Libertà: complotto o conquista umana?

 

di ANDREA PESCE

 

 

Molte sono le conquiste che hanno caratterizzato la storia dell'umanità. Nessuna ha l'eguale in quella della libertà. Sia essa politica, religiosa, economica o morale, la capacità di determinarsi autonomamente è una peculiarità irrinunciabile per l'essere umano. E' altresì indispensabile potersi interrogare su un fatto: la nostra attuale condizione è ascrivibile ad un modello esistenziale di assoluta libertà?

Ora, l'anno 2008 e probabilmente tutto il 2009, resteranno nella storia a causa della crisi finanziaria procurata dalle banche americane che, essendo giunte ad un punto di scarsa liquidità, hanno ridotto i crediti alle industrie, costringendo queste a drastiche riduzione nella produzione. Risultato: i dipendendenti delle grandi aziende godranno di ammortizzatori sociali, gli altri, figli di nessuno, vedono concretizzarsi sempre più lo spettro del licenziamento. Questa drammatica situazione finanziaria ha finito con l'espandersi all'intero pianeta, e i governi dei singoli stati, ora sono impegnati (per il momento solo sul piano linguistico) a porre un freno alla catastrofe.

Tuttavia, questo inquietante scenario, ha messo in luce in modo netto e preciso come funziona l'economia, e soprattutto il mercato del lavoro. Le aziende in cui tutti noi lavoriamo sono dipendenti dalle banche e, senza l'erogazione di denaro a credito, l'intero mondo del lavoro entra in crisi. Conclusione lapalissiana che nondimeno genera la domanda su come si leghi il concetto di libertà individuale, a quello di un normale prestito bancario con restituzione rateizzabile. La questione è molto semplice ed ha un obbiettivo preciso: il controllo dell'individuo. Se la mia ditta deve indebitarsi per far sì che io possa lavorare e sopravvivere, se io stesso devo indebitarmi per avere una casa in cui poter vivere decorosamente, allora la mia condizione sarà sempre quella della sottomissione nei confronti di che detiene il potere economico; pena la mia esclusione dal mondo del lavoro e la caduta nell'indigenza sia del singolo e sia dei componenti la sua famiglia.

Forse non del tutto volontariamente il sistema capitalistico, a forza di autocorrezioni, è giunto alla quasi totale perfezione. Come già acutamente previsto da Marx, l'occupazione è, ancor più che in passato, sottoposta al ricatto del capitale. Tramite la sinergia tra politica, grandi industrie e banche, in tutto il mondo i lavoratori, per poter vivere, devono chinarsi di fronte al denaro che i loro sfruttatori gli concedono.

Milioni di famiglie di "disgraziati" sono col cappio al collo dei mutui bancari. Lavoratori con salario poco al di sopra dei mille euro mensili, si indebitano per pagare la casa, con rate che sfiorano l'intera cifra della loro paga. L'unica reazione è il silenzio. Non una parola di sdegno può essere pronunciata dai "martiri del mutuo"; il solo pensiero di perdere quella misera quota mensile data dal lavoro terrorizza le famiglie, costringendole a passive e spesso folli condizioni di vita. Ore e ore trascorse all'interno delle fabbriche o degli uffici per accumulare straordinari in busta paga, anzichè dedicarsi ad attività di altro genere. Energie fisiche e mentali regalate alle banche che nessuno restituirà più... mentre i figli trascurati si dedicano a seguire le avventura di Britney Spears o, nei casi peggiori, i ragazzi si inabissano in rudimentali tentativi di comunicazione come è ben rappresentato dal bullismo nelle scuole: così almeno qualcuno si occuperà di loro.

La durata di un prestito bancario per acquistare una casa può arrivare anche all'incredibile durata di trent'anni e oltre. In pratica, chi accende un mutuo, è vincolato alla banca che glielo concede per l'intero arco della sua vita lavorativa. Quale miglior modo per controllare, o meglio, per imbrigliare la potenziale ed innata esigenza di libertà individuale o collettiva? Anche eventuali richieste per il miglioramento delle condizioni di lavoro (orari, salari, pause ecc...), devono essere presentate con la massima cautela e circospezione, in quanto la possibilità di essere licenziati viene immediatamente palesata dai datori di lavoro.

Nei primi anni sessanta del novecento, chi entrava nel mondo del lavoro, in particolare in quello della grande industria, proveniva da una condizione economico-sociale prevalentemente di tipo agricolo. I nostri nonni erano abituati a periodi di "magra", stagioni in cui i raccolti erano scarsi, con conseguenti limitazioni alimentari, determinate sia dalle condizioni climatiche sfavorevoli e sia da eventi bellici come le due guerre mondiali che hanno segnato il secolo scorso. Le ultime generazioni, invece, non sono assolutamente preparate a fronteggiare simili sventure. Soltanto una piccola parte della popolazione italiana ha provato che cosa sia la fame protratta per settimane o mesi. Nessuno si sognerebbe mai di dormire all'addiaccio o di rinunciare a fare la spesa al supermercato comodamente seduto sulla propria fuoristrada comprata a rate. Oggi chi ha un'occupazione, tutto sommato, proviene da una condizione di relativo benessere economico. Le famiglie di origine hanno assicurato ai propri figli un'esistenza decorosa, anche grazie all'assistenza sanitaria pubblica e il diritto all'istruzione, condizioni sicuramente apprezzabili per uno stato sociale degno di questa definizione.

In conclusione è doveroso ricordare che in Italia il 10% della popolazione possiede il 50% dell'intera ricchezza nazionale: il restante 90% vive sotto la condizione che Marx definì di "schiavitù salariata". Per tutti costoro, il solo lontanissimo pensiero di abbandonare l'obbligo del lavoro, è non solo utopistico e privo di senso, ma a tal punto così terrorizzante, da rendere le ore di segregazione in fabbrica o in ufficio come l'unico scopo per cui valga la pena di esistere.

     



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