PIERRE NICOLE

 

A cura di Roberta Musolesi

 

 

"Quasi in ogni campo vi sono strade diverse, le une vere e le altre false, ed è compito della ragione fare una scelta".


 

 

La vita

 

Pierre Nicole nasce a Chartres il 13 ottobre del 1625, da Jean, magistrato della camera episcopale e discendente di una insigne famiglia di giuristi, e da Louise Constant, che morirà molto giovane, dopo aver dato alla luce Nicole, Marie, Claude, Charlotte e Louise.

Fra il 1641 e il 1644 compie gli studi di filosofia a Parigi nel collegio di Harcourt, presumibilmente presso la scuola di Pierre Padet e di Jacques du Chevreuil, professori non digiuni di filosofia classica e scolastica, ma insieme dotati di una solida formazione umanistica. In questi anni Pierre Nicole entra in contatto con alcuni esponenti di Port-Royal, fra i quali Guillebert, che gli fa conoscere Jacques de Sainte-Beauve, professore di teologia alla Sorbona. Presso questa università e con questo professore Pierre Nicole studierà teologia dal 1646 al 1649, in un momento in cui cominciano a definirsi posizioni diversificate in relazione alle nuove istanze polemiche emerse dai commenti all’Augustinus di Giansenio. Nel 1649 diventa baccelliere in teologia, ma rinuncia a proseguire gli studi e la carriera ecclesiastica e rimarrà per tutta la vita un chierico, senza mai accedere al sacerdozio. Entra a Port-Royal, dove si trovava una sua zia, Marie-des-Anges Suireau.

Nel 1653 Pierre Nicole insegna alle Granges e dal suo insegnamento, soprattutto da quello orale, nasceranno, con la collaborazione di Arnauld, la Grammatica latina e la Grammatica greca, ma soprattutto la famosa Logique de Port-Royal; importante da ricordare è anche l’Epigrammatum delectus, del 1659, opera molto importante come documento delle posizioni etiche ed estetiche di Port-Royal.

Dal 1656 al 1658 Pierre Nicole, insieme ad Arnauld, partecipa attivamente alle lotte politico-religiose dell’epoca, in un momento in cui il port-royalismo si trasforma in movimento che prende vita dai dibattiti legati alle problematiche messe in campo dall’Augustinus di Giansenio; Pierre Nicole, a causa delle posizioni polemiche e di condanna spesso assunte, è costretto a difendersi e a tutelarsi, celandosi dietro almeno otto pseudonimi. Pubblica nel 1656, in seguito alle prime condanne di Arnauld, una risposta a Nicolaï, un celebre tomista che aveva polemizzato appunto con Arnauld stesso, e fornisce a Pascal la documentazione necessaria alla stesura delle sue Lettere provinciali, che tradurrà in latino con lo pseudonimo di Guillame Wendrock. Nel 1659 pubblica in latino La vera bellezza e il suo fantasma (Dissertatio de vera pulchritudine et adombrata), il primo testo che annuncia, all’interno del classicismo, la necessità di un rinnovamento dell’estetica secentesca. Nel 1663 collabora con Arnauld alla stesura del Justes plaintes des Théologiens (Le giuste rimostranze dei teologi) e nel 1664 pubblica un Traité del la foi humaine (Trattato sulla fede umana) contro il nuovo arcivescovo di Parigi, Arduine de Peréfixe, unitamente ad una Apologie des religieuses (Apologia delle religiose), tutte opere che si inquadrano nell’ambito della battaglia giansenista.

Fra il 1664 e il 1665 Pierre Nicole pubblica dieci Lettere immaginarie (Lettre sur l’hérésie immaginaire) e fra il 1665 e il 1666 pubblica le Visionarie, otto nuove lettere contro Desmarets de Saint-Sorlin, colpevole di aver attaccato, in una sua commedia, le religiose di Port-Royal. Nel 1667 pubblica il Traité de la comédie, in cui emergono posizioni molto rigoriste sul teatro.

Fra il 1668 e il 1686, dopo la Pace della Chiesa dell’ottobre del 1668, Pierre Nicole si dedica a qualche viaggio e insieme ad Arnauld va in pellegrinaggio a Clairvaux per rendere omaggio a San Bernardo; si concentra inoltre su lavori come la Perpetuité de la foi de l’Eglise sur l’Eucaristie, pubblicata in tre volumi nel 1669, e nel 1670 appare il Trattato sull’educazione di un principe, primo modello di quello che sarebbe poi risultata la struttura dei Saggi di morale. Dal 1671 al 1678 vengono infatti pubblicati quattro volumi dei Saggi, opera che avrebbe assicurato a Nicole una fama costante per oltre un secolo.

Nel 1677 Pierre Nicole scrive una lettera a Innocenzo X contro i casisti: è l’inizio di una nuova fase di polemiche che lo costringerà a fuggire in Belgio, fase in cui maturerà anche il distacco da Arnauld. Pierre Nicole infatti scriverà, nel 1679, una lettera all’arcivescovo di Parigi, in cui manifesterà la volontà di abbandonare la lotta e di sottomettersi; questi temi saranno oggetto di una Apologie, pubblicata postuma nel 1734. Nel 1679 pubblica il Traitè de l’oraison; nel 1680 ritornerà in incognito a Chartres e nel 1683 a Parigi, dopo aver ricevuto l’autorizzazione dall’Arcivescovo. Fra il 1684 e il 1695 Pierre Nicole prosegue la sua intensa attività pubblicistica e partecipa con molto vigore alle questioni religiose e teologiche, anche se in seno al movimento giansenista si comincia ad avvertire una sua presa di distanza rispetto a questioni fondamentali, come quelle relative alla Grazia; esprime le sue posizioni su questo tema in un Traité de la Grâce générale che sarà pubblicato postumo nel 1715. Pubblica, contro i calvinisti, opere come Le prétendus réformés convaincus de schisme, ma non manca di continuare la sua opera di esposizione della dottrina cristiana in opere come Réflexions morales sur le Evangile; nel 1691 presenta una compiuta riflessione sul problema della Grazia nel Systéme de la grâce générale ed affronta, in opere come il Traité de la priore del 1694 e la Réfutation des quiétistes del 1695, altre questioni legate ai dibattiti contemporanei sulla filosofia e la teologia della preghiera e sulle posizioni dei quietisti.

Pierre Nicole muore a Parigi il 16 novembre del 1695.

 

 


Le opere

 

La Logica di Port-Royal

 

Nel 1662 fu pubblicata la Logica o arte di pensare di A. Arnauld e P. Nicole, che ebbe ben sei edizioni quando ancora gli autori erano in vita; quest’opera rimase a lungo il manuale più fedelmente seguito e studiato nelle università francesi. Essa è introdotta da due Discorsi preliminari che presentano rispettivamente l’intento di questa nuova logica e la risposta alle principali obiezioni mosse nei suoi confronti.

L’opera è suddivisa in quattro parti che prendono in esame le quattro principali operazioni della mente, il concepire, il giudicare, il ragionare e l’ordinare, in cui gli autori si occupano del problema del metodo.

L’importanza di questa logica risiede nel suo carattere innovativo e chiaramente antiscolastico, atteggiamento comune a gran parte della cultura scientifica e filosofica dell’epoca. Gli autori infatti, pur riservando ancora una certa attenzione alla logica sillogistica e scolastica, intendono la logica non più come una tecnica formale di costruzione dei ragionamenti deduttivi, ma come arte della scoperta e dell’invenzione, secondo le indicazioni metodologiche di Bacone e Cartesio. Gli autori mirano quindi a stabilire regole metodologiche utili ai fini della scoperta della verità e dell’estensione della nostra conoscenza, obiettivo comune con la scienza dell’età moderna.

Sin dal Primo discorso di questa opera, in cui si delinea il disegno generale della nuova logica, gli autori precisano che non vi è nulla di più stimabile del buon senso, cioè della ragione, e del suo uso corretto nel discernere il vero dal falso, tema, come è noto, comune al celebre Discorso sul metodo (1636) di Cartesio. Dal loro punto di vista, la ragione, se usata in modo corretto, ci serve in tutte le circostanze della vita, dato che distinguere la verità dall’errore è cosa molto complessa e difficile sia nelle scienze sia nella maggior parte dei problemi di cui parlano gli uomini e degli affari che essi conducono. Secondo Arnauld e Nicole, poiché quasi in ogni campo si possono intraprendere strade diverse, alcune vere e alcune false, è compito della ragione compiere una scelta e scelgono bene coloro che usano in modo corretto la loro intelligenza e operano in modo sbagliato coloro che possiedono un’intelligenza incapace di discernimento. Secondo gli autori questa è la prima e più importante differenza che è possibile stabilire tra le qualità intellettuali degli uomini.

Il messaggio che inviano quindi Arnauld e Nicole è che deve essere rivolto il maggior impegno teorico possibile nell’educare il pensiero, in modo da metterlo in grado di giudicare rettamente. Secondo gli autori, noi normalmente ci serviamo della ragione come di uno strumento per affrontare lo studio delle scienze, mentre dovremmo servirci delle scienze come di uno strumento per perfezionare la ragione: le rettitudine dell’intelligenza è infatti infinitamente più importante di tutte le conoscenze speculative che possiamo acquistare grazie alle scienze. L’arte di pensare, infatti, a loro avviso, non è una capacità che si possiede in modo spontaneo e naturale, ma che si deve comunque apprendere, mediante studio e metodo. Secondo gli autori, ovunque si incontrano persone che non mostrano alcuna capacità di discernimento della verità, che affrontano ogni cosa dal punto di vista sbagliato, che si appagano delle ragioni più errate e vogliono convincerne gli altri, che si lasciano prendere dalle minime apparenze, che cadono sempre negli eccessi e negli estremi, che non sanno tenersi saldi nelle verità, che conoscono perché sono legati ad esse più dal caso che da una solida luce dell’evidenza o che si ostinano su ciò che ritengono vero al punto da non ascoltare nulla di quanto potrebbe disingannarli; da queste parole è facile cogliere una critica serrata non solo nei confronti del modo comune di ragionare, ma anche contro le acrobazie formali della sillogistica e di quanti non si confrontano mai realmente con la verità, preferendo arroccarsi dietro le proprie opinioni come se fossero certezze assolute.

La maggior parte degli errori quindi dipendono, secondo gli autori, non tanto dalle limitate capacità degli uomini, quanto piuttosto dall’uso del metodo sbagliato o dall’assenza totale di qualsiasi metodo nell’utilizzo delle facoltà razionali. Sebbene Pierre Nicole e Arnauld ritengano, differentemente da quanto pensava, ad esempio, Cartesio, che la ragione non sia distribuita in ugual misura in tutti gli uomini e che vi sia in natura chi è più dotato e chi lo è di meno, essi tuttavia ammettono anche che una gran parte dei falsi giudizi degli uomini non dipende dalle doti naturali, ma viene invece determinata da un’eccessiva precipitazione dello spirito e dalla mancanza di attenzione che fanno sì che essi giudichino in maniera avventata, confusa ed oscura.

Il più delle volte poi, secondo gli autori, gli uomini preferiscono rimanere attaccati alle proprie credenze anzichè alla verità e la memoria risulta essere ingombrata da una grande quantità di informazioni false, oscure e mal comprese. Procedendo da tali principi, pertanto, le conclusioni non possono essere che errate, difetto questo che risulta essere accresciuto, dal punto di vista degli autori, dalla vanità e dalla presunzione, visto che il dubbio e l’osservazione diretta dei fatti vengono considerati, dai cosiddetti uomini di cultura, comportamenti vergognosi e indegni. Cadono in errore inoltre anche coloro che assumono un atteggiamento scettico e che preferiscono pensare che non vi sia alcuna verità, che di tutto si possa dubitare e che sia impossibile distinguere il vero dal falso. Questi due opposti atteggiamenti, vanità e presunzione da un lato e atteggiamento scettico dall’altro, rappresentano dal punto di vista degli autori di Port-Royal due opposte forme di sbandamento intellettuale che sorgono dalla medesima fonte, la mancanza di regole su cui basare il metodo della ricerca della verità.

La mente umana in realtà ha un profondo bisogno di regole utili a rendere più sicura e più facile la conoscenza, regole che non sono impossibili da raggiungere e da praticare, perchè gli uomini a volte errano nell’elaborare i loro giudizi, ma spesso sono in grado di riconoscere i loro errori e di correggersi. La logica, quindi, secondo gli autori, deve servire proprio a guidare rettamente la ragione nella conoscenza delle cose, sia per istruire se stessi che per istruire gli altri, e deve permettere all’intelletto di liberarsi dagli errori che impediscono la conoscenza della verità. Secondo gli autori di Port-Royal questo aspetto appare particolarmente importante e delicato perchè non sempre la verità si manifesta con evidenza davanti ai nostri occhi e quindi essa deve essere ricercata discorsivamente, attraverso il ragionamento e le regole inferenziali. La logica tradizionale, in quanto logica puramente formale, quindi carente del contatto con l’esperienza, non è in grado di farci evitare gli errori e farci procedere con sicurezza sulla via della verità. Il suggerimento degli autori di Port-Royal è quindi quello di delineare un metodo nuovo basato sulle seguenti quattro operazioni:

a)    concepire

b)    giudicare

c)     ragionare

d)    ordinare

Il concepire rappresenta, dal loro punto di vista, il puro e semplice atto di visione con cui le cose si presentano alla nostra intelligenza, così come accade quando ci rappresentiamo il sole, la terra, un albero, un quadrato, ecc.. senza formulare su di essi alcun giudizio espresso; la forma mediante la quale ci rappresentiamo queste cose è l’idea. Nel concepire quindi si ottiene l’immagine intuitiva delle cose che si mostrano direttamente alla nostra intelligenza e nello svolgimento di questa operazione è sufficiente, ai fini della conoscenza,  prestare attenzione all’oggetto verso cui l’intelletto si volge.

Il giudicare è invece l’atto del nostro intelletto con cui, unendo insieme diverse idee, questo afferma dell’una che è l’altra o nega che l’una sia l’altra, così come accade, secondo gli autori, quando, avendo l’idea della terra e l’idea del rotondo, giungiamo ad affermare o a negare che la terra è rotonda. In questa attività quindi l’intelletto stabilisce la compatibilità tra un soggetto e il suo attributo, affermando o negando una qualità o una proprietà del soggetto.

Si dice poi ragionare l’attività del nostro intelletto mediante la quale formuliamo un giudizio da vari altri giudizi, così come accade quando, avendo giudicato che la virtù deve venir riferita a Dio e che la virtù dei pagani non poteva essergli riferita, si conclude che la virtù dei pagani non è vera virtù. Con il ragionamento pertanto si raggiunge il culmine dell’attività logica perché in esso non si tratta di considerare le proposizioni nella loro individualità, cioè nel rapporto fra soggetto e predicato, come accade nel giudicare, ma di collegarle fra loro, ponendole in relazione e realizzando inferenze in modo da ottenere una conclusione caratterizzata dall’avere un contenuto conoscitivo nuovo, più ampio e generale.

L’ordinare infine è l’atto dell’intelletto con cui si dispongono le idee, i giudizi, i ragionamenti nella forma più adatta per far conoscere un determinato oggetto. Questo è ciò che va sotto il termine di metodo, che nella Logica di Port-Royal, così come in tutta la cultura scientifica e filosofica del Seicento, assume rilevanza fondamentale.

Di grande interesse è anche la particolare attenzione che gli autori di Port-Royal, cui si deve anche la composizione di un’importante Grammatica (1660), rivolgono alla questione del linguaggio. Sulla base del modello cartesiano, anche per gli autori port-royalisti la chiarezza e la distinzione delle idee sono condizioni fondamentali per evitare equivoci ed errori logici. Prendendo come esempio la parola virtù, essa appare dal loro punto di vista un termine essenzialmente ambiguo se non si tiene conto del diverso significato che può assumere per un cristiano o per un pagano, analogamente quando affermiamo che l’occhio vede o che l’orecchio sente utilizziamo in modo improprio le espressioni “vedere” e “sentire” in quanto non è l’occhio che vede o l’orecchio che sente, ma il pensiero mediante la sensazione fisica. Se poi affermiamo che, nel vedere un bastoncino spezzato immerso in un bicchier d’acqua, i nostri sensi si ingannano, in effetti non sono i nostri sensi a sbagliare, ma il nostro intelletto che giudica secondo un punto di vista errato.

In definitiva, secondo gli autori, gli errori non dipendono dai sensi, ma dal fatto che noi giudichiamo male, conclusione questa carica di una profonda ed estrema modernità e che contribuisce a “far pulizia” del nostro linguaggio per aiutarci a ragionare correttamente. Questa idea è piaciuta particolarmente alla filosofia analitica del Novecento, che si caratterizza proprio per l’aver operato una “svolta linguistica”, che concepisce la pulizia del linguaggio e la sua chiarificazione come uno dei cardini della filosofia.

 

Sulla commedia

 

Il De la comédie è un testo fondamentale del Seicento francese in relazione  alle controversie sulla moralità del teatro, ma è anche molto di più. E’ infatti per Pierre Nicole, profondo e rigido moralista, l’occasione per sondare i comportamenti e la società del suo tempo; è la meditazione religiosa di un discepolo rigorista di Agostino sempre alla ricerca della verità vera, della realtà e non di ombre, fossero anche quelle ammalianti delle scene. Al centro dell’opera sta quindi il teatro, che Nicole esamina nelle sue concrete esibizioni, forte di una profonda convinzione: esso, che si insinua e colpisce lo spettatore inerme e indifeso, è veleno perché altro non è che un mezzo che distorce la realtà.

Il testo è quindi  un’opera di denuncia che sembra rompere ogni ponte fra teatro, morale e religione, e che esercita un impatto forte sul lettore, necessario dal punto di vista dell’autore per mostrare la validità delle sue tesi.

 

Il teatro e la religione

 

Il Seicento fu il primo secolo che ebbe a fare, come annotava anche Pascal, l’esperienza della noia, dell’incostanza e dell’inquietudine. L’amore per il teatro, in una cultura che amava il rappresentare, risultava forte e il teatro stesso non mancava di interrogarsi su temi come l’essere, l’apparire e il mostrarsi agli altri per quello che si è. Si trattava di un teatro, quello del Seicento, in cui il movimento prendeva corpo come vera immagine del reale e che con i suoi drammi invitava lo spettatore a farsi in un qualche modo attore, introducendolo in un’opera che progressivamente si costruiva, mentre egli stesso ne prendeva coscienza. Il teatro proponeva l’esperienza della maschera, dell’evanescenza  e dell’illusione del reale, della spettacolarità e della teatralità, tutti elementi che non poterono fare a meno di generare, nei confronti del teatro stesso, una forte ambivalenza fra rappresentazione dell’uomo nel suo vero essere da un lato e metamorfosi e continua trasformazione dall’altro. Il teatro quindi divenne oggetto di passione per coloro che decisero di offrirsi con entusiasmo a questa esperienza e di contrapposizione per coloro che lo ritennero instabile ed insicuro e si sforzarono di superarlo. Bersaglio degli oppositori non fu tanto il fatto che il teatro volesse dichiaratamente disperdersi nell’attimo fuggente, quanto piuttosto  che l’uomo comune, nell’esperienza del teatro, sembrava toccare con mano la propria inconsistenza e fare esperienza della perdita di identità. Anche in Pierre Nicole, pertanto, il motivo agostiniano della vanità dei piaceri estetici, comune a molti autori di Port-Royal, venne accompagnato sia dalla battaglia contro tutto quanto potesse essere finzione ed artificio, sia dalla messa in guardia contro la cecità che spesso colpisce chi presume di vedere e non giunge a riconoscere che è il cuore che dispone dello spirito.

Il rapporto fra la religione e il teatro, dopo la stagione patristica, non era sempre stato conflittuale, come è dimostrato dal teatro nato dalla liturgia come appendice figurativa dei sacri misteri e dalle molte sacre rappresentazioni che illustravano la storia sacra. Nel Cinquecento infatti, sia pur fra alterne vicende, sembrava potesse essere mantenuto un certo equilibrio, teso almeno a salvaguardare la finalità positiva e didattica del poema religioso, cattolico o riformato che fosse; lo stesso Corneille infatti riconosceva che in un certo modo di fare teatro le tenerezze dell’amore umano potevano mescolarsi piacevolmente con la fermezza del divino in modo tale da soddisfare, insieme, devoti e gente di mondo.

La commistione però fra sacralità e passionalità generò a lungo andare una sorta di inversione del vedere, motivata dalla consapevolezza che le passioni sono in grado di far apparire le cose diverse da come effettivamente sono. Tale contraddizione venne pienamente messa in luce da Nicole, che riuscì a toccare questioni molto delicate, come quella dell’attore e del suo modo di vivere il ruolo, partendo dal presupposto che il personaggio calasse così profondamente nell’attore stesso da espropriarlo della sua personalità e da lasciarlo succube delle passioni da lui stesso evocate, e, questione ancora più importante, quella del potere del teatro sul cuore dello spettatore. A tali questioni comunque, nel Seicento francese, molti avevano tentato di offrire il loro contributo, prendendo posizione a volte in favore del fascino del teatro, fascino che diverte e distoglie, e a volte sollevando dubbi su questa magia e richiamando alla realtà. Alla luce di tutto ciò, Pierre Nicole, sostenuto da un certo intellettualismo in virtù del quale propugnava il potere delle idee chiare contro ogni possibile confusione, si impegnò a mostrare la necessità per l’uomo di non abbandonare mai lo spirito alla passione e ad evitare i moti troppo sensibili, poiché l’agitazione delle passioni rende le immagini certamente più vive, ma, nello stesso tempo, meno sottomesse alla ragione: dal suo punto di vista un uomo retto doveva essere pienamente padrone dei propri pensieri in modo tale da potersi applicare nelle proprie attività e nelle proprie azioni senza essere turbato da distrazioni.

 

I contenuti

 

Il testo è organizzato in dieci capitoli, ciascuno dei quali esordisce con un assunto che viene argomentato e dimostrato nel corso della trattazione.

Primo tema oggetto di considerazione da parte di Pierre Nicole è il ruolo dell’attore. Tale professione, dal punto di vista dell’autore, è ciò che di più indegno vi sia per chi si professa cristiano ed affermando ciò non si riferisce solo agli eccessi più grossolani, come le maniere dissolute con cui le donne appaiono in teatro, ma anche al fatto di rappresentare, nel modo più naturale e vivo, le passioni. Perché queste possano essere rappresentate in modo veritiero, occorre infatti che l’attore stesso le abbia provate, ma dopo tali esperienze egli non sarà mai più in grado di cancellarne la traccia. Poiché quindi il teatro obbliga necessariamente l’attore ad esercitarsi in passioni viziose, altro non è che una scuola ed un esercizio di vizio.

Dopo aver analizzato la professione dell’attore, Pierre Nicole passa a considerare quella del poeta. Prendendo spunto dal contenuto di due passi dell’Horace di Corneille, l’autore giunge alla conclusione che il poeta, al fine di rappresentare sulla scena le passioni, deve necessariamente spogliarle di quanto esse hanno di orribile e le abbellisce con le sue invenzioni, in modo tale che queste, anziché suscitare avversione in chi le osserva, suscitano invece attrazione ed ammirazione e gli spettatori, per questo, sono più portati ad amarle che ad odiarle.

In seguito quindi Pierre Nicole tenta di analizzare, e negare, le giustificazioni su cui poggia il darsi della commedia. Dal suo punto di vista, un buon cristiano, che con il battesimo ha rinunciato al mondo, non può ricercare il piacere fine a se stesso; il divertimento infatti può avere solo la funzione di rinnovare le forze dello spirito e del corpo ed è quindi un’attività che deve essere svolta solo per pura necessità, così come ciascuno di noi mangia o beve. Appare quindi chiaro che, dal punto di vista dell’autore, non è certo un modello di vita cristiana quella di colui che spende il suo tempo divertendosi, perché il divertimento non può essere concepito per se stesso, ma solo per rendere l’anima più capace di attività. Queste considerazioni sono sufficienti, secondo Pierre Nicole, per condannare la maggior parte di coloro che assistono alle commedie, in quanto non lo fanno per rilassare lo spirito dopo occupazioni serie, ma solo per la ricerca del puro divertimento, e ne consegue che la visione di una commedia si traduce per i più nel compimento di un peccato. La commedia, così come la poesia e i romanzi, rendono inoltre coloro che vi si dedicano mal disposti verso le azioni serie e comuni. Visto infatti che ciò cui essi assistono è infarcito di galanterie ed avventure straordinarie, la disposizione d’animo che finiscono per assumere è tutta romanzesca e la fantasia viene così profondamente condizionata da eroi, eroine, miti e sesso da rendere loro insopportabili i piccoli piaceri della vita quotidiana.

Pierre Nicole conclude pertanto, negli ultimi due capitoli, che la commedia è in opposizione a tutte le disposizioni cristiane, allo spirito di penitenza, all’amore della verità e al necessario timore che il buon cristiano deve nutrire nei confronti dei pericoli che lo circondano. La commedia infatti, abituando l’uomo alle passioni più lascive, ha come conseguenza l’annullamento del timore che egli deve nutrire verso di esse e finisce per annullare l’effetto stesso della Grazia, che dovrebbe invece agire in risposta alla richiesta dell’uomo di chiudere gli occhi davanti alle vanità della vita. Il testo infatti si conclude con questa domanda: se siamo obbligati, in quanto cristiani, a chiedere a Dio che ci renda ciechi di fronte a tutte le follie del mondo,di cui la commedia stessa è una sintesi, come possiamo credere che ci possa essere permesso di nutrire i nostri occhi con questi vani spettacoli, ponendo la nostra felicità in quel che dovrebbe essere oggetto della nostra avversione e del nostro orrore?

 

Bibliografia:

-         D. Massaro, La comunicazione filosofica. Il pensiero moderno, Paravia, 2003

-         D. Massaro, La comunicazione filosofica. La grammatica della mente: i ragionamenti induttivi, Paravia, 2003

-         N. Abbagnano, G. Foriero, Protagonisti e Testi della filosofia, vol. B tomo 1, Paravia, 2000

-         F. Restaino, Storia della filosofia. La filosofia moderna: Umanesimo, Riforma, Rivoluzione scientifica, Utet, Torino, 1999

-         Pierre Nicole, Sulla commedia, Bompiani, Milano, 2003


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