Nikos Kazantzakis
(Νίκος Καζαντζάκης)

A cura di Haris Papoulis


"Veniamo da un abisso oscuro; ritorniamo in un abisso oscuro. Lo spazio luminoso che intercorre tra di loro lo chiamiamo vita. Appena nati inizia il nostro ritorno; contempora-neamente l’inizio e il ritorno; ogni attimo moriamo. Per questo molti hanno protestato: lo Scopo della vita è la morte. "




I PARTE

Nikos Kazantzakis L’ interesse degli studiosi, delle case editrici europee, e in particolare di quelle italiane, intorno agli autori greci, si esaurisce - per la maggior parte - nell’ antichità. Una strana, e certamente errata, separazione voluta da una tradizione prettamente anti-ortodossa (e non anti-greca in generale) vuole che si veda nella Grecia antica il culmine della civiltà occidentale, mentre la cultura della Grecia moderna viene considerata un frutto tipicamente orientale. La Grecia moderna, e in particolare la sua letteratura, paga un debito per la sua “resistenza” linguistica all’ omogeneità delle lingue latine. Ci sono mille fattori che possono farci comprendere a pieno perchè un grande autore come Kazantzakis (1883-1957) rimanga sconosciuto in Italia, paese da lui amato così tanto da portare il suo patrimonio letterario in Grecia. Infatti tradusse nel 1932 la Divina Commedia in soli 45 giorni nella metrica greca della “terza rima”. Inoltre scrisse “Il poverello di Dio” in cui presenta il suo grande ideale San Francesco come il simbolo dell’ uomo. Nel suo ultimo libro autobiografico (“Riferimento al Greco”) effettuò una particolareggiata descrizione del suo amore per Assisi e per l’ Italia. Ultima menzione di testi riguardanti questo paese e da rivolgere ai testi “Viaggiando in Italia”, “Questa sera si recita a soggetto”, traduzione dell’ opera di Pirandello e “Il Principe” di Machiavelli. Ma nulla può giustificare l’ abbandono nell’ oblio delle sue, ormai rare, edizioni italiane, come la sua fedeltà alla sua lingua madre. E parlo di fedeltà perchè avrebbe potuto scrivere agevolmente anche in Inglese, Francese, Tedesco, Italiano o Russo. E, quando i suoi scritti furono vietati dal potere della chiesa ortodossa negli anni ’50 (ma anche prima), lo fece con la circolazione del suo libro - che più tardi ispirerà Martin Scorsese per l’ omonimo film - L’ ultima tentazione del Cristo. Nonostante tutto egli continuò a scrivere in Greco, probabilmente portando con sè questo vecchio consiglio dei suoi -e di tutti gli anziani che vedevano i loro figli emigrare in Europa- “stai attento figlio mio, dovunque andrai, non diventare Franco”. Ed egli è stato EllhnaV fino alla sua morte. EllhnaV vero perchè ha offerto la sua mente, “l’ unico laboratorio che aveva per trasformare le tenebre in luce”, alla sua missione : trovare un punto d’incontro tra il “Franco” Nietzsche e il Buddha, tra il “Franco” S.Francesco e Alessandro Magno. Di questo splendido greco, che ha scritto su tutto e di tutto, che dovrebbe essere onorato dal paese che lui onora con le sue “terze rime”, ora non si ha neanche a disposizione una copia dei suoi innumerevoli libri. Io posso soltanto scrivere questo piccolo, ma spero significativo, saggio per presentare il suo pensiero. Pensiero che, grazie alla sua pregnanza di significato, può divenire un punto di riferimento per tutti noi, anche se impossibilitati nella lettura diretta dei suoi scritti.

II PARTE

Nel 1954 il Pontefice della Chiesa Cattolica mise “L’ultima tentazione” nell’ Index Dei Libri Vietati. In risposta soltanto una frase telegrafata da Kazantza-kis, ripresa dall’ apologetico Tertulliano : “ Ad tuum, Domine, tribunal appello”. Come dice Luciano Canfora, “la storia del libro è soprattutto la storia della sua distruzione”. In questo senso si possono leggere i divieti o i rifiuti di pubblicazione dei suoi scritti, il fatto che per due voti non entrò nell’ Accademia Greca, la perdita del premio Nobel nel ‘56 e il gesto, sintomo di odio o di stupidità, della chiesa ortodossa, che non ha permesso l’ esposizione della sua salma ad Atene. Tutto ciò va a edificare il mito di un intellettuale che ha dedicato la sua intera vita allo scrivere. Ma in fondo non è il rifiuto che lo rende grande ma le sue stesse opere. Ha scritto, con ardore e costanza, saggi, opere teatrali, traduzioni, racconti storici e qualsiasi altro genere letterario. Alcuni anni fà ho letto in un articolo di giornale che un gruppo di filologi, volendo pubblicare le sue opere complete, si sono resi conto che il suo corpus letterario oltrepassa i cento volumi (!). I suoi libri sono tradotti in quarantacinque lingue. Intorno alle sue opere si è svolta anche una intensa produzione di film. “L’ ultima tentazione del Cristo” di M.Scorsese, “Zorba il Greco”, con l’ interpretazione di Anthony Quinn, e “Il Cristo di nuovo in Croce” (Celui qui doit mourir-Colui che deve morire), realizzato per il festival di Cannes in lingua Francese. Ma quale è il significato più profondo della sua opera? Ecco cosa scrive nel suo diario : “Tutta la mia opera Devise e questo scopo ha: “Come l’ uom s’ etterna” (Inferno, Dante, XV,85)”. Tante volte mi è capitato di essermi stupito di fronte alle opere grandiose dei grandi spiriti umani. Nessuna di queste è però paragonabile alla meraviglia che ho provato prendendo in mano la sua “Odissea” e leggendo mille volte la sua “Ascetica” . E da discutere chi sia più geniale tra lui e Omero. Questo perchè la fama e il lavoro di Omero sono giunti fino a noi con la proteziene dell’autorità della tradizione. Guardando le idee di Eraclito, i palazzi di Knosos, l’Acropoli o l’oracolo di Delfi non mi sembra affatto strano che un uomo abbia cantato queste opere uniche. Ma lo spirito di un uomo che nel ’38 scrive 33.333 rime per celebrare un Ulisse che, annoiato dalla quiete familiare e dalla patria, parte di nuovo, mi fa dubitare delle ragioni della fama dell’ autore antico. Riguardo all’ “Ascetica” posso affermare che è l’espressione lampante dell’acume di Kazantzakis. E’ costituita da sole 100 pagine ma rachiude la sapienza di 100 libri. E’ veramente una guida preziosa all’ esercizio filosofico. Vi è riassunto tutto il percorso dello spirito umano, unificando il materialismo estremo all’idealismo romantico, favorendo il progresso dell’uomo, la vita come lotta contro la finitezza che non può accettare etichette nè limitazioni, tipiche di ogni corrente filosofico. E’ un manuale di Guerra in senso Eracliteo, e un manuale di Pace in senso Bubbhista. Mio proposito è di presentare questo libro tentando di avvicinarmi alle intenzioni che muovevano lo stesso Kazantzakis, di far sì che, grazie alla letteratura, i popoli si avvicinino e testi come questo divengano armi contro l’ignoranza, l’indifferenza, l’obbedienza e ogni forma di malattia culturale.

III PARTE

“Veniamo da un abisso oscuro; ritorniamo in un abisso oscuro. Lo spazio luminoso che intercorre tra di loro lo chiamiamo vita. Appena nati inizia il nostro ritorno; contempora-neamente l’inizio e il ritorno; ogni attimo moriamo. Per questo molti hanno protestato: lo Scopo della vita è la morte.” Così Kazantzakis apre la sua “Ascetica” (Esercizio Mistico), facendoci immediatamente capire il suo modo di filosofare: astratto e contemporaneamente concreto, come concreta è la vita stessa nella sua astrattezza. E’ questo il suo operato: mettere insieme gli opposti; vincere le diversità e arrivare al punto esatto in cui inizio e fine si uniscono, in cui il ciclo si compie, cambiando e rimanendo sempre uguale a se stesso. “Ma appena nati inizia lo sforzo di creare, di comporre, di plasmare la materia vita; ogni attimo nasciamo. Per questo molti hanno protestato: lo Scopo della nostra effimera vita è l’immortalità.” Questo è lo schema antitetico, tipico dell’autore, capace di racchiudere in sé entrambe le tendenze del nostro pensiero, o, se vogliamo, entrambe le manifestazioni del Divenire. Il suo parlare prima di morte e poi di immortalità non ha un significato particolare. Non vuole lasciare la parola immortalità a risuonare come fosse un’eco. Potrebbe valere in ogni caso anche il contrario. Questo ragionamento non è privo di importanza. La duplicità delle idee non è uno schema letterario per lasciar “vincitrice” l’Immortalità; infatti l’equivalenza dei due termini nel divenire si manifesta subito dopo, con l’inversione conseguente-mente necessaria delle posizioni delle due parole: “Negli esseri viventi contingenti queste due tendenze configgono: A) la salita verso la composizione, la vita , l’immortalità; B) la discesa verso il disfacimento, la materia, la morte. ” Tutto torna al suo posto, il ciclo sembra conclusosi. Proseguendo la lettura, Kazantzakis si domanda quale sia la nostra posizione, con la morte o con l’immortalità? Definisce tutte e due le correnti “Sante”. Quindi termina il suo prologo in questa maniera: “E’ nostro dovere concepire una visione che contenga armonizzati questi due impulsi privi di ordine e incessanti. E, seguendo tale visione, disciplinare la nostra visione e Prassi.” “E combattiamo tutti - piante, animali, uomini e idee - in questo breve frangente, che è la nostra vita personale, per ordinare il Caos dentro di noi, per quietare l’abisso, per rielaborare la totale oscurità che c’è nei nostri corpi, rendendola luce.” In tutta la sua opera è centrale il tema della salvezza. E a nessuno di noi, figli di una tradizione filosofica nichilista o esistenzialista, piacciono questi concetti. Tuttavia, alcune volte, la verità è nascosta tra le righe, dietro le parole, dietro le tematiche, nella nostra mente, che non è capace di esprimere (cioè di oggettivare) il suo soggettivismo innato. Ecco quindi cosa afferma Kazantzakis a proposito della salvezza: “non che il Dio ci salverà, ma: Noi salveremo Dio, combattendo, creando, trasformando la materia in spirito ”. Quello che risulta dal pensiero del filosofo, che ad una prima occhiata può apparire mistico e spirituale, non è altro che una esatta identificazione con il mio “principio” di materialista: “Ci dobbiamo salvare dalla salvezza e dai salvatori ”. Infatti, tutta la sua opera esprime un significato Umano, dove uomo è colui che compie un salto, oltrepassa i propri limiti. Ciò vuol dire che la trascendenza di Kazantzakis, ovunque si trovi, è una trascendenza esistenziale proprio dell’uomo che, per comprendere il mondo e se stesso, deve chiamarsi Dio. Un uomo al quale sia data la partecipazione alla possibilità eterna, e così si spieghino i modi umani, il dolore, l’amore e la negazione. Nel suo libro “Il poverello di Dio”, da me chiamato “Manuale di un cristianesimo cristiano”, c’è un continuo dialogare fra l’uomo accecato e l’uomo nietzschiano, che rappresenta il Cristo vivente contro i “cristiani”. Questo accostamento è ritrancciabile nello schema dello stesso Nietzsche, secondo il quale: “Cosa nega Cristo? Tutto ciò che ora porta il nome di cristiano”. Ma vediamo come lo descrive lo stesso Kazantzakis: [parla il Despote a Francesco]

“- Fai il bravo Francesco, sei andato oltre…
- E’ proprio lì che si trova Dio, mio Despote; risponde Francesco.
Il Despote dice, muovendo la testa:
- E la virtù richiede limiti; altrimenti rischia di diventare impudenza.
- Nei limiti si trova l’uomo; oltre i limiti Dio. Verso ciò comincio ad andare, mio Despote, afferma Francesco, camminando verso la porta - aveva fretta.”

E cosa importa se, dopo aver accettato un tale modo di pensare (perché queste scene denotano una certa mentalità, o meglio, un certo stile di vita), ti chiameranno idealista, o se, non chiamando questo arrivo Dio, ma Uomo, ti chiameranno ateo, ecc., ecc.? Non importa nulla! Ma ancora voglio scrivere le bellissime parole fatte pronunciare ancora a Francesco da Kazantzakis: [ parla frate Elias a Francesco ]

- “Fratello Francesco, perdonami e, con tutto rispetto, fammi parlare: andare seguendo il tempo in cui vivi, questo è il dovere dell’uomo vivo.
Andare contro il tempo in cui vivi, replica Francesco, questo è il dovere dell’uomo libero!”

E io, uomo che vive quarantacinque anni dopo la morte di Kazantzakis, uomo pienamente cosciente delle estreme conseguenze del proprio materialismo, non temo di aprire la mia visione e di illuminarla, accogliendo il suo particolare misticismo. Misticismo che non ha niente a che fare con quello disumano, proprio delle religioni semitiche, né con quello ipocrita, tipico della cultura occidentale, che ha bisogno della scienza per edificare qualcosa di obiettivo. L’abitudine propria degli spiriti deboli è quella di mettere etichette e categorizzare tutto ciò che è pensiero, per chiudersi nel proprio campo e non permettere alcuna espansione. Perché l’espansione delle idee, provocata da qualsiasi intellettuale, rappresenta una minaccia all’ordine degli Stati e delle società, che devono rimanere addormentate, ipnotizzate dall’abbondanza, dalla conformità e dalle informazioni. Quest’abitudine, quindi, tipica degli ignoranti formati da “profeti” come Cohelo, etichetta il filosofo come un idealista, che non ha posto nel pensiero… moderno, o come materialista, che non può insegnare nulla di nuovo sullo spirito umano. Ma è da prendere in considerazione, che molte volte, un intellettuale abbraccia il materialismo solo per contrapporsi all’idealismo. Questo è capitato a molti filosofi moderni e contemporanei. Seguendo il pensiero di Kazantzakis, possiamo giungere a un raggruppamento di idee apparentemente contrapposte: “Perché il nostro Dio non è una riflessione astratta, né una necessità logica, un edificio alto e armonioso costituito da sillogismi e fantasie.”Non è una purissima, neutra, ermafrodita, inodore, distillata invenzione della nostra mente. E’ uomo e donna, mortale e immortale, sterco e spirito. Fa nascere, feconda e uccide, è l’amore unito alla morte, e che da di nuovo la vita e nuovamente uccide, danzando dolcemente al di là dei confini della logica, poiché in essa non sono contenute le antinomie. “Il mio Dio non è onnipotente, lotta, rischia ogni momento, freme, vacilla su ogni ente, grida. Incessantemente è sconfitto e di nuovo si erge, sporco di sangue e di fango, e ricomincia la lotta.” Inoltre afferma: “Sii dissidente, inquieto, insoddisfatto… Quando un’abitudine degenera in conformismo, distruggila!” Questo è il grande paradigma del cammino dell’uomo. Se avete letto Nietzsche, vi avrete trovato la figura di un Superuomo pronto, già creato, cui non si può aggiungere nulla, pensato in modo tale da far sorgere la domanda se ci sia una differenza fra lui e un ideale teologico. Invece in Kazantzakis è palesato il cammino dell’uomo in lotta per salire, per diventare Zaratustra, che “godette del suo spirito e della sua solitudine, né per dieci anni se ne stancò” già dalla prima pagina dell’opera. Ma per l’uomo reale non è così semplice. A mio parere è questa la grande, ma anche sottile, differenza tra il Nietzsche “tedesco” e quello “greco”. Cioè che mentre l’uno chiama Dio l’uomo, l’altro chiama Dio il percorso verso l’uomo.

IV PARTE

“L’essenza del nostro Dio è la LOTTA. In questa lotta si manifestano e operano eternamente il dolore, la gioia e la speranza. Il salire e la guerra controcorrente ge-nerano in noi il dolore. Ma il Dolore non è il monarca asso-luto. Ogni vittoria, ogni equili-brio è solamente un momento della scalata, che riempie con gioia ogni ente vivente, che respira, cresce, si innamora e genera. Ma all’interno della gioia e del dolore c’è la speranza eterna di sfuggire alla sofferenza, di moltiplicare la felicità. E’ così che ricomincia la salita, il dolore, rinasce la gioia e ricompare di nuovo la speranza. Il Ciclo non ha mai termine. ”

La storia dello spirito umano non è la storia della filosofia, ma quella delle interpretazioni filosofiche. L’interpretazione è tanto implicita nella nostra mente, quanto lo è il nostro io, la nostra soggettività. Una volta superata l’ angoscia primitiva esistenziale, non ci chiediamo se il Dio esiste; il perché non c’ interessa. Non è la migliore cosa possibile neanche donare la nostra mente alle illusioni, come ha fatto Pascal, e negare all’umanità la possibilità di avanzare. Non importano le figure storiche, ma soltanto la chiarezza con cui interpretiamo le loro parole. E questa chiarezza ha a che fare con il ‘come’, vale a dire con la prassi. Questo nostro modo di agire, in ultima analisi, ci farà comprendere propriamente chi siamo. Anche se all’imperativo “conosci te stesso” noi rispondessimo che siamo figli di Dio o gli eletti dello spirito, comunque la nostra esistenza rimarrebbe senza scopo, senza essenza. Prescindendo da una risposta negativa, o positiva riguardo l’esistenza di Dio, nel momento stesso in cui mi interrogo sulla possibilità della sua esistenza, mi interrogo sulla possibilità di trascendere me stesso e di accettare l’apparenza della cosa in sé. Il film di Pasolini “120 giorni a Sodomia”, se con la capacità interpretativa non lo si collega alla vita politica, è solamente un film perverso. Quindi agiamo seguendo le rappresentazioni dettate dall’interpretazione, che non può esserci fornita da nulla di esterno a noi. Ne siamo i soli responsabili, e, di conseguenza, lo siamo anche delle nostre azioni. E poiché il nostro agire caratterizza il nostro essere, è evidente che dalle nostre interpretazioni si determina la nostra essenza. Ecco perché il Santo, il vero Santo guarda con bontà anche i dannati. Kazantzakis lo spiega nel “Poverello di Dio”, attraverso le parole di Francesco, che si rivolge a Chiara: “Cosa vuol dire Paradiso? La felicità perfetta. E come potresti essere pienamente felice quando, sporgendoti dal Paradiso, vedi i tuoi fratelli e le tue sorelle che si dannano nell’Ade? Com’è possibile che ci sia il Paradiso, se c’è anche l’Inferno?”. Se una persona sceglie di essere cattiva, interpreta tutto secondo la categoria del male. Se uno sceglie l’esclusione, tutto ciò che interpreta lo porta a questa. Per questo non vi è distinzione alcuna tra intenzione moralmente buona e azione accidentalmente cattiva. Anche se la conseguenza di una nostra intenzione buona fosse negativa, porterebbe sempre con sé la bontà del soggetto che agisce. Se Dio non esistesse, l’avremmo capito tutti una volta per tutte. Se Dio esistesse, l’avrebbe fatto sapere oggettivamente una volta per tutte. Cosa ci rimane escludendo la logica (che, volenti o nolenti, è propriamente umana, e quindi non possiamo evitarla)? Ci rimane un Nulla da riempire con la nostra responsabilità. Ed ecco il primo dovere del filosofo: mettere in discussione tutti i valori e, se nessuno rappresenta i bisogni reali dell’uomo, crearne dei nuovi. Forse è proprio questo il punto di vista di Kazantzakis che, davanti al potere ecclesiastico e alla degenerazione dell’interpretazione delle parole di Cristo da parte della folla accomodata, fa esplodere, grazie alla sua penna, il grido di Dio:

“Io, l’Urlo, sono il tuo Signore, il tuo Dio! Non sono un rifugio. Non sono una Casa, neanche la speranza. Non sono Padre, né Figlio, né Spirito. Sono il tuo Generale! Tu non sei uno schiavo, né un giocattolo nelle mie mani. Non sei mio amico, non sei mio figlio. Sei il mio compagno nella battaglia. Difendere coraggiosamente gli stretti che ti ho affidato; non tradirli! Hai il dovere e le possibilità per diventare un eroe nel tuo ambito. Amare il pericolo. Qual è la cosa più difficile? Questa pretendo! Qual è la strada da seguire? La salita più ardua. Questa strada ho intrapreso anch’io; seguimi! Impara ad obbedire. Solo quello che obbedisce ad un ritmo superiore a se stesso è libero. Impara a comandare. Solo colui che sa comandare è il mio rappresentante su questa terra. Amare la responsabilità. Dire: io, soltanto io ho il dovere di salvare il mondo. Se non si salverà sarà soltanto colpa mia. ”

Queste frasi aiutano la descrizione dell’ interpretazione della nozione metafisica di Kazantzakis, che sentiamo più o meno tutti, ma che alcuni rifiutano, altri l’accettano così com’è, altri ancora la trovano nelle Sacre Scritture. Necessariamente, però, sono riduttive nel presentare un filosofo complesso, geniale e così grande nel comunicare con i dotti e con il popolo, usando sempre lo stesso linguaggio. Ho comunque cercato di trovare qual è il suo messaggio ultimo, la sua lezione fondamentale al posto vostro, di voi italiani, che siete impossibilitati nel leggere direttamente le sue opere. Credo che si possa rintracciare in due momenti fondamentali della vita di ogni uomo, la sua nascita e la sua morte. In particolare in Kazantzakis questi due istanti sembrano armonizzati con il ritmo di tutta la sua vita: quando nacque, a Creta, la sua isola si trovava in una condizione di schiavitù, sotto l’occupazione dell’Impero Ottomano. Quando morì lo seppellirono su una montagna, sempre a Creta, incidendo un’epigrafe, sotto sua richiesta, con tre frasi di contenuto politico, ontologico, teologico e filosofico, che chiudono in maniera eroica il ciclo infinitamente continuo da lui sempre sostenuto:


NON TEMO NIENTE
NON SPERO NIENTE
SONO LIBERO


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