera super-uomo, oltre-uomo, indica quell’uomo che va “oltre”, ossia colui che va oltre l’uomo che finora ha abitato nel mondo. Ma «perché l’uomo così com’è e com’è stato non è più sufficiente? Perché Nietzsche riconosce il momento storico in cui l’uomo si accinge ad accedere al dominio della terra nella sua totalità»[15]. Nietzsche profeticamente avverte che sta per subentrare un’epoca storica che porterà al dominio totale dell’uomo su questo pianeta, cogliendo nel contempo il fatto che l’uomo così com’è non è pronto per questo compito.

Seguiamo per adesso il ragionamento di Heidegger per comprendere il senso dello Übermensch e quindi di riflesso il senso della figura di Zarathustra. Si è detto che il superuomo è colui che va oltre l’uomo finora esistente. Il che significa che l’uomo per pervenire al superuomo deve compiere un passaggio. Questo passaggio è pensato da Nietzsche come un ponte: «L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo –, un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino…La grandezza dell’uomo è di essere un ponte non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto»[16]. Heidegger individua tre cose di questo passaggio: 1) ciò da cui colui che passa si allontana; 2) il passaggio stesso; 3) il luogo dove va colui che passa[17]. Dei tre momenti quello che assume il significato più importante è naturalmente il terzo, poiché è la meta che dà agli altri due momenti il loro significato. Certamente il superuomo direttamente non dice nulla dove questo passaggio porta; parla del passaggio – super-uomo –, ma non quale sia il luogo a cui l’uomo che supera perviene. Per Heidegger il «verso-dove» il passaggio porta rimane nella lontananza. Ma proprio perché si indica il passaggio questa lontananza rimane allo stesso tempo vicina, ossia «quella vicinanza che custodisce il lontano come lontano, perché pensa al lontano e si volge verso di esso»[18]. Ciò sprigiona una tonalità emotiva particolarmente significativa in tutto il Così parlò Zarathustra, quella della nostalgia: «la nostalgia è il dolore della vicinanza del lontano»[19]. Zarathustra come il maestro dell’eterno ritorno che dovrà essere, è egli stesso questo passaggio, essendone il portavoce. Nell’opera questo passaggio è il tema portante della terza parte, che rappresenta il fulcro di tutta l’opera. Ed è significativo che questa sezione sia intrisa di una grande sofferenza, quella appunto della nostalgia.

Per avviare una comprensione, se pur parziale, del luogo che questo passaggio porta, prendiamo in considerazione un brano della terza parte dell’opera, Del grande anelito. Qui Zarathustra intrattiene un colloquio con la sua anima: «Anima mia, io ti insegnai a dire “oggi” come se fosse “un giorno” e “un tempo”, e a danzare al di sopra di ogni “qui” e “lì” e “là” la tua danza circolare»[20]. Con le parole “oggi”, “un giorno” e “un tempo” Nietzsche indica le dimensioni fondamentali del tempo, ossia il presente, il futuro e il passato. Nella metafisica occidentale queste tre dimensioni vengono raggruppate in un unicum mediante il concetto di eternità, ossia dell’”ora” eterno. Anche Nietzsche parla di eternità, solo che per quest’ultimo l’eternità non consiste in uno stare, quello dell’”ora” eterno, ma in un “eterno ritorno dell’uguale”. La metafisica fondando l’eternità – ad esempio l’essere eterno di Parmenide – pone un contrasto insolubile tra questa dimensione ed il divenire; Nietzsche invece, facendo sua la lezione del divenire eracliteo, vuole porre l’eterno nel divenire stesso. Ma in che modo è possibile fondare questo nuovo senso dell’eterno? Tutto ciò che si inoltra nel divenire non è destinato al suo successivo tramonto, senza più farvi ritorno? Come può l’ente e in particolare l’uomo ritornare eternamente?

La risposta a questa domanda si trova in un brano della seconda sezione dell’opera intitolato Delle tarantole. Il passo che ci interessa dice: «Giacché: che l’uomo sia redento dalla vendetta – questo è per me il ponte verso la speranza suprema e un arcobaleno dopo lunghe tempeste»[21]. La redenzione dallo spirito di vendetta indica il ponte verso questo nuovo luogo, altrimenti inaccessibile. Ma perché questa redenzione rende possibile il passaggio? E cosa intende Nietzsche per vendetta?

In un altro brano sempre della seconda parte, Della redenzione, dice Zarathustra: «Lo spirito di vendetta: amici, su nient’altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto, e dov’era sofferenza, sempre doveva essere una punizione»[22]. Da questi due brevi passi si comprende che l’ostacolo a partire dal quale è possibile il passaggio verso la meta dello Über-mensch, è lo spirito di vendetta. Bisogna allora capire cosa Nietzsche intende per vendetta. Da questo chiarimento si comprenderà qualcosa in più sul perché Zarathustra è sia l’avvocato della vita, del dolore e del circolo, sia il maestro dell’eterno ritorno e del superuomo.

In primo luogo, lo spirito di vendetta non è qualcosa che riguarda un particolare tipo d’uomo, ma riguarda la totalità dell’uomo fino adesso esistito, dice infatti Zarathustra nel brano Della redenzione: «Lo spirito di vendetta: amici, su nient’altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto; e dov’era sofferenza, sempre doveva essere una punizione». Heidegger nota che il rapporto che si instaura tra l’uomo e l’essente, mediante la vendetta, non riguarda un particolare essente, ma l’essente nella sua totalità, ossia l’essere dell’essente[23]. La vendetta è quindi intesa non in termini etico-morali, ma metafisici. Ma cosa significa precisamente vendetta (Rache)? La parola tedesca per dire vendetta è Rache, dal verbo rächen (vendicare), che a sua volta rimanda a wreken, urgere, col significato di urtare, spingere, inseguire, dare la caccia. Questi significati indicano una contrapposizione tra colui che si vuole vendicare e ciò di cui ci si vuol vendicare. La vendetta per sua natura è ispirata dal sentimento di colui che si sente vinto, che ha subito un danno; questo comporta che chi si vuol vendicare, vuole abbassare il suo avversario ad un livello di subalternità, vuole cioè rovesciare il rapporto dato dal danno ricevuto. Si è detto però che la vendetta nel linguaggio nietzschiano ha una portata metafisica, non si esaurisce cioè nella semplice vendetta di un individuo nei confronti di un altro. Ora, nell’epoca moderna la struttura dell’essere dell’essente ha assunto una dimensione differente rispetto alla struttura antica, questa struttura, che parte dal cogito cartesiano fino all’idealismo tedesco, è caratterizzata dalla volontà. La volontà qui – in particolare nell’idealismo tedesco – non è semplicemente una facoltà dell’uomo, ma indica lo stesso essere dell’essente nella sua totalità: l’essere dell’essente si determina nell’epoca moderna come volere[24]. Questo comporta anche che il pensiero, pensando l’essere dell’essente, conformandosi ad esso, è il pensiero della volontà. Visto in questi termini, il pensiero di Nietzsche non si distanzia dal pensiero moderno, anzi porta a compimento l’essenza dell’essente come volontà. Eppure Nietzsche afferma che il pensiero degli uomini è condizionato dallo spirito di vendetta, che si esprime come: «l’avversione della volontà contro il tempo e il suo ‘così fu’»[25]. Nella vendetta la volontà è in conflitto, ed è in conflitto proprio col “tempo”, espresso dal “così fu”. Il tempo diveniente, come si è accennato, è caratterizzato da tre dimensioni: il passato, il presente ed il futuro. Ogni cosa immersa nel divenire è condizionata dal suo passare, dal suo schiudersi nell’apparire per rimanervi per un certo lasso di tempo e poi svanire. Ciò che svanisce è ciò che passa, ciò che esce fuori dal presente. Nietzsche quando mostra cosa sia la vendetta indica una doppia avversione della volontà quella nei confronti del tempo e quella nei confronti di una specifica dimensione del tempo, il “così fu”, il passato. La volontà nella vendetta è avversa nei confronti del passare del tempo, ossia di quella dimensione del tempo di cui la volontà non può far nulla. E non può far nulla perché il tempo è irreversibile, ciò che passa non può tornare. L’ente che nel suo divenire passa, passa nel non essente, in quello che la metafisica greca chiama μὴ ο̉́ν, il ni-ente. La volontà non ha potere nei confronti di ciò che passando diventa ni-ente. Eppure l’uomo sta per entrare nella fase in cui dominerà l’essente nella sua totalità, questo significa che per fare ciò, per essere veramente pronto per questo destino, deve superare questa avversione, redimersi dallo spirito di vendetta. Senza questo passo l’uomo non potrà mai oltrepassare se stesso.

Questo oltrepassamento comporta che la volontà, l’essere dell’essente, sia libera, non costretta dai lacci del “così fu”, dall’avversione nei confronti del passato. In ultimo, questo significa che il passato non deve passare e andare nel niente, il passato deve permanere. Solo se permane, la volontà è veramente libera, solo se cioè l’ente che passa permane, la volontà è compiutamente l’essere dell’essente. «Ma come può il passare rimanere? Solo in quanto, come passare, non solo sempre va, ma anche viene sempre. Soltanto in quanto il passare e ciò che in esso è passeggero ritorna, nel suo venire, come l’uguale. Ma questo ritorno stesso è qualcosa di permanente solo se è un ritorno eterno. Il predicato della “eternità” appartiene, secondo l’insegnamento della metafisica, all’essere dell’essente»[26]. Questo significa che con la redenzione dello spirito di vendetta si compie il passaggio verso la volontà che colloca l’essente nell’eterno ritorno dell’uguale; ecco perché Zarathustra è l’avvocato del circolo. Questa redenzione della volontà, la stessa che redime l’essente dal passato nullificante, rende possibile il passaggio dell’uomo, il suo superamento, l’evenire del superuomo.

Zarathustra è infatti sia colui che insegna il superuomo, ma principalmente il maestro dell’eterno ritorno, ed è proprio perché egli è in primo luogo il maestro dell’eterno ritorno che può essere colui che insegna il superuomo. Questo significa che è proprio per il pensiero dell’eterno ritorno che è possibile il passaggio del superuomo. Questo pensiero è per Nietzsche il pensiero «più abissale», ed infatti è il pensiero che nello Zarathustra viene esposto per ultimo e solo in modo enigmatico.

Comprendere quale sia il significato della figura di Zarathustra significa comprendere quello che egli annuncia ed insegna, la sua figura è tutta nella sua opera, in quello che Zarathustra porta agli uomini. Egli è sia colui che annuncia il superuomo sia il maestro dell’eterno ritorno, queste due componenti non sono separate, ma sono un unicum, si richiamano vicendevolmente. Questo significa che l’eterno ritorno dell’uguale non è semplicemente una nuova idea del tempo, che per giunta non è neppure nuova, ma anzi rimanda all’idea della circolarità del cosmo greco, e non solo. Non possiamo cioè ridurre l’eterno ritorno come fa il nano nel brano La visione e l’enigma ad una semplice constatazione sulla circolarità del tempo cosmico, esso riguarda l’essenza stessa della volontà, e della sua redenzione.

Veniamo allora al punto nodale del tema della redenzione dello spirito di vendetta. Come può la volontà essere redenta da quel macigno del “così fu” che non si lascia smuovere? Come può la volontà interrompere il susseguirsi inesorabile di colpa e punizione? Solo con la capacità della volontà di creare. Afferma Zarathustra in tal senso: «Via da tutte queste filastrocche, io vi condussi quando vi insegnai: “la volontà è qualcosa che crea”… Finché la volontà che crea non dica anche: “ma io così voglio! Così vorrò!”»[27]. la volontà si redime solo se essa stessa diventa veramente partecipe della creazione, solo se è capace di questo atto di pura creazione, la volontà si redime dall’avversione verso il passato. La volontà trasfigurata non vede più nel passato un macigno inesorabile, ma ciò che in quanto voluto ritorna sempre. Il superuomo è colui che compie questo passaggio, oltrepassa il macigno del “così fu”, mutandolo in un “così volli”. Ma perché tutto questo possa accadere l’uomo stesso deve mutare, in lui deve succedere una metamorfosi.

Zarathustra, colui che annuncia il superuomo, il maestro dell’eterno ritorno, in primo luogo deve insegnare agli uomini la grande metamorfosi. Solo a partire da questa metamorfosi è possibile qualcosa come la redenzione dallo spirito di vendetta. La metamorfosi non è però semplicemente qualcosa che Zarathustra insegna, essa è qualcosa che lo stesso Zarathustra compie all’inizio del suo cammino (tramonto); di questo ne è testimone il vegliardo che vede Zarathustra scendere dalla montagna: «questo viandante non mi è sconosciuto: alcuni anni fa è passato di qui. Zarathustra era il suo nome; ma egli si è trasformato. Portavi allora la tua cenere sul monte: oggi vuoi portare nelle valli il tuo fuoco?…Sì, riconosco Zarathustra. Puro è il suo occhio, né disgusto si cela sulle sue labbra. Non incede egli a passo di danza? Trasformato è Zarathustra, un bambino è diventato Zarathustra, Zarathustra è un risvegliato»[28].

 

 

3. Le tre metamorfosi.

La grande metamorfosi è in realtà tripartita, il ponte verso il superuomo pone tre grandi mutamenti, senza i quali e il superuomo e la dottrina dell’eterno ritorno come anche la volontà di potenza non potrebbero essere chiariti.

Le tre metamorfosi dello spirito sono quella in cui «lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo»[29].

Lo spirito cammello è caratterizzato dalla capacità di portare su di sé i pesi più gravosi, è lo spirito della sopportazione, del dovere. «Che cosa è gravoso? Domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato»[30]. Il peso che questo spirito sopporta compiaciuto, è il peso della trascendenza, dell’idealismo. Questo spirito rifiuta compiti facili, vuole essere sottoposto sempre a compiti gravosi, e vuole ubbidire a molti. In ultima analisi lo spirito-cammello vuole il suo “dovere”, vuole il peso che appunto la categoria del dovere implica. Tutta la sua volontà è concentrata sul dictat “io devo”[31]. In questa prima metamorfosi la categoria del volere è tutta immersa in quella del dovere.

Ora, si è detto che l’affrancamento della volontà dallo spirito di vendetta si ottiene mediante queste tre metamorfosi. È quindi paradossale che questo affrancamento debba iniziare mediante questa prima metamorfosi, che appunto più che affrancare attanaglia la volontà, la lega ad una servitù gravissima. Forse Nietzsche ci vuole dire che la via del superuomo è una via estrema, una via che necessita di vivere la sofferenza al suo massimo livello. Solo se cioè l’uomo assume su di sé il peso più grande della sofferenza del dovere, può affrancarsi da quest’ultimo. Questa liberazione più accadere solo quando l’uomo raggiunge nel deserto la sua più profonda solitudine: «ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto»[32]. Se la prima metamorfosi porta al massimo grado il peso della morale, con la seconda metamorfosi si ha il capovolgimento. La tensione è perciò massima, in quanto lo spirito-leone capovolge completamente lo stato in cui si trovava precedentemente, negando completamente tutta la morale, il peso appunto che nello spirito-cammello rappresentava il senso della sua esistenza. Ed infatti in questa nuova metamorfosi lo spirito-leone vede nel “dovere” il suo ultimo nemico: «Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria. Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? “Tu devi” si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice “io voglio”»[33]. Ecco quindi il nocciolo essenziale della metamorfosi, “io devo” diventa “io voglio”, e di conseguenza il più grande nemico diventa il “dovere”, simbolicamente raffigurato mediante l’immagine del drago. Il drago è quindi l’immagine della morale, del trascendente, che attanagliano lo spirito, e lo lega a questo mostro: «“tu devi” gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni squama splende a lettere d’oro “tu devi!”. Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il più possente dei draghi: “tutti i valori delle cose – risplendono su di me”. “Tutti i valori sono già stati creati, e io sono – ogni valore creato. In verità non ha da essere più alcun ‘io voglio’!”»[34]. Il drago mostra come la volontà è impotente, sancisce il divieto di creare. Lo spirito-cammello è infatti colui che è incapace di creare, tutto il peso che egli porta su di se impedisce alla sua volontà di esser libera di produrre nuovi valori, «tutti i valori sono gia stati creati», egli può solo sottomettersi a tali valori. Il “tu devi” corrisponde quindi al “così fu” dello spirito di vendetta. Solo uno spirito affrancato da tale peso può porsi nella disposizione di creare nuovi valori.

L’atto creativo però non è ancora compiuto. Lo spirito-leone non è ancora in grado di creare: «creare valori nuovi – di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione – di questo è capace la potenza del leone»[35]. La libertà del leone è libertà “da”, non libertà “di”, egli per così dire si rende libero per l’atto creativo, ma non per compierlo. «Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo fratelli, è necessario il leone»[36]. Commenta in tal senso Fink: «questa libertà del leone, che dice No, che rifiuta Dio, la morale oggettiva e la cosa metafisica in sé, e le intuisce come illusioni di una alienazione idealistica, non è la libertà radicale: essa è soltanto una libertà negativa, libertà “da”, non libertà “di”»[37]. È certamente un passo essenziale nell’affrancamento della volontà dai tentacoli della morale metafisica, ma non definitivo. Lo spirito-leone è in primo luogo spirito combattivo, spirito che attua un forte attacco nei confronti del “drago”, eppure è proprio questa tensione ad impedire l’ultimo passo, quello della volontà creatrice. La volontà per creare ha bisogno dell’innocenza del fanciullo: «Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire sì»[38]. Il frammento 52 di Eraclito dice «αι̉ὼν ε̉στι παίζων πεσσεύων˙ παιδὸς η̉ βασιληίη», “il tempo è un fanciullo che gioca con le tessere di una scacchiera, di un fanciullo è il regno”. È indubbio la grande vicinanza del fanciullo di Nietzsche con quello di Eraclito. Questo viene confermato dal passo successivo di Nietzsche: «Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo»[39]. È importante notare come l’innocenza del fanciullo sia perfettamente compiuta nel significato della parola gioco, che rileva come la volontà pienamente affrancata crea perché gioca. Bisogna subito dire che il gioco qui non è qualcosa di ludico, non è un affare per così dire leggero. Il gioco è qualcosa di estremamente serio, indica che la volontà può creare liberamente nuovi valori, una nuova configurazione del mondo, perché si immette nella stessa innocenza del divenire, che appunto crea e distrugge “senza perché”. È l’erompere del caos dionisiaco: «bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante»[40]. Il fanciullo è tutto questo: in quanto volontà innocente, è anche volontà creatrice; in quanto creatrice, è un nuovo inizio; ed ancora, in quanto questo nuovo inizio è affrancato dai lacci del “così fu”, è «una ruota ruotante da sola». Il fanciullo è simbolicamente il compimento del superuomo e con esso l’aprirsi dell’eterno ritorno dell’uguale. È indubbio che nel parallelo tra la sentenza di Eraclito e il fanciullo di Nietzsche ci sono anche delle differenze; in particolare per ciò che riguarda la volontà, che nel pensiero di Eraclito sembra assente. La volontà è infatti un concetto moderno, connesso alla figura del soggetto; solo che, appunto, il pensiero di Nietzsche mette in crisi la figura del soggetto, dell’individuo. Il soggetto, a sua volta, è il risultato del pensiero metafisico, e quindi di ciò di cui Nietzsche vuole sbarazzarsi. Il fanciullo nietzschiano si pone in opposizione assoluta rispetto al soggetto moderno, e, la sua volontà, confrontata alla volontà del soggetto, è non-volontà, non nel senso che non ha volontà, ma nel senso che questa volontà è affrancata dal peso della tradizione metafisica: libera di “essere”, e non di “dover essere” (conforme alla tradizione) o di “voler essere” (in contrapposizione alla tradizione, ma essendo in contrapposizione ancora non completamente libera per creare).

La volontà creatrice ed il fanciullo sono la medesima cosa. Il che ci porta al terzo dictat: “io sono”. In questo “io sono” si comprende l’innocenza della volontà creatrice, del fanciullo che giocando fa-mondo, porta allo schiudimento nuove configurazioni del mondo, fondendosi con esso. Se infatti nella prospettiva moderna la volontà del soggetto produce la sua opera, rimanendone però separato, nel fanciullo si ha una sorta di corto circuito tra volontà creatrice ed opera. Nella dimensione cosmologica del divenire, il fanciullo è quella volontà che è coerente con l’innocenza del flusso diveniente, ed è proprio grazie a questa compiuta adesione al divenire cosmico che il fanciullo può a sua volta creare, partecipare al divenire dionisiaco.  

Le tre metamorfosi possono essere così sintetizzate: “io devo”, “io voglio”, “io sono”. Il super-uomo è la via che compie questa triplice metamorfosi. 

 

 

    4. Il superuomo e la morte di dio.

Alcuni tratti del Übermensch sono stati già esposti, dobbiamo adesso approfondire questa figura enigmatica. È da notare che i primi discorsi di Zarathustra sono per così dire discendenti, egli parla prima del superuomo, ma quando si accorge di non essere ascoltato parla dell’uomo nella sua qualità di essere un ponte che porta al superuomo, quando poi anche questo discorso non trova ascolto, Zarathustra parla dell’ultimo uomo, ossia dell’antitesi del superuomo.

 Zarathustra all’inizio del suo cammino giunge in una città, dove molta gente è radunata al mercato per vedere l’esibizione di un funambolo. Lì Zarathustra decide di insegnare il superuomo. Ecco la prima frase che mostra un primo significato del superuomo: «Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!»[41]. Cosa intende Nietzsche per «terra»? La terra è la natura intesa come ciò a partire dal quale le cose nascono. La terra è la φύσις, ciò a partire dal quale gli enti si schiudono nell’apparire. Essa è perciò il principio della creazione in quanto tale. È lo stesso principio del divenire cosmico, del principio che pone come suo essenziale movimento il processo di produzione-distruzione “senza perché”, privo cioè di un principio razionale che dovrebbe stare al di sopra di questo flusso diveniente. Dire quindi che il superuomo è il “senso” (der Sinn) della terra, significa che egli è il senso del divenire cosmico, compie questo principio perché lo porta alla sua massima espressione, quella appunto del fanciullo.

È importante notare che la terra indica qui la dimensione della morte di Dio, la dimensione in cui colto l’inganno dell’idealismo, Nietzsche ridà alla terra la sua purezza, privata della sua sottomissione nei confronti di verità metafisiche. «Il superuomo, consapevole della morte di Dio, cioè della fine dell’idealismo, della perdita dell’al di là, riconosce nell’al di là idealistico soltanto una utopica immagine riflessa della terra. E alla terra restituisce ciò che le è stato preso a prestito e rapinato; rinnega tutti i sogni dell’al di là e si volge alla terra col medesimo fervore, col quale prima si volgeva al mondo dei sogni, il massimo della libertà umana si volge alla Gran Madre, alla terra dall’ampio petto, e in essa trova i limiti, il contrappeso di tutti i suoi tentativi»[42]. Il superuomo è il senso della terra, affrancata dalla deformazione dell’idealismo platonico, di quel pensiero che vede nel reale solo un pallida immagine del mondo soprasensibile. In questo senso l’annuncio del superuomo annuncia nel contempo la morte di Dio, le due asserzioni costituiscono un unico grande movimento: esso si articola come affrancamento dell’uomo dall’istituzione del soprasensibile, che incatenato ad esso lo aliena dalla sua essenza, quale quello di essere creatore. In sostanza l’uomo stesso si sostituisce a Dio, e in particolare per ciò che concerne la creatio ex nihilo.

Bisogna ribadire che lo Übermensch non è l’uomo, ma lo scopo di quest’ultimo, che per attuarsi deve compiersi il tramonto dell’uomo, solo se cioè l’uomo della tradizione metafisica tramonta, lo Übermensch può compiersi: «la grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto»[43].

Noi abbiamo già accennato cosa implica il tramonto dell’uomo nelle tre metamorfosi, che per questo sono un riferimento essenziale per tutto il discorso sviluppato nella prima parte dello Zarathustra. Il punto nevralgico sta nel chiarimento di quell’essenza nascosta dell’uomo che si determina nella sua capacità di creare. Questo tema viene ripreso nel brano Del cammino del Creatore. In esso troviamo quella progressione dell’uomo indicata dalle tre metamorfosi. Progressione che vede l’uomo che si affranca dalla metafisica sempre più solo. «“Colui che cerca, finisce facilmente per perdersi. Ogni solitudine è una colpa”: così parla il gregge. E tu hai fatto a lungo parte del gregge»[44]. Quando lo spirito-cammello inizia la sua metamorfosi in spirito-leone, si protende verso un cammino di solitudine, che il gregge considera una “colpa”, qualcosa di spregevole, e che pur nell’affrancamento continua ad abitare dentro di sé: «La voce del gregge continuerà a risuonare dentro di te. E quando dirai “Io non ho più la vostra stessa coscienza”, ciò sarà un lamento e un dolore»[45]. Lo spirito-leone, l’“io voglio”, è immerso in un grande dolore, vive certo l’affrancamento, ma sente nel contempo il fantasma di ciò che ha abbandonato. Il drago, infatti, che il leone vuole combattere, è lui stesso, ciò che di sé si vuol liberare. Il punto nevralgico è quindi la capacità del leone di trasformarsi in fanciullo, in un nuovo inizio: «Sei una nuova forza e un nuovo diritto? Un moto primo? Una ruota che corre da sé? Sei capace di costringere le stelle a ruotarti intorno?»[46]. L’ultima metamorfosi, lo Übermensch, è certamente la più difficile, e questo perché non implica semplicemente una grande capacità di superarsi, ma, ancor di più, di non portarsi dentro di sé il fantasma delle proprie catene[47]: «Libero, ti chiami? Voglio sentire il tuo pensiero dominante e non che sei sfuggito a un giogo»[48]. Anche qui la libertà dello Übermensch non è libertà “da”, ma libertà “di”: «Libero da che cosa? Che importa a Zarathustra? Ma il tuo occhio deve limpidamente annunciarmi: libero per che cosa[49]. Libero quindi di creare il proprio mondo, la propria legge, e di esserne allo stesso tempo l’esecutore: «Sei capace di essere per te stesso il giudice e il vendicatore della tua legge?»[50].

Colui che crea una nuova legge è massimamente solo e, come si è visto, il gregge disprezza il solitario, eppure colui che crea deve non di meno porgere la propria legge agli altri: «Ingiustizia e lordura essi gettano verso il solitario: ma, fratello, se vuoi essere una stella, devi nondimeno rilucere anche per loro!»[51]. Nel brano Della virtù che dona Zarathustra dice: «Simile all’oro, luccica lo sguardo di colui che dona. Lo splendore dell’oro sigilla la pace tra la luna e il sole»[52]. Colui che crea dona, dona se stesso, e per questo si sacrifica per qualcosa di superiore: «Questa è la vostra sete, diventare voi stessi vittime e doni: e per questo avete la sete di accumunare tutte le ricchezze nella vostra anima»[53]. La sete di colui che crea è insaziabile, perché è insaziabile la sua volontà di donare. Simile ad uno specchio è il suo creare, egli riceve tutte le ricchezze della “terra”, per poi donarle agli uomini: «Voi costringete tutte le cose a venire a voi e dentro di voi, perché riscaturiscano dalla vostra sorgente come doni del vostro amore»[54]. È questo per Nietzsche un egoismo benefico, perché appunto non si limita all’appropriamento di tutte le ricchezze, colui che crea è un «predone di tutti i valori», solo perché diventi «amore che dona». Questo però più accadere solo quando lo spirito-leone si sia affrancato dall’idealismo, solo quando faccia della “morte di dio” l’inizio della sua libertà per creare: «L’egoismo ricco, che dona se stesso, che non vuole conservarsi, ma vuole sempre mutarsi in una vita più ricca, più piena e più potente, in una vita straripante e prodiga della sua ricchezza, questo impeto della vita verso una superiore potenza, la vita turgida che si eleva, questa ricerca di sempre nuovi autosuperamenti, è il vero modo di essere dell’uomo liberatosi da Dio, del creatore»[55].  Ma esiste anche un egoismo malato, quello di colui che ruba e non dà nulla: «Con occhio di ladro esso guarda a tutto quanto luccica; con l’avidità della fame conta i bocconi a chi ha da mangiare in abbondanza; e sempre si insinua alla tavola di coloro che donano»[56]. È questo egoismo sinonimo di «degenerazione», di una mente che vuole tutto per sé e nulla dona: è la mentalità del gregge, quella che vive sotto il peso di Dio. Solo quindi con la morte di dio l’uomo può conquistarsi la sua libertà per creare, di quel creare che fa dello Übermensch il senso della terra: «Rimanetemi fedeli alla terra, fratelli, con la potenza della vostra virtù! Il vostro amore che dona e la vostra conoscenza servano il senso della terra! Così vi prego e vi scongiuro. Fate che essa non voli via dalle cose terrene e vada a sbattere con le ali contro muri eterni! Ahimè, vi è stata sempre tanta virtù volata via! Riportate, come me, la virtù volata via sulla terra – sì riportatela al corpo e alla vita: perché dia un senso alla terra, un senso umano!»[57]. Le virtù dell’uomo sono state sempre strappate via dalla terra, immolate al dio, all’eterno; e questo è per Nietzsche in antitesi con il vero senso dell’uomo, che appunto è un tutt’uno con il senso della terra: lo Übermensch.

Sino ad oggi «l’uomo è stato un tentativo», ed ha errato in cento modi, immolando ciò che di virtuoso vi era in lui; questo errare è per l’uomo la sua eredità. È questa l’eredità contro cui l’uomo, lo spirito-leone, deve combattere, perché sia ancora capace di creare. La morte di dio dona all’uomo quella libertà inesauribile, che ancora non ha scorto: «Mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole nascoste della vita. Inesaurito e non scoperto è ancor sempre l’uomo e la terra dell’uomo»[58]. Ma perché l’uomo sia veramente capace di esprimere la sua essenza, mai compiuta, egli stesso deve tramontare, e con lui deve tramontare la sua eredità, il suo essere ancora servo del trascendente; Dio deve tramontare con l’uomo che porta il suo peso; quest’ultimo deve perciò assolvere il compito di essere un ponte tra l’animale e il superuomo: questo il grande meriggio.

«Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva» – questa sia un giorno, nel grande meriggio, la nostra ultima volontà! –»[59].

 

 

 

5. La volontà di potenza.

Se la prima parte del Così parlò Zarathustra è sostanzialmente dedicato all’annuncio del superuomo e della morte di dio, che come si è visto rappresentano un unico movimento; la seconda parte accenna ad un altro tema fondamentale del pensiero di Nietzsche: la volontà di potenza. Bisogna però chiarire che questo tema non è il nucleo essenziale intorno a cui gira questa seconda parte. Esso infatti verrà veramente affrontato solo nelle opere successive allo Zarathustra. Infatti, questo tema, come ancor di più l’eterno ritorno, non viene mostrato mediante una esposizione rigorosa, ma per simboli, per cenni; questo anche perché un pensiero che voglia veramente affrancarsi dalla tradizione, non può parlare mediante il linguaggio della metafisica, deve in un certo qual modo crearne un altro, un linguaggio che il gregge considera «folle», ed è quello che Nietzsche tenta di fare nello Zarathustra.

La volontà di potenza è la medesima volontà creatrice, quella appunto che vuole creare nuovi mondi, nuove configurazioni dell’essente, ma, come si è ripetutamente visto, questa volontà può adempiere il suo compito, solo se si affranca dal giogo del trascendente; colui che crea, infatti, sarebbe limitato, circoscritto se esistessero gli dèi, il suo creare sarebbe pieno di divieti, istruzioni, ordini: «se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque non vi sono dèi»[60]. Si noti che qui la non esistenza di dio non viene dimostrata medianti argomenti di ordine metafisico, ma semplicemente perché dio impedisce all’uomo di compiere la sua essenza, fin quando dio tiene nel suo giogo l’uomo, quest’ultimo non potrà liberare la sua volontà creatrice, il suo scopo ultimo. La volontà veramente affrancata è quella che non parla più mediante simboli dell’Eterno, dell’Uno, dell’Imperituro: «invece i migliori simboli debbono parlare del tempo e del divenire: una lode essi debbono essere e una giustificazione di tutto quanto è perituro!»[61]. La volontà creatrice, per sua stessa natura, è coerente con il divenire, quale processo di produzione-distruzione dell’ente, è anzi la sua più nobile espressione: «il superuomo è il senso della terra». Commenta in tal senso Fink: «il tempo reale, della cui esistenza non si può non tener conto, che non si può mai oltrepassare, l’andare e il venire delle cose, il mutamento continuo, l’impetuoso e sibilante passare di tutto ciò che è perituro, questo soltanto è la via del creatore; egli ha la sua patria ventosa nel terreno e nel passeggero; il suo creare stesso è costruire e distruggere, progettare mete finite e superarle; il creatore, che soltanto con la morte di Dio conquista la sua estrema libertà e apre a se stesso la terra, sta espressamente e volontariamente nel tempo, accetta la caducità e, con ciò, la sua propria fine»[62]. Lo Über-mensch esprime un continuo autosuperamento di sé, ma questo è possibile solo se l’uomo vive completamente la propria finitezza, come anche la finitezza di tutto l’ente. Il suo superamento è sempre superamento di qualcosa di finito, egli continua a costruire sopra di sé, distruggendo ciò che era, e cercando ciò che non è ancora. La finitezza qui non è più il germe dell’angoscia che l’uomo cerca di curare con il farmaco dell’eterno, ma lo spazio esistenziale a partire dal quale la volontà è libera di creare. Il suo creare è in primo luogo un giocare con il tempo cosmico diveniente, ed è il fanciullo che può compiere questo gioco: «il tempo è un fanciullo che gioca con le tessere di una scacchiera, di un fanciullo è il regno».

La volontà creatrice, creando il proprio mondo, crea conoscenza: «Anche nel conoscere io sento solo la mia volontà che gode di generare e di divenire; e se nella mia conoscenza è innocenza, ciò accade perché in esse è volontà di generare»[63]. Al di là del pensiero dell’eterno, del trascendente, la conoscenza più essere solo frutto della volontà di colui che crea, perché essa stessa non è altro che il “senso” dell’unica realtà che per Nietzsche tutto domina: il divenire.

Il rapporto tra la volontà di potenza e il divenire come “motore” di ogni atto creativo è affrontato da Nietzsche nel brano Della vittoria su se stessi. Vediamo in breve i contenuti di questo brano.

Colui che crea, crea il proprio mondo, dà quindi forma a tutto l’essere con il proprio pensiero: «Volontà di rendere pensabile tutto l’essere: così chiamo io la vostra volontà!»[64]. Tutto l’essere «deve anche adattarsi e piegarsi a voi! Così vuole la vostra volontà. levigato deve diventare e soggetto alla spirito, come suo specchio e immagine riflessa»[65]. In un aforisma della fine del 1886 Nietzsche afferma: «Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza»[66]. Si comprende quindi che la volontà creatrice, la volontà di potenza, è in primo luogo la volontà di operare attivamente al divenire dell’ente, essere demiurgo dell’ente. Questo però non vale solo per l’uomo affrancato dalla tradizione, ma proprio quest’ultima “crea” i propri valori perché mossa da questa forza primigenia: «Sul fiume del divenire avete posto la vostra volontà e i vostri valori; ciò che dal popolo viene creduto bene e male si tradisce a me come un’antica volontà di potenza»[67]. È questo un punto essenziale del pensiero di Nietzsche, egli afferma che “tutto” è mosso dalla volontà di potenza, anche tutta la tradizione occidentale, anche il cosiddetto gregge, è in ultima analisi volontà di potenza. Il punto semmai è comprendere fino in fondo questo principio ancestrale. I valori che indicano cosa sia “bene” e cosa sia “male”, sono frutti di questa volontà, ma la tradizione interpreta male la “genesi” di questi valori, perché li rapporta ad un principio trascendente, che cioè sta “al di là” del divenire. La metafisica platonico-cristiana afferma che il “bene” è emanazione dell’ente supremo, non certamente un modo con cui la volontà di potenza crea una nuova configurazione del mondo. Ecco, allora, la grandezza del pensiero di Nietzsche, quello di mostrare la volontà di potenza nella sua terribile “purezza”, «al di là del bene e del male»; è questo “al di là” il vero “al di qua” del mondo, della terra che crea e distrugge se stessa senza alcun principio metafisico, ma come semplice autosuperamento di sé, come volontà di potenza: «Non il fiume, saggissimi, è il vostro pericolo e la fine del vostro bene e male: bensì quella volontà stessa, la volontà di potenza, – l’inesausta volontà della vita»[68].

Vediamo adesso come si struttura la vita in termini di volontà di potenza.

In primo luogo Zarathustra nota che ogni essere vivente tende all’obbedienza, «ogni essere vivente è un essere che obbedisce»[69], ma anche chi comanda «comanda a  colui che non sa obbedire a se stesso». L’essere vivente, o come schiavo o come signore, tende sempre all’obbedienza. Ma cosa rende possibile questa primordiale tendenza dell’essere vivente? «Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato la volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone. Il debole è indotto dalla sua volontà a servire il forte, volendo egli dominare su ciò che è ancora più debole»[70]. Ogni essere vivente è in primo luogo mosso dalla volontà di potenza, questo vale non solo per il forte, ma anche per il debole che, mettendosi sotto la protezione servile del forte, “vuole”, a sua volta, dominare chi è più debole di lui. È importante anche notare che chi massimamente si dedica al comando, con eguale grandezza arrischia se stesso, mette in pericolo la sua vita, «per amore della potenza»: «questa è la dedizione del più grande: temerità e pericolo, e un giuoco di dadi con la morte»[71]. Il pericolo supremo è di colui che mette in gioco se stesso e così si autosupera; è insomma l’autosuperamento a rendere la volontà di potenza in pericolo. Ma, come si è detto, è la “vita stessa” ad essere volontà di potenza, e quindi sempre in bilico: «la vita stessa mi ha confidato questo segreto. “Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa”»[72]. Quanto più l’uomo si approssima, al di là del bene e del male, a questa forza vitale, tanto più egli deve arrischiarsi. La tendenza della vita per Nietzsche non è quella della sua preservazione, ma dell’autosuperamento. Essa sacrifica se stessa per qualcosa di più grande. Non c’è insomma nessuna volontà di esistere: «ciò che non è, non può non volere; ma ciò che è nell’esistenza, come potrebbe ancora volere l’esistenza!»[73]. Ed ancora: «solo dove è vita, è anche volontà: ma non volontà di vita, bensì…volontà di potenza!»[74].

Come la stessa vita, colui che crea immola se stesso per qualcosa di superiore, bisogna insomma essere dei distruttori se si vuole creare qualcosa di nuovo: «E vada pure in frantumi tutto quanto può andare in frantumi per le vostre verità! Vi sono ancora case da costruire!»[75].

Si vede da tutto ciò come la volontà di potenza e l’autosuperamento dello Über-mensch siano un tutt’uno; lo Übermensch è il senso della terra, perché quest’ultima si manifesta come continuo superamento di sé; la volontà di potenza è la tensione cosmica del divenire. Il nesso tra volontà di potenza e il tempo diveniente è quindi evidente: la volontà di potenza può svolgersi solo nel tempo, e proprio nel tempo della finitezza, altrimenti non potrebbe superare gli stadi finiti del divenire.

Il punto essenziale adesso da comprendere è se questo autosuperamento sia infinito, se cioè i momenti finiti del tempo, continuamente superati, siano infiniti; se insomma il tempo diveniente sia una linea ascendente infinita. È quindi a partire da questo problema che si instaura il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale. È questo pensiero il “pensiero abissale” di Zarathustra, che non viene espresso in modo rigoroso ma solo per cenni, per immagini, per enigmi. Nel brano finale della seconda parte e che introduce il tema portante della terza parte, L’ora senza voce, Zarathustra è atterrito da una voce invisibile che gli chiede di pronunciare le parole del suo pensiero abissale: «Tu lo sai, Zarathustra, ma non lo dici!»[76]. “L’ora senza voce” chiede a Zarathustra di pronunciare il suo pensiero, ma egli non riesce a farlo: «Ah, vorrei certo, ma come posso! Risparmiami almeno questo! Ciò è al di sopra delle mie forze!»[77]. E la “senza voce” gli risponde: «Che importa di te, Zarathustra! Dì la tua parola e infrangi te stesso!»[78]. Si comprende da queste poche battute quanto sia difficile per Zarathustra compiere quest’ultimo passo. Egli non si sente pronto per questo gravoso compito. Ed infatti “l’ora senza voce” gli dice: «bisogna ancora che tu diventi un fanciullo e senza vergogna. Su te pesa ancora l’orgoglio della giovinezza, sei diventato giovane tardi: ma chi vuol diventare un fanciullo, deve superare anche la giovinezza»[79]. Il pensiero dell’eterno ritorno richiede ancora un ulteriore superamento, quello che porta al fanciullo, «della ruota rotante da sola».    

 

  

 

 

 

 

6. L’eterno ritorno dell’uguale.

La terza parte del Così parlò Zarathustra ha come tema portante il pensiero “abissale” di Nietzsche, l’eterno ritorno dell’uguale. Questo pensiero è il centro nevralgico di tutta l’opera, e questo si comprende dal fatto che mentre nella prima parte Zarathustra ridiscende dalla sua montagna per insegnare agli uomini la dottrina del superuomo, e nella seconda Zarathustra è in colloquio con i suoi discepoli, nella terza parte egli ritorna nella sua più profonda solitudine. L’eterno ritorno richiede uno sforzo estremo per Zarathustra, dettato dal fatto che esige un’ultima trasformazione, quella che porta al fanciullo.

Il brano che per primo annuncia l’eterno ritorno è La visione e l’enigma. La dottrina dell’eterno ritorno viene qui esposta mediante una “visione” enigmatica, essa è «la visione del più solitario tra gli uomini»[80]. L’eterno ritorno richiede una solitudine assoluta, e questo perché necessita di una trasformazione nell’intimo dell’uomo. La visione descrive Zarathustra che si inoltra in un sentiero desolante ed in salita: «Un sentiero, in salita dispettosa tra sfasciume di pietre, maligno, solitario, cui non si addiceva più né erbe né cespugli: un sentiero di montagna digrignava sotto il dispetto del mio piede»[81]. È singolare che la visione dell’eterno ritorno si apra con questa natura desolante, sta forse ad indicare che questa dottrina deve prima di tutto essere appresa nella più totale solitudine, solo quando cioè intorno a noi si fa deserto, i nostri pensiero più profondi si schiudono a noi. L’atmosfera è di tetro silenzio, l’unico suono è quello del «crepitio della ghiaia» per l’incedere di Zarathustra.

Il cammino di Zarathustra è in salita – la sua ultima vetta – ed il suo incedere è reso faticoso da una presenza: lo spirito di gravità. È questo spirito il più grande nemico di Zarathustra. In diverse forme noi lo abbiamo già intravisto: è l’avversità del “così fu”, il peso dello spirito-cammello, il drago con cui combatte lo spirito-leone, è ciò che schiaccia con il suo peso la volontà, impedendo a quest’ultima di essere veramente libera di creare. Questo peso adesso rende difficoltoso il cammino di Zarathustra: «Verso l’alto: – sebbene fosse seduto su di me, metà nano; metà talpa; storpio; storpiante; gocciante piombo nel cavo del mio orecchio, pensieri-gocce-di-piombo nel mio cervello»[82]. Se la salita di Zarathustra simbolizza il suo continuo superamento, lo spirito di gravità è ciò che vuole vanificare ogni superamento, ogni anelare dell’uomo a qualcosa di superiore: «O Zarathustra, sussurrava beffardamente sillabando le parole, tu, pietra filosofale! Hai scagliato te stesso in alto, – ma qualsiasi pietra scagliata deve cadere – cadere! O Zarathustra, pietra filosofale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle! Hai scagliato te stesso così in alto, – ma ogni pietra scagliata deve cadere! Condannato a te stesso, alla lapidazione di te stesso: o Zarathustra, è vero: tu scagliasti la pietra lontano, – ma essa ricadrà su di te[83]. Per quanto l’uomo possa erigersi, per quanto la sua opera possa raggiungere vette altissime, alla fine tutto deve ricadere. Se il tempo stesso è un flusso infinito di istanti finiti, l’uomo può certamente superarli, ma non all’infinito. Il progetto dell’uomo, per quanto sia grande, è pur sempre finito. Dice in tal senso Fink: «Tutti i progetti dell’uomo devono alla fine cadere, una salita senza fine non è possibile, poiché lo impedisce il tempo senza fine. In esso si esaurisce ogni forza; esso diventa padrone delle volontà più ostinate, spezza le reni anche alle più possenti speranze. Lo spirito della gravità riporta indietro ogni slancio e lo piega nella caduta…È chiaro che di fronte al tempo infinito ogni tempo diventa assurdo, ogni rischio senza motivo, ogni grandezza si rimpicciolisce. Lo spirito della gravità, qui inteso come coscienza dell’infinità del tempo, impedisce il vero protendersi dell’esistenza nell’apertura cosmica del mondo»[84].

Lo spirito di gravità pone all’intera dottrina di Nietzsche un problema estremo, senza la cui soluzione tutto il pensiero nietzschiano non potrebbe pretendere di porsi fuori dalla metafisica. Se per il pensiero di Nietzsche il divenire è l’unica realtà esistente, bisogna però capire se il flusso diveniente rende possibile l’autosuperamento, proprio della volontà di potenza dello Übermensch; ma bisogna anche capire se questo autosuperamento venga vanificato dall’infinità del tempo, che appunto rimpicciolisce qualsiasi superamento di sé. Se cioè vale l’infinità irripetibile del tempo ogni progetto finito dell’uomo è, per ciò stesso, destinato alla caducità, e la volontà è condannata ad essere legata per sempre allo spirito di vendetta, al “così fu”.

Zarathustra però non si arrende, il suo spirito è pieno di coraggio: «Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io –: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo – tu non potresti sopportarlo!»[85]. Solo quindi questo «pensiero abissale» può sconfiggere lo spirito di gravità. Ed infatti pronunziate queste parole: «avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia»[86]. Da qui prende inizio la descrizione del punto nevralgico della visione dell’eterno ritorno. Seguiamo punto per punto i passi di questa visione: «Garda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine»[87]. La porta carraia, per sua natura, è un punto di sutura, unisce due vie. Le due vie simbolizzano le due estasi del tempo, il passato e il futuro; entrambe infinite, e quindi impercorribili fino in fondo. «Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E questa lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità»[88]. Ma proprio nel punto di sutura esse certamente convergono, ma allo stesso tempo divergono, l’una si contrappone all’altra: «Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convergono. In alto sta scritto il nome della porta “attimo”»[89]. Il tempo se visto come un flusso continuo, si presenta come una linea continua ed infinita; se visto invece a partire dell’“attimo”, le due infinità del tempo sono tra loro sia convergenti sia divergenti. L’attimo cioè è il punto a partire dal quale le due infinità si approssimano, ma anche si allontanano. L’attimo crea quindi una estrema tensione tra le due infinità; «ma chi ne percorresse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?»[90]. Il punto essenziale è quindi capire se questa tensione nell’eternità del tempo venga risolta, oppure no.

Bisogna subito ribadire che l’eterno ritorno non è la semplice affermazione che il tempo è in verità circolare. Infatti, il nano semplifica la descrizione di Zarathustra: «Tutte le cose dritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è circolo»[91]. Il nano risolve l’enigma in modo sprezzante, non rilevando nessuna difficoltà. Commenta in tal senso Heidegger: «La difficoltà non è per lui tale che valga la pena di parlarne; infatti, se le due vie scorrono nell’eternità, vanno verso la stessa cosa, quindi vi convergono e si conchiudono in un tragitto ininterrotto. Quelle che a noi sembrano due vie diritte che si dipartono l’una dall’altra, non sono in verità che la parte per ora visibile di un grande circolo che ritorna continuamente su se stesso. Le cose diritte sono una parvenza. In verità il loro scorrere è un circolo, cioè la verità stessa – l’ente, così come esso in verità scorre – è ricurvo. Il ruotare-in-circolo-su-se-stesso del tempo e quindi il continuo ritornare dell’uguale, di tutti gli enti, nel tempo, è il modo in cui l’ente nel suo insieme è. Esso è il modo dell’eterno ritorno. Così il nano è giunto a indovinare l’enigma»[92].

Ma Zarathustra rimprovera il nano, accusandolo di prendere questo enigma troppo alla leggera: «Tu, spirito di gravità! dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato – e sono io che ti ho portato in alto[93]. La questione dell’eterno ritorno posta come semplice circolarità del tempo, è per Zarathustra estremamente semplificante, non coglie, cioè, il punto essenziale di questa dottrina. Vediamo come invece Zarathustra pone l’essenza dell’eterno ritorno: «Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta?»[94]. Zarathustra pone il problema dell’eterno ritorno, in primo luogo partendo dall’attimo, e poi problematizzando l’infinità del passato, la cui questione sembra qui essenziale per cogliere l’eterno ritorno. Se cioè il passato è una via infinita, allora qualsiasi nostra possibilità, qualsiasi accadimento, qualsiasi configurazione di questo accadimento, deve essere già sempre accaduto; semplicemente perché l’infinità eterna del passato include, per sua essenza, qualsiasi configurazione del presente: «E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia – esserci già stata?»[95]. Non semplicemente “questo attimo”, ma anche tutto ciò che ad esso è connesso: «E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che l’attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque – – anche se stesso?»[96]. Se tutte le configurazioni dell’accadimento sono già accadute, anche il loro legame con ciò che sta per accadere, deve essere già accaduto, il futuro accadimento, che si approssima a quello presente, proprio così come si schiude nel presente, deve essere già accaduto: «Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuorideve camminare ancora una volta!»[97].

Se pensato secondo la prospettiva dell’eterno ritorno il passato ed il futuro nell’attimo presente non si contraddicono più, anzi essi si richiamano vicendevolmente, proprio perché se il passato eternamente non è altro che la ripetizione di ciò che accadrà, dall’altra il futuro eternamente non ripete che le infinite configurazioni già presenti nel passato; ecco perché in precedenza Zarathustra domandava se questi sentieri si contraddicono in eterno.

Bisogna insistere sul fatto che Zarathustra non parla semplicemente di circolarità del tempo, come «sprezzante» fa il nano, egli parla delle due eternità del tempo passato e futuro, partendo dall’attimo, dalla «porta carraia», ed è solo partendo da questa constatazione, quella appunto dell’eternità che implica la ripetizione, che rende necessaria la dottrina dell’eterno ritorno: «E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? – e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?»[98]. Ma questi pensieri sono per Zarathustra estremamente inquietanti: «avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi»[99].

Ma perché Zarathustra ha così tanto timore di questi pensieri? In fin dei conti il pensiero dell’eterno ritorno non dovrebbe portare sulla vetta più alta l’intera sua dottrina? Non dovrebbe cioè egli esultare di questo “abissale pensiero”?

E invece no, dette queste ultime parole, ecco che la visione di Zarathustra si fa ancora più cupa; all’improvviso egli sente l’ululare di un cane, e si ricorda di un altro passato episodio in cui vi era il medesimo terrificante ululare. Lo scenario precedente svanisce, il nano, il ragno, la porta carraia; d’un tratto Zarathustra si trova «in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna»[100]. E nelle prossimità del cane che ululava, vide una scena agghiacciante: «Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca»[101]. Cosa simbolizza il giovane pastore e il serpente? Il giovane pastore è Zarathustra stesso, mentre il serpente simbolizza la circolarità dell’eterno ritorno. Ma allora perché Zarathustra è drammaticamente aggiogato dal pensiero che più di tutti dovrebbe invece affrancarlo?

In effetti, l’eterno ritorno ha due differenti letture, l’una delle quali atterrisce Zarathustra. Se infatti l’eterno ritorno mostra che tutti gli accadimenti dovranno in eterno ripetersi, allora la volontà che crea, in verità, non crea nulla di nuovo, perché appunto ciò che di nuovo crea è già stato creato, e non una volta, ma infinite volte. Da questo punto di vista l’eterno ritorno porta all’estremo la sofferenza della verità metafisica; in quanto appunto, come la verità trascendente, l’eterno ritorno, aggioga l’uomo ad una legge eterna.

Ma esiste anche un’altra lettura dell’eterno ritorno, quella per cui ogni nostro decidere, ogni nostra scelta, è una novità assoluta che si eternizza; nel senso che ogni nostro superamento non si esaurisce nel tempo della vita attuale, come vorrebbe lo spirito di gravità, ma eternamente ritorna. Eterno è ogni nostro attimo, e quindi eterna è ogni nostra opera, ogni nostro creare; non perché già da sempre ritornante, ma perché il nostro creare crea un frammento dell’eternità. Il tutto insomma si gioca su come intendiamo l’“attimo”, se l’interpretiamo mediante il primo senso negativo dell’eterno ritorno, allora l’attimo non è altro che il ripetersi eternamente di qualcosa di già deciso, e di cui la nostra volontà non può far nulla; se invece interpretiamo l’attimo mediante il secondo senso positivo dell’eterno ritorno, allora esso è veramente un atto creativo “nuovo” che ritornerà in eterno, o anche qualcosa che io già da sempre ho creato e per sempre ritornerà.

Ed infatti, nella visione Zarathustra prova all’inizio a strappare il serpente dalle fauci del giovane pastore, ma non riuscendoci, grida «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!»[102]. Il morso non è altro che l’attimo de-ciso dall’uomo che si eternizza per sempre. Infatti, il pastore che mordendo stacca la testa del serpente si trasforma: «Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!»[103]. È il riso del fanciullo eracliteo che in un attimo crea una nuova eterna configurazione del mondo.

La metafisica ha sempre separato la dimensione dell’essere da quella del divenire, anzi possiamo certamente affermare che la metafisica è l’inizio di questa separazione. Ora, Nietzsche tenta un qualcosa di estremo: ricongiungere il mondo dell’essere con quello del divenire. E questo viene compiuto, o per lo meno tentato, proprio con l’eterno ritorno dell’uguale: «Che tutto ritorni, è l’estrema approssimazione di un mondo del divenire al mondo dell’essere»[104]. Questa approssimazione accade proprio nell’attimo, è in esso che l’essere e il divenire si compenetrano. Questo perché nell’attimo non si ha il semplice presentarsi di un essente, che poi diverrà passato, per poi ritornare dopo una sorta di anno cosmico. No, qui l’attimo è il convergere in uno delle tre estasi del tempo e che costituisce, per ciò stesso, l’essente che eternamente ritorna; non quindi l’eterno ritorno di un essente nell’involucro circolare del tempo, ma l’eterno ritorno della sintesi delle tre estasi del tempo nell’attimo dell’essente. Illuminante è in tal senso la proposta interpretativa di Deleuze: «Il rapporto sintetico che l’attimo ha con sé in quanto presente, passato e futuro fonda il rapporto con gli altri attimi. L’eterno ritorno è così la risposta al problema del passare; esso perciò non va interpretato come ritorno di un qualcosa, di un uno o di un medesimo. Intendere l’espressione “eterno ritorno” come ritorno del medesimo è un errore, perché il ritornare non appartiene all’essere ma, al contrario, lo costituisce in quanto affermazione del divenire e di ciò che passa, così come non appartiene all’uno ma lo costituisce in quanto affermazione del diverso o del molteplice. In altre parole, nell’eterno ritorno l’identità non indica la natura di ciò che ritorna, ma, al contrario, il ritornare del differente; perciò l’eterno ritorno dev’essere pensato come sintesi: sintesi del tempo e delle sue dimensioni, sintesi del diverso e della sua riproduzione, sintesi del divenire e dell’essere che si afferma dal divenire, sintesi della doppia affermazione. L’eterno ritorno, allora, non dipende da un principio di identità ma da un principio che, per tutti questi aspetti, deve soddisfare le esigenze di una vera ragione sufficiente»[105]. La sintesi delle tre estasi ha qui un valore ontologico – «imprimere al divenire il carattere dell’essere» –, e quindi l’eterno ritorno è l’eterno costituirsi dell’essere nel differente. Dove per differente Deleuze intende l’essenza stessa della volontà di potenza: «La volontà di potenza è l’elemento dal quale derivano sia la differenza di quantità di forze che siano tra loro in rapporto, sia la qualità che, in questo rapporto, è propria a ciascuna forza»[106]. In tal senso l’eterno ritorno non è altro che la sintesi delle forze, della loro differenza e della loro riproduzione.

Con l’eterno ritorno tutto il pensiero di Nietzsche trova un minimo comun denominatore. Se infatti l’essente è per Nietzsche volontà di potenza, l’eterno ritorno non è altro che il modo in cui la volontà di potenza esiste, come si configura nel divenire.

Come si è detto, tutta la terza parte dello Zarathustra ha come tema dominante l’eterno ritorno, anche se esplicitamente questo pensiero viene nominato solo in due brani, quello testé analizzato e Il convalescente. Tuttavia questo pensiero aleggia su tutti i brani della terza parte, in cui i temi principali delle sezioni precedenti, quali il superuomo, la morte di dio, la volontà di potenza, vengono ripresi e ripensati dal punto di vista dell’eterno ritorno, collocati quindi nella dimensione cosmica della vita.

La contemplazione di Zarathustra si immerge sempre più nell’eternità del cosmo, della sua vastità: «Oh, cielo su di me, puro! fondo! baratro di luce! Nel contemplarti fremo di desideri divini! Gettarmi nella tua altezza – questa è la mia profondità! Calarmi nella tua purezza – questa è la mia innocenza!»[107]. Come il fanciullo i suoi pensieri sono sempre più protesi verso l’immensità che l’eterno ritorno gli apre, che simile al cielo benedice tutte le cose: «su tutte quante le cose sta il cielo caso, il cielo innocenza, il cielo tracotanza»[108]. E tutte le cose sgorgano da questa tracotanza: «L’origine di tutte le cose buone ha mille forme, - tutte le buone cose proterve balzano con voluttà nell’esistenza: come potrebbero far ciò sempre e soltanto – una volta!»[109].

Come si è detto, anche la parte decostruente del pensiero di Zarathustra assume nuova linfa con l’annuncio dell’eterno ritorno. Nel brano Del passare oltre Zarathustra critica la «grande città», simbolo della modernità. Essa indica l’abbandono da parte dell’uomo della vastità del mondo, perché tutto essa rimpicciolisce e smembra: «qui marciscono tutti i grandi sentimenti: qui soltanto sentimentucci scheletriti possono far rumore coi loro ossicini!»[110]. A questa miseria umana Zarathustra propone di passare oltre, e di immergersi nella propria solitudine, per godere della vastità del mondo. La solitudine dei monti è la patria di Zarathustra. È questo un nuovo modo di intendere la patria. Considerarla cioè come il nostro semplice cerchio è per Zarathustra troppo ristretto; per lui la patria è lì dove il mondo è più vasto, dove la terra con le sue radici vive nella più piene apertura del mondo. La solitudine, da questo punto di vista, non è assolutamente chiusura nel puro solipsismo di un uomo che rifiuta la vita, ma, al contrario, completa apertura nei confronti dell’eternità ritornante della vita. Ma questa apertura accade solo quando tocca la nostra più intima essenza, è per questo che bisogna passar oltre il chiasso della città.

Questa contrapposizione tra il rimpicciolimento della dimensione cosmica da parte della tradizione e l’apertura che Zarathustra invece propone, è straordinariamente presente nel brano Delle tre cose malvagie. Quali sono le cose che la tradizione occidentale reputa massimamente malvagie? Esse sono la voluttà, la sete di dominio e l’egoismo. Ma anche qui la tradizione, come massimamente fa l’ultimo uomo, tutto rimpicciolisce, e non coglie la portata cosmica di queste cose. Se viste cioè al di là della dimensione mondana in cui sono state sempre collocate, si scorge una straordinaria ricchezza. La voluttà è «per i cuori liberi innocente e libera, la gioia del giardino terrestre, il traboccante ringraziamento del futuro per il presente»[111]. La volontà affrancata vede nella voluttà la sollevazione dell’esistenza individuale al di sopra di sé nell’infinita catena delle generazioni, vede cioè la propria finitezza anelare l’infinità del tempo, e quindi della sua eterna ripetizione. La sete di dominio apre la storia verso una dimensione sempre più vasta, spinge ogni epoca oltre se stessa in sempre più estesi futuri; la sua sete non si ferma in ciò che è vicino o raggiunto, anzi essa non si ferma mai, perché anela verso la più estrema lontananza. L’egoismo, visto sempre con gli occhi innocenti di Zarathustra, e come già visto in precedenza, non è l’egoismo di una vita meschina, ma la virtù donatrice che si prodiga per la sua sovrabbondanza. Il suo egoismo è in verità il suo estremo sacrificio, che preda le più grandi ricchezze trasmutandole, per poi donarle all’uomo.

Ma questo capovolgimento di tutti i valori della tradizione deve fare i conti con quello che per Zarathustra è il suo più acerrimo nemico: lo spirito di gravità. Con il pensiero dell’eterno ritorno si comprende ancora meglio cosa questo spirito significa: la chiusura cosmica dell’esistenza. Zarathustra contrappone alla pesantezza dello spirito di gravità la leggerezza dello spirito uccello, proprio della sua specie, «sempre pronto e impaziente di volare, di volar via – questa è la mia specie: come potrebbe non esservi qualcosa degli uccelli!»[112]. Il volo dell’uccello mostra la volontà che superando se stessa anela all’eternità del cosmo. Zarathustra è allora colui che insegna agli uomini il volo dell’uccello, solo con esso l’uomo più affrancarsi dallo spirito di gravità, diventando creatore del suo mondo: «Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola – “la leggera”»[113]. Ma l’uomo non è ancora capace del volo, egli sa certamente correre velocemente, ma, come lo struzzo, è ancora aggiogato allo spirito di gravità: «Lo struzzo corre più veloce del più veloce dei cavalli, ma anche lui ficca ancora pesantemente la testa nella terra pesante: così pure l’uomo, che ancora non sa volare. Pesante è per lui la terra e la vita; e così vuole che sia lo spirito di gravità»[114].

Perché l’uomo impari la leggerezza dell’eternità cosmica, deve, prima di tutto, imparare ad amare se stesso, ma «di amore sano e salutare: tanto da sopportare di rimanere presso se stessi e non andare vagando in giro»[115]. L’autentico amore verso se stessi esige la propria solitudine, una solitudine che, come si è visto, è, in verità, apertura cosmica. Questo amore è un tutt’uno con quelle virtù che in precedenza abbiamo nominate: la voluttà, la sete di dominio e l’egoismo. Tutte e tre queste virtù, se viste nella prospettiva cosmica, anelano alla leggerezza, allo slancio creativo, a tutto ciò di cui lo spirito di gravità si oppone. Infatti, esso aggioga l’uomo alla pesantezza del trascendente, e per questo lo aliena. A questa alienazione Zarathustra appunto contrappone l’amore verso se stessi.

Insegnare il volo non significa però per Zarathustra allontanarsi dalla finitezza delle cose. Ma, anzi, proprio mediante questa dottrina Zarathustra vuole portare ad un nuovo significato la finezza dell’uomo e delle cose, quello in cui la finitezza, anelando l’infinità, l’abbraccia, e trova in essa la sua propria patria. Solo che qui non si intende l’infinito che la metafisica pone al di là del mondo diveniente che, appunto, è la negazione del finito. Il finito abbraccia l’infinito, proprio perché questo non sta al di là di quello, ma è in esso e attorno ad esso. La dottrina dell’eterno ritorno afferma che la finitezza, in quanto finitezza, eternamente ritorna, e quindi si trasfigura in in-finitezza. Questo contrasto tra la leggerezza della finitezza che si inanella con l’infinitezza, e la pesantezza del finito separato e schiacciato dall’infinito del trascendente è pienamente svolto nel brano Di antiche tavole e nuove. In esso Zarathustra contrappone due sistemi di valori partendo sempre dal rapporto cosmico dell’esistenza. Se le vecchie tavole sono tutte dedicate allo spirito di gravità, a quelle categorie – del bene e del male – che aggiogano l’uomo impedendogli veramente di creare nella pura innocenza il proprio mondo; le nuove tavole parlano dell’amore per la dimensione eterna del mondo, e del conseguente anelito creatore del superuomo. È un inno all’elevatezza dell’anima, alla sua capacità di salire le vette più alte, ma anche le più profonde, diventando la misura cosmica di tutto l’ente: «l’anima, infatti, che ha la scala più lunga e può giungere alla maggiore profondità… l’anima dall’estensione più ampia, che dentro di sé può correre ed errare e vagare nelle più vaste lontananze; la più necessaria, che per suo piacere si precipita nella casualità… l’anima che è, e che si immerge nel divenire; l’anima che ha, e che vuole gettarsi nel volere e nel desiderio… che fugge se stessa, raggiungendosi nell’orbita più vasta; l’anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto… la più capace di amare se stessa, in cui tutte le cose hanno il loro corso e ricorso, flusso e riflusso»[116]. L’anima più elevata è quella che anela l’eterno ritorno, il «flusso e riflusso» di tutte le cose, e per questo si «immerge nel divenire» cosmico, e trova nella casualità del caos cosmico il suo principio motore.

In tutti i brani brevemente accennati aleggia come un vento poderoso la dottrina dell’eterno ritorno, senza la quale il superuomo, la morte di dio, e la volontà di potenza non potrebbero essere un vero nuovo inizio rispetto alla metafisica occidentale.

Vi è un secondo brano in cui questa dottrina viene esplicitamente enunciata, Il convalescente. In essa però questa dottrina non viene esposta direttamente da Zarathustra, ma dai suoi animali, l’aquila e il serpente. Egli infatti evoca il suo pensiero abissale: «vieni su, pensiero abissale, dalla mia profondità! Io sono il tuo gallo nel grigiore dell’alba… La mia voce dovrà pure svegliarti col suo canto del gallo!»[117]. Ma questo canto non trova risposta, anzi, immerso in questo pensiero Zarathustra si trova soffocato dalla nausea, e sviene, rimando al suolo per sette giorni. Nietzsche con questo episodio ci vuole mostrare la grande difficoltà di esprimere questo pensiero con parole adeguate, manca forse il linguaggio che possa veramente esprimerlo. Al suo risveglio il mondo gli appare come un giardino, ed infatti gli animali di Zarathustra lo incitano ad uscire dalla sua caverna: «come un giardino, il mondo ti attende. Il vento giuoca con densi aromi, che vogliono raggiungerti; e tutti i ruscelli vorrebbero correrti dietro»[118]. Zarathustra è adesso un convalescente, una nuova trasformazione è avvenuta in lui, e gode con occhio innocente lo schiudersi del mondo. Ma pur avendo raggiunto una nuova consapevolezza dell’eterno ritorno, la sua individualità non si spezza nella pienezza eterna del tutto, ma anzi è proprio nella sua profonda solitudine che può godere dell’eterno ritorno: «ad ogni anima appartiene un mondo diverso; per ogni anima, ogni altra anima è un mondo dietro il mondo»[119]. Ed infatti il modo in cui l’eterno ritorno viene esposto dagli animali di Zarathustra, non può essere il modo con cui l’uomo vive questo pensiero. Gli animali sono parte dell’ente che vive il mutamento senza opporsi; essi sono nel gioco dell’essere, e non suoi antagonisti come l’uomo. In tal senso il modo con cui gli animali espongono l’eterno ritorno è quello vissuto dalla natura: «tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l’anno dell’essere. Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l’essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l’anello dell’essere. In ogni attimo comincia l’essere; attorno ad ogni “qui” ruota la sfera “là”. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità»[120]. Gli animali espongono l’eterno ritorno non dal punto di vista del tempo in sé, ma del suo «sentiero». Nel senso che l’ente finito viene visto nel tempo eterno. Infatti, tutto ciò che va e torna, che muore e poi fiorisce, viene pensato come finito. È cioè certamente immerso nell’infinità del tempo, ma non è per ciò stesso infinito. Se quindi il tempo è infinito, allora tutte le configurazioni dell’ente finito devono essere già esistite, ma non una volta, bensì infinite volte, ed infinite altre volte debbono ritornare. Ora proprio l’infinità del tempo impone che ogni vita, ogni ente, non abbia un’origine, un momento in cui abbia avuto inizio; è per questo che gli animali di Zarathustra dicono: «il centro è dappertutto». Questo comporta che il tempo e l’eternità non sono più separate, come invece fa la metafisica, ponendo un al di qua e un al di là. Qui infatti « attorno ad ogni “qui” ruota la sfera “là”», l’eternità del tempo che si mostra come eterna ripetizione, salda la ripetizione presente con quelle infinite ripetizioni che si sono già avute e con quelle che infinite volte dovranno accadere. Per l’ente di natura l’originalità di un evento è solo apparente, perché ciò che appare come avvenimento singolare, è già apparso infinite volte, ed infinite altre volte dovrà apparire. Essi esprimono il gioco dionisiaco del mondo di infinite creazioni e distruzioni dell’ente.

Eppure Zarathustra ascoltate queste parole, si rivolge ai suoi animali dicendo: «O voi, maliziosi burloni e organetti da cantastorie…come sapete bene ciò che ha dovuto adempirsi in sette giorni»[121]. Vi è quindi un’essenziale differenza tra Zarathustra e i suoi animali. Se questi sono trascinati nella corrente eterna del tempo, privi di una meta; per l’uomo la questione è differente: se pur si trova immerso nel tempo, egli allo stesso tempo è compartecipe del tempo, nel senso che ha mete, progetti, scopi.

Lo scopo dell’uomo per Zarathustra è il super-uomo. Questo significa che l’inquietudine che attanaglia l’uomo nel pensare l’eterno ritorno, sta nel fatto che tutto ciò che egli supera, eternamente dovrà ritornare. Il destino dell’uomo, se visto in questa prospettiva, si presenta come il mito di Sisifo, che eternamente dovrà ripetere la salita con il suo macigno. Noi abbiamo già accennato ad una possibile soluzione del rapporto tra l’esistenza e il pensiero dell’eterno ritorno, parlando della differenza come risultato della volontà di potenza, e che nell’eterno ritorno viene eternamente ripetuto. Eppure nello Zarathustra questo sentimento di inquietudine permane, e permane anche l’ambiguità dei concetti connessi con l’eterno ritorno. Quando noi infatti pensiamo al concetto di ripetizione, partiamo dal presupposto che vi sia un evento originario che poi viene ripetuto. Solo che se il passato è un tempo eterno, l’evento non ha mai avuto origine, e quindi l’idea stessa di ripetizione non ha un “senso”, non vi è cioè un punto “fisso” a partire dal quale la sua ripetizione ha un “senso”. Nell’infinità del tempo l’origine di un evento non ha più significato e con esso anche la sua eterna ripetizione. D’altra parte, per Nietzsche tutto ciò che può accadere è finito, e il grande anno cosmico non è altro che la somma finita di tutti gli avvenimenti. Questo implica che una serie finita più stare in un tempo infinito solo come ripetizione, come la sabbia che nella clessidra può scorrere eternamente soltanto se viene eternamente capovolta. Ed infatti sempre nel Il convalescente zarathustra dice: «le anime sono mortali come i corpi. Ma il nodo di cause, nel quale io sono intrecciato, torna di nuovo, – esso mi creerà di nuovo! Io stesso appartengo alle cause dell’eterno ritorno. Io torno di nuovo, con questo sole, con questa terra, con quest’aquila, con questo serpente – non a una nuova vita o a vita migliore e a una vita simile: – io torno eternamente a questa stessa identica vita, nelle cose più grandi e anche nelle più piccole, affinché io insegni di nuovo l’eterno ritorno di tutte le cose»[122]. Qui Zarathustra è esplicito, ciò che eternamente ritorna non è un’approssimazione di quell’evento finito che egli vive con i suoi animali, ma è proprio questa unicità nella sua interezza finita e che noi consideriamo irripetibile, che ritorna eternamente, che eternamente si ripete. Questo pensiero pensa perciò la perpetuazione di ciò che è transitorio. E questo perché l’eternità non sta dietro o davanti al tempo, ma l’eternità stessa è il tempo, che implica pensare il transitorio come costante, l’Unico come ripetuto[123]. Qui sta la paradossalità della dottrina dell’eterno ritorno, per il quale la ripetizione non deve opporsi all’unicità, ma, anzi, la deve perpetuare.

L’apice di questo pensiero paradossale noi lo troviamo nel brano Del grande anelito, che rappresenta forse la vetta del pensiero poetante di Nietzsche. In questo brano Zarathustra si trova a colloquiare con la propria anima. Il titolo però parla del grande anelito, bisogna, quindi, capire cosa Nietzsche intende per anelito. Il sentimento dell’anelito è certamente sinonimo di desiderio, noi aneliamo qualcosa perché la desideriamo, ma, a sua volta, noi desideriamo qualcosa perché non ce l’abbiamo. È quindi la mancanza a sprigionare il sentimento dell’anelito. Solo che mentre il desiderio può essere anche per le cose che ci sono vicine, l’anelito riguarda invece solo quelle lontane; l’anima che anela è quella che si protende verso la lontananza, abbandonando la ristretta dimensione di ciò che le è vicino, sia in termini temporali sia in termini spaziali. L’anima che anela vive la lontananza e si protende verso di essa. Ma il brano parla del grande anelito, il che significa che l’anima anela la lontananza lasciandola sussistere come tale, e verso di essa si dirige. Ora la grande lontananza non più essere più il dio trascendente che sta al di fuori del mondo diveniente, ma ciò che circonda tutto ciò che diviene nel tempo e nello spazio, quindi ciò che dona ogni vicinanza. Ciò significa che il grande anelito è l’aprirsi dell’uomo verso la vastità cosmica del mondo. Ma, a sua volta, noi sappiamo che l’apertura cosmica è l’evenire dell’eterno ritorno, parla la sua lingua: «anima mia, io ti insegnai a dire “oggi” come se fosse “un giorno” e “un tempo”, e a danzare al di sopra di ogni “qui” e “lì” e “là” la tua danza circolare»[124]. La dimensione cosmica dell’eterno ritorno parte certamente da una prospettiva temporale, in cui però le tre dimensioni del tempo non sono più separate, isolate cioè tra loro. Zarathustra ha insegnato alla propria anima che nell’eterno ritorno il presente (oggi) è anche il futuro (un giorno), come anche il passato (un tempo). Senza però che queste distinzioni cadano, nel senso che nell’eterno ritorno Nietzsche continua a parlare delle tre dimensioni del tempo e delle loro differenze. E questo vale sia per il tempo come anche per lo spazio. Il punto essenziale è però che l’anima che anela l’eterno ritorno, supera la finitezza delle determinazioni spazio-temporali degli eventi, collocandole nella dimensione dell’eternità. L’anima così istruita danza al di sopra dei luoghi finiti, e vive lo spazio nella sua infinità.

Ma un’anima può fare questa danza solo se essa stessa si è aperta alla dimensione cosmica del mondo, il che significa che l’anima deve affrancarsi dalla tradizione metafisica che, appunto, impedisce tale apertura: «Anima mia, io ti redensi da tutte le penombre; io spazzai via da te polvere, ragni e luce crepuscolare»[125]. Il dio trascendente è qui paragonato a una luce crepuscolare, ad una luce tenebrosa che ricopre l’uomo e la terra, impedendo di compiere il loro scopo essenziale. A questa immagine notturna, Zarathustra contrappone la capacità della sua anima di stare nuda davanti al sole: «Anima mia…ti convinsi a star nuda davanti al sole»[126]. L’anima affrancata dal crepuscolo di Dio, può stare nuda davanti al sole, perché affrancandosi dal trascendente, si è affrancata dalla sorgente di ogni colpa, peccato e vergogna. Ed infatti «Con la tempesta chiamata “spirito”, soffiai sui flutti del tuo mare; ne cacciai via tutte le nuvole, e strangolai perfino la strangolatrice chiamata “colpa”»[127].

Lo spirito che scaccia via tutte le nuvole, simboli dei comandamenti della tradizione metafisica, è in primo luogo uno spirito combattivo – lo spirito-leone –, esso affranca l’uomo rendendolo capace poi di creare nell’innocenza del cielo sereno: «Anima mia, io ti conferii il diritto di dire no come la tempesta, e di dire sì come il cielo sereno dice sì: immota come la luce, tu ristai, e vai ora attraverso tempeste di negazione»[128]. L’anima del grande anelito si affranca dal giogo della metafisica, raggiungendo quella piena liberta per creare, questo significa che l’eterno ritorno non immobilizza l’uomo, ma anzi lo rende veramente libero di creare eternamente la sua opera, di perpetuarla in eterno: «io ti restituii la libertà su tutte le cose create e increate: e chi conosce, come tu la conosci, la voluttà di ciò che verrà?»[129].

L’anima che anela l’eterno ritorno deve essere capace di disprezzare, ma non il disprezzo che rode come un tarlo, tipico dell’anima meschina, ma quel disprezzo che allo stesso tempo ama: «anima mia, io ti insegnai il disprezzo che non si annida come un tarlo, il grande disprezzo per amore, che più ama dove più disprezza»[130]. Il grande disprezzo è rivolto all’uomo incatenato ai suoi lacci metafisici, il quale è capace solo di disprezzarsi e di disprezzare tutto ciò che sta attorno a lui; il disprezzo della grande anima è invece solo perché è mosso da un grande amore per l’apertura cosmica del mondo e per tutto l’ente che eternamente ritorna. Ciò che quindi la grande anima disprezza è appunto la chiusura del mondo cosmico, delle sue leggi che piegano l’uomo: «io ti liberai da ogni obbedienza, riverenza e soggezione verso gli altri, io ti detti il nome di “curva della necessità” e di “destino”»[131]. È questo un punto essenziale del pensiero di Nietzsche: se l’affrancamento libera l’uomo dai tentacoli del dio che tutto ha gia previsto, nell’anima affrancata non vi è più differenza tra volontà e destino. Ecco il senso dell’“io sono” del fanciullo. Ciò che l’anima adesso vuole è ciò che deve eternamente ripetersi. La volontà vuole il Necessario, ma non come qualcosa a cui la volontà deve arrendersi come un destino imposto. Ed infatti finché il destino viene inteso come qualcosa di imposto, la volontà non può identificarsi con essa. Questa differenza cade solo se, nell’eterno ritorno, la volontà diventa partecipe del gioco della creazione, solo così la volontà diventa veramente destino. Riecheggia qui il senso del fanciullo eracliteo che giocando fa-mondo. Ed è sempre in questi termini che bisogna cogliere la differenza tra l’eterno ritorno vissuto dagli animali di Zarathustra e quello vissuto dall’uomo.

Nietzsche riesce con l’eterno ritorno a raggiungere una originale identità tra libertà e necessità: qui sta la grandezza del suo pensiero!

 

 

7. Gli uomini superiori.

Se con la terza parte del Così parlò Zarathustra, Nietzsche raggiunge l’apice del suo pensiero, nell’ultima quarta parte si ha un abbassamento della sua profondità di pensiero. Infatti questa parte, aggiunta successivamente alle prime tre, non riesce a riportare il pensiero poetante di Nietzsche alle vette che abbiamo visto in precedenza. In primo luogo in questa sezione dell’opera noi troviamo nuovi elementi stilistici, infatti: se nelle prime tre sezioni la favola aveva un ruolo secondario rispetto alla profondità del pensiero che in essa vibrava, qui invece la favola prende il sopravvento, abbassando la grandezza del pensiero che prima abbiamo colto.

L’intento di questa sezione era quello di mostrare la grandezza di Zarathustra rispetto agli uomini superiori, a coloro che cioè pur riuscendo ad affrancarsi dalla tradizione occidentale, rimangono comunque ad essa legata, se pur come fantasma. Il loro spirito è combattivo ma non riescono ancora a superare il ponte verso il superuomo. Ebbene il rilievo di questa grandezza di Zarathustra non riesce, rimane solo accennato. «La figura di Zarathustra non guadagna nulla di essenziale in profondità e determinatezza esistenziale per mezzo di questa sua superiorità sugli uomini superiori»[132]. E questo perché Nietzsche non riesce a mostrare quale sia l’esistenza di colui che vive consapevolmente la morte di dio, la volontà di potenza e l’eterno ritorno. Bisogna però dire che questo punto è assai complesso da svolgere, perché appunto il modello esistenziale alternativo di cui Zarathustra in persona si fa promotore, dovendo superare d’un colpo l’esistenza finora presente nel mondo, non riesce a trovare una piena e concreta articolazione. Finora Zarathustra è riuscito a raggiungere le vette più alte del suo pensiero anche perché quest’ultimo veniva esposto in modo ambiguo, vibrava certamente ma senza raggiungere una solidità cristallina, come appunto si è visto nell’esposizione per cenni dell’eterno ritorno. Qui invece Nietzsche vuole veramente solidificare tutto il suo pensiero, dare un solido “modello” per le generazioni future, determinato dal confronto tra Zarathustra e gli uomini superiori, ma proprio questo estremo tentativo viene meno.

All’inizio di quest’ultima sezione troviamo Zarathustra invecchiato. Sono infatti passati molti anni, e i capelli di Zarathustra sono ormai bianchi. I suoi anni sono passati in solitudine, e adesso è in attesa di compiere definitivamente la sua opera. Ma questa volta non è lui a discendere in mezzo agli uomini, sono, invece, questi ultimi a salire versi Zarathustra, per chiedere aiuto. Il loro aiuto si mostra come un unico grido di aiuto. Mosso da questo grido, Zarathustra scende dalla propria montagna per trovare chi aveva pronunciato questo grido di soccorso, e lungo la sua strada trova i vari tipi di uomini superiori. Essi sono: il profeta della grande stanchezza, i due re, colui che è cosciente dello spirito, il mago, il vecchio papa, il più brutto degli uomini e l’ombra di Zarathustra. Essi sono considerati da Zarathustra i «resti di Dio». Se infatti con la «morte di dio» è scomparso il suo orizzonte, non è ancora tramontato il cuore che anela dio, il quale si sente adesso smarrito, alienato. Essi rappresentano gli uomini del nichilismo, di coloro cioè che sentono la morte di dio, ma rimangono affascinati da questa assenza. Essi quindi non sono ancora trasformati, come Zarathustra, rimanendo prigionieri nell’alienazione.

Vediamo in breve cosa questi uomini superiori simbolizzano. Il profeta della grande stanchezza è colui che annuncia il nichilismo futuro; il mago è l’artista divenuto attore, che, non vivendo più realmente, non ha più alcuna genuinità, egli è capace solo di rivivere maschere ormai passate; i due re non sono più dei dominatori, essi hanno abbandonato il loro regno perché nauseati dalla falsa potenza che nel loro regno si annida, soffrono quindi della falsità della vita e del travisamento della potenza; colui che è cosciente delle dello spirito preferisce non sapere nulla piuttosto che presumere di sapere, e lascia simbolicamente che la sanguisuga succhi il sangue dal braccio, perché il sapere per lui incide la vita nella carne; il vecchio papa è l’uomo che ha riverenza, ma che nel contempo sa che dio è morto, egli ama ancora il dio morto e si abbandona tristemente in lui; il più brutto degli uomini simbolizza la grande nausea che l’uomo prova nei confronti di se stesso, per tutto ciò che egli reputa storpio e frammentario; lo stesso disprezzo, in forme diverse, è ciò che accomuna il mendicante volontario e l’ombra di Zarathustra. In particolare l’ombra di Zarathustra è lo spirito libero che lascia andare ogni sicurezza, che contesta e attacca tutto, ma allo stesso modo non riesce a proporre un fondamento alternativo, egli rimane incatenato alla pars destruens di Zarathustra.

I caratteri di questi tipi di uomini superiori mostrano le vette che invece Zarathustra ha raggiunto. Se infatti il disprezzo e il malessere di questi uomini non riesce a trovare una soluzione, rimanendo, per