PLATONE

PASSI SCELTI DALLE OPERE DI PLATONE



La natura di Amore

La visione delle cose belle porta alla bellezza

L'aporia del nulla

Critica a Protagora

Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta

Dio non è causa del mondo

La contemplazione della Verità

L'aritmetica

Il mito della caverna

Reminescenza e immortalità dell'anima

Conoscere è ricordare

Sulla bellezza

Il mito nelle Leggi

Il mito é soltanto un rivestimento fantastico

L'inganno delle sensazioni corporee

Il non essere come "diverso"



La natura di Amore

Poiché, dunque, è figlio di Poro e di Penìa, ad Amore è toccata la sorte seguente. In primo luogo è sempre povero e ben lontano dall’essere delicato e bello, come credono i più, anzi è duro e lercio e scalzo e senza tetto, abituato a coricarsi in terra e senza coperte, dormendo all’aperto sulle porte e per le strade e, avendo la natura di sua madre, è sempre di casa col bisogno. Per parte di padre, invece, è insidiatore dei belli e dei buoni, coraggioso, audace e teso, cacciatore terribile, sempre a tramare stratagemmi, avido di intelligenza e ingegnoso, dedito a filosofare per tutta la vita, terribile stregone, fattucchiere e sofista. E per natura non è né immortale né mortale, ma ora fiorisce e vive nello stesso giorno, quando gli va in porto, ora invece muore e poi rinasce nuovamente in virtù della natura del padre. E infatti l’oggetto dell’amore è ciò che è realmente bello, grazioso, perfetto e invidiabilmente beato, mentre l’amante ha un altro aspetto, quale quello che ho esposto.

(Platone, Simposio, 203b-204a)



La visione delle cose belle porta alla bellezza

E come un soffio di vento o un’eco, rimbalzando da superfici levigate e solide, viene rinviata al punto di emissione, così il flusso della bellezza, arrivando nuovamente al bell’amato attraverso gli occhi, che sono la via naturale per arrivare all’anima, come vi è giunto e l’ha eccitata al volo, irrora i condotti delle ali, stimola il formarsi delle ali e colma d’amore l’anima, a sua volta, dell’amato.

(Platone, Fedro, 255c-d)



L'aporia del nulla

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Straniero - [...]Dimmi: dobbiamo avere il coraggio, mi pare, di pronunciare l'espressione "l'assoluto non essere"?

Teeteto - Come no?

Straniero - Se uno degli ascoltatori, non a scopo di contesa né per scherzare, ma seriamente dovesse rispondere, dopo aver riflettuto, a che cosa deve essere riferito questo nome, il "non essere", in riferimento a che cosa e per quale oggetto noi crediamo che egli ne farebbe uso e che cosa indicherebbe a chi lo interroga?[...]Ma questo almeno è chiaro, che il "non essere" non deve essere riferito a qualcuno degli enti. [...] Ma noi diciamo che, se s'intende parlare correttamente, non bisogna definirlo né come unità né come molteplicità e neppure assolutamente chiamarlo con il "lo", perché anche con questa espressione lo si designerebbe con una specie di unità.

(Platone, Sofista)



Critica a Protagora

Socrate: -[...] nessuna cosa è per se stessa una sola; tu non puoi, correttamente, dar nome a una cosa né a una sua qualità; se tu, per esempio, chiami alcuna cosa grande, ecco che essa potrà apparire anche piccola; se la chiami pesante, potrà apparire anche leggera; e così via per tutto il resto, perché niente è uno, né sostanza, né qualità. Dal mutar luogo, dal muoversi, dal mescolarsi delle cose fra loro, tutto diviene ciò che noi, adoprando una espressione non corretta, diciamo che è; perché niente mai è, ma sempre diviene. Su questo punto tutti i filosofi, uno dopo l’altro, a eccezione di Parmenide, si deve ammettere che sono d’accordo, [...]; e anche sono d’accordo i migliori poeti dell’uno e dell’altro genere di poesia, Epicarmo della commedia, della tragedia Omero; il quale, dicendo "Padre fu Oceano a’ numi e madre Teti", intese dire che tutte le cose hanno origine dal flusso e dal movimento. O non credi che egli intese dire così?

Teeteto: - Sì, lo credo.

(Platone, Teeteto, 151 d-152 )



Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta

Io sono persuaso di non aver fatto mai, volontariamente, ingiuria a nessuno; soltanto, non riesco a persuaderne voi: troppo poco tempo abbiamo potuto conversare insieme. [...] Ecco la cosa più difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa disobbedire al dio, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo per ironia; se poi vi dico che proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d’esser vissuta: s’io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la cosa è così com’io vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile. E d’altra parte io non mi sono assuefatto a giudicare me stesso meritevole di nessun male.

(Platone, Apologia, 37 a-38 c)



Dio non è causa del mondo

Ne dobbiamo dunque concludere - affermai - che poiché dio è buono, egli non è la causa di tutto, come volgarmente si dice: egli è causa di una minima parte delle cose umane, non della maggioranza ché i nostri beni sono quasi un nulla di fronte ai nostri mali: egli è soltanto la causa dei beni; ma dei mali altrove che in dio va ricercato il principio.

(Platone, Repubblica, XVIII, 379b-d)



La contemplazione della Verità

Poiché dunque il pensiero di un dio si nutre di intelletto e di scienza pura, anche quello di ogni anima che abbia a cuore di accogliere quanto le si addice, quando col tempo abbia scorto l'essere, ne gioisce e, contemplando la verità, se ne nutre e si trova in buona condizione, finché la rotazione circolare non riconduca allo stesso punto. Durante l'evoluzione esso vede la giustizia in sé, vede la saggezza, vede la scienza, non quella alla quale è connesso il divenire, né quella che è diversa perché è nei diversi oggetti che noi ora chiamiamo enti, ma quella che è realmente scienza nell'oggetto che è realmente essere. E dopo aver contemplato allo stesso modo le altre entità reali ed essersene saziata, si immerge nuovamente nell'interno del cielo e torna a casa. E una volta arrivata, l'auriga, arrestati i cavalli davanti alla mangiatoia, li foraggia di ambrosia e dopo questa li abbevera di nettare.

(Platone, Fedro, 247 c-e)



L'aritmetica

Ecco, dunque come la scienza dell'unità è fra quelle scienze che guidano e volgono l'anima alla contemplazione dell’Essere [...] Ma se così è per l'unità - seguitai - lo stesso dobbiamo ripetere per ogni altro numero? [...] Ma in questo senso il calcolo e l'aritmetica vertono ad ogni modo sul numero. Il calcolo e l'aritmetica sono dunque scienze che volgono al vero. [...] Ma allora, a quanto sembra, sono fra quelle discipline che ricercavamo, ché necessario ne è lo studio all'uomo di guerra per le sue manovre tattiche, e al filosofo per cogliere quello che è l'Essere in sé uscendo fuori dal mondo del divenire, se no lo studio della matematica non gli servirebbe a nulla.

(Platone, Repubblica)



Il mito della caverna

Si immaginino degli uomini chiusi fin da bambini in una grande dimora sotterranea, incatenati in modo tale da permettere loro di guardare solo davanti a sé. Dietro di loro brilla, alta e lontana, la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada con un muretto. Su questa strada delle persone trasportano utensili, statue e ogni altro genere di oggetti; alcuni dei trasportatori parlano, altri no. Chi sta nella caverna, non avendo nessun termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà (ta onta); e che gli echi delle voci dei trasportatori siano le voci delle ombre. [514a ss] Per un prigioniero, lo scioglimento e la guarigione dai vincoli e dalla aphronesis (mancanza di discernimento) sarebbe una esperienza dolorosa e ottenebrante. Il suo sguardo, abituato alle ombre, rimarrebbe abbagliato: se gli si chiedesse - con la tipica domanda socratica - di dire che cosa sono gli oggetti trasportati, non saprebbe rispondere, e continuerebbe a ritenere più chiare e più vere le loro ombre proiettate sulla parete. Per lui sarebbe difficile capire che sta guardando cose che godono di una realtà o verità maggiore (mallon onta) rispetto alle loro proiezioni. Il dolore aumenterebbe se fosse costretto a guardare direttamente la luce del fuoco. E se fosse trascinato fuori dalla grotta, per l'aspra e ripida salita, e dovesse affrontare la luce del sole, la sua sofferenza e riluttanza si accrescerebbe ancora. Il suo processo di acclimatazione al mondo esterno dovrebbe essere graduale: prima dovrebbe imparare a discernere le ombre, le immagini delle cose riflesse nell'acqua, e poi direttamente gli oggetti. Il cielo e i corpi celesti dovrebbe cominciare a guardarli di notte, e solo in seguito anche di giorno. Una volta ambientatosi, potrebbe cominciare a ragionare sul mondo esterno, sulla sua struttura, e sul luogo che ha in esso il sole. Solo allora il prigioniero liberato, ricordandosi dei suoi compagni di prigionia e della loro conoscenza, potrebbe ritenersi felice per il cambiamento. Ma se ritornassero nella caverna, i suoi occhi, abituati alla luce, sarebbero quasi ciechi. I compagni lo deriderebbero, direbbero che si è rovinato la vista, e penserebbero che non vale la pena di uscire dalla caverna. E se qualcuno cercasse di scioglierli e di farli salire in superficie, arriverebbero ad ammazzarlo. Uccidere chi viene dall'esterno è facile, perché, essendo quest'uomo abituato alla gran luce dell'esterno, sarebbe costretto a contendere nei tribunali o altrove sulle ombre del giusto, con persone che la dikaiosyne (la giustizia come virtù personale) non l'hanno veduta mai.

(Platone, Repubblica VII)



Reminescenza e immortalità dell'anima

SOCRATE - Capisco ciò che vuoi dire, Menone. vedi come ci riduci a quel ragionamento eristico, secondo il quale ad un uomo non è possibile cercare né ciò che sa né ciò che non sa? Non cerca ciò che sa, perché lo sa e non ha affatto bisogno di cercarlo, né cerca ciò che non sa; perché non sa neppure cosa cercare. [...] Poiché tutta la natura è congenere e l'anima ha appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricordi di una sola cosa - che è poi quello che si chiama apprendimento -, trovi da sé tutto il resto se è coraggioso e instancabile nella ricerca, perché il ricercare e l'apprendere, nella loro interezza, non sono che reminiscenza. Non bisogna, dunque, prestar fede a quel ragionamento eristico: esso ci renderebbe pigri ed ascoltarlo è un piacere che fiacchi; mentre questo rende alacri alla ricerca.

(Platone, Menone, 80d5-81c)



Conoscere è ricordare

L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi]! Non dobbiamo dunque affidarci al ragionamento eristico: ci renderebbe pigri ed esso suona dolce solo alle orecchie della gente senza vigore; il nostro, invece, rende operosi e tutti dediti alla ricerca; convinto d’essere nel vero, desidero cercare con te cosa sia virtù.

(Platone, Menone, 79e-82b)



Sulla bellezza

L'anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di se non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l'ha riguardato, invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. [...] Perché, oltre a venerare colui che possiede la bellezza, ha scoperto in lui l'unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio bell'amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore.

(Platone, Fedro)



Il mito nelle Leggi

Non c’è dubbio, non si può fare a meno d’avere scarsa simpatia, per non dire odio, per quelli che furono ieri e sono ancor oggi la causa dei nostri discorsi; quelli che han perso la fede nei racconti che, fin da bambini, addirittura ancora lattanti, hanno inteso narrare dalle loro madri. Erano racconti detti quasi in forma di incantesimo, un po’ per gioco e un po’ seriamente, e che i bambini avevano modo di ascoltare anche nelle preghiere rituali, associandoli a particolari immagini. Si tratta di impressioni che i giovani coglievano ed ascoltavano con grande dolcezza, allorché avvenivano nel contesto di un gesto rituale, quando magari erano proprio i genitori ad essere assorti, con la massima devozione, nel dialogo con gli dei – naturalmente, con gli dei che esistono davvero! – attraverso preghiere e suppliche rivolte a nome proprio e a nome loro.

(Platone, Leggi, 887d-e)



Il mito é soltanto un rivestimento fantastico

FEDRO – Ma dimmi, per Zeus, tu, o Socrate, credi ancora che questo mito sia vero?

SOCRATE – Ma se io non ci credessi, così come non ci credono i sapienti, non sarei lo strano uomo che sono. E in questo modo, facendo il sapiente, potrei sostenere che un colpo di vento di Bòrea gettò Orizia giù dalle rupi lì vicino, mentre stava giocando con Farmacèa, e che, dal momento che era morta in tal modo, si sparse la voce del suo rapimento da parte di Bòrea. [...] Per quanto mi riguarda, o Fedro, considero queste interpretazioni ingegnose, però proprie di un uomo molto esperto e impegnato, ma non troppo fortunato: se non altro, per il motivo che, dopo questo, diventa per lui necessario raddrizzare la forma degli Ippocentauri, poi quella della Chimera, e gli piove addosso tutta una folla di tali Gòrgoni e Pègasi e di altri esseri straordinari e le stranezze di certe nature portentose.

(Platone, Fedro, 229b-230a)



L'inganno delle sensazioni corporee

"[...] cose, come per esempio la grandezza, la sanità, la forza e, in una parola, della sostanza di tutte le cose, di ciò che ciascuna è. La verità di esse si contempla forse mediante il corpo o avviene che chi di noi si accinge più degli altri e con più accuratezza a pensare ciascun oggetto della sua indagine in sé, costui si avvicina il più possibile alla conoscenza dell'oggetto? E potrà farlo nel modo più puro chi si dirigerà verso ciascun oggetto, il più possibile, con il solo pensiero, senza intromettere nel pensiero la vista e senza trascinarsi dietro con il ragionamento alcun altro senso, ma utilizzando solo il puro pensiero di per se stesso, andrà a caccia di ciascuno degli enti in sé nella sua purezza, dopo essersi liberato il più possibile da occhi, orecchie e, a parlar propriamente, da tutto il corpo, perché turba l'anima e non le consente di acquistare verità e intelligenza, quando comunica con essa. Non è forse costui, Simmia, se mai altri, che coglierà l'essere? È straordinariamente vero, disse Simmia, ciò che dici, Socrate"

(Platone, Fedone)



Il non essere come "diverso"

Dunque, evidentemente, nella contrapposizione di una parte del diverso a una parte di "ciò che è", posti questi due termini in contrapposizione fra loro, non è, se è lecito dirlo, quella parte, meno essere di "ciò che è", in quanto tale, poiché non ha il valore di opposto di questo, ma solo di diverso da esso. [...]

Teeteto: - È chiaro che "ciò che non è", ciò che noi cercavamo studiando il sofista, non è altro che questo.

Lo straniero: - Come hai detto, ciò non è inferiore, quanto all'essere, a nessuna altra cosa. E non occorre dire ormai coraggiosamente che "ciò che non è" è saldamente ed ha una sua propria natura, come vedemmo che il grande è grande, e che il bello è bello, e ciò che non è grande non-grande, e ciò che non è bello non-bello? Anche "ciò che non è", per la stessa ragione, vedemmo essere, ed è non essendo, ed è un genere da annoverare fra i molti altri che sono. Oppure, Teeteto, v'è ancora qualche perplessità in ciò?

(Platone, Sofista 257c 258c)