PLUTARCO DI CHERONEA



A cura di Diego Fusaro

"Tutte queste considerazioni mettile a confronto con le cose dette dagli altri; e se esse avranno un grado né maggiore né minore di probabilità, manda a quel paese le opinioni, ritenendo più degno di un vero filosofo sospendere il giudizio sulle questioni poco chiare, piuttosto che darvi il proprio assenso" (De primo frigido, 955 c).




La vita
PLUTARCOQuasi tutto ciò che sappiamo circa la vita di Plutarco si ricava da riferimenti interni alle sue stesse opere: in esse, egli ricorda (Moralia 385 b) di essere stato discepolo del platonico Ammonio nell’età in cui Nerone soggiornò in Grecia (66-67 d.C.); da questo riferimento, è possibile collocare la nascita di Plutarco poco prima del 50 d.C. Sempre nei suoi scritti, egli narra che la sua famiglia fu funestata dalla scomparsa prematura dei cinque figli che Plutarco ebbe dalla moglie Timossena. Plutarco trascorse la maggior parte della propria esistenza nella nativa Cheronea, in Beozia, (diceva scherzosamente di non volerla rendere più piccola andandosene), ma ciò non gli impedì di fare importanti viaggi sia in Grecia sia nelle altre zone dell’Impero: e così si recò ad Atene (ove fu insignito della cittadinanza onoraria), a Sparta, ad Alessandria e forse anche in Asia; ebbe modo di visitare l’Italia e di soggiornare a Roma, senza però riuscire ad impadronirsi alla perfezione della lingua latina per via dei molteplici impegni politici e culturali che lo impegnarono ( Vita di Demostene, 2, 2). Plutarco divenne cittadino romano col nomen di Mestrio (tratto dall’amico Mestrio Floro) e gli fu conferita da Traiano la dignità consolare, da Adriano quella di suo ambasciatore in Grecia. È curioso che di queste cariche prestigiose, di cui ci dicono Eusebio e il lessico Suda, Plutarco non faccia mai menzione nei suoi scritti: questa apparente stranezza è probabilmente dovuta alla fierezza greca di Plutarco, che per tutta la vita non volle vantarsi di cariche esercitate in favore del potere romano. Quest’ipotesi trova una potente conferma nel fatto che egli elenchi nei suoi scritti una dopo l’altra tutte le cariche da lui rivestite in Beozia (arconte eponimo, sovrintendente all’edilizia pubblica, telearco). L’incarico che più ebbe a cuore fu però quello di sacerdote delfico, che detenne per circa un ventennio e che molta influenza ebbe sulla sua spiritualità. Molte incertezze permangono sulla data della morte di Plutarco, che dovette in ogni caso coglierlo in età piuttosto avanzata: se prestiamo fede a Eusebio, Plutarco non sarebbe morto dopo il 119 d.C., anche se c’è chi sposta la data fino al 125.

Le opere
I titoli delle opere scritte da Plutarco ci sono stati tramandati dal cosiddetto “catalogo di Lampria”, nome che il lessico Suda attribuisce erroneamente ad un figlio di Plutarco stesso che avrebbe compliato il catalogo degli scritti del padre. In alcuni manoscritti il catalogo è poi preceduto da un’epistola nella quale un mittente anonimo scrive ad un altrettanto anonimo destinatario chiedendo di inviargli una lista degli scritti del proprio padre. Oggi si pensa che tanto l’epistola quanto il catalogo siano certamente di epoca posteriore, e si è fissata alla notevole cifra di 260 il numero delle opere di Plutarco (di cui però alcune sono sicuramente spurie). Di questa impressionante produzione a noi è giunto soltanto un terzo. Le opere di Plutarco possono essere suddivise in due grandi gruppi: le Vite parallele (che ci sono giunte in numero di 50) e i Moralia ( Ethicà), dei quali sono sopravvissuti circa 70 scritti (non contando quelli sicuramente falsi). Le 50 Vite parallele non sono altro che 50 biografie di uomini illustri del mondo greco e romano (con l’eccezione di quella del persiano Artaserse); di queste, 44 risultano ordinate secondo coppie di personaggi appartenenti ai due popoli (Alessandro-Cesare, Demostene-Cicerone, e così via), aspetto che giustifica la denominazione di “parallele”. Nella sua opera, infatti, Plutarco instaura un vero e proprio parallelo tra le vite di illustri Romani e quelle di illustri Greci, operando un vero e proprio confronto ( sùgrisis) tra il personaggio greco e quello romano presi in esame e spiegando le ragioni di tale parallelismo. Solo quattro vite (Arato, Artaserse, Galba, Otone) sono singole, e una delle coppie risulta costituita da due personaggi per parte (Agide e Cleomene-Tiberio e Gaio Gracco), portando il numero delle biografie a 50. Nei manoscritti, le 22 coppie ci sono state tramandate nel modo seguente:

1 Teseo-Romolo; 2 Solone-Publicola; 3 Temistocle-Camillo; 4 Aristide-Catone il Vecchio; 5 Cimone-Lucullo; 6 Pericle-Fabio Massimo; 7 Nicia-Crasso; 8 Alcibiade-Coriolano; 9 Demostene-Cicerone; 10 Focione-Catone il Giovane; 11 Dione-Bruto; 12 Emilio Paolo-Timoleonte; 13 Sertorio-Eumene; 14 Filopemene-T. Flaminio; 15 Pelopida-Marcello; 16 Alessandro-Cesare; 17 Demetrio-Antonio; 18 Pirro-Mario; 19 Agide e Cleomene-Tiberio e Gaio Gracco; 20 Licurgo-Numa; 21 Lisandro-Silla; 22 Agesilao-Pompeo.

Va notato che i paralleli sopra indicati col numero 3, 10, 16 e 18 sono gli unici privi del confronto. Il procedimento del confronto tra personaggi illustri non era certo una novità (basti pensare alla celebre comparatio tra Catone e Cesare nel cap. 54 della Congiura di Catilina di Sallustio), ma è sicuramente innovativo nella sua raffinatezza l’uso che ne fa Plutarco: egli accosta un personaggio greco ad uno latino con l’intenzione (insieme politica e culturale) di avvicinare i due popoli e le due civiltà, superando i rispettivi pregiudizi e favorendo una collaborazione incentrata su un rapporto di stima e rispetto reciproci. In un contesto in cui il dominio romano è una realtà indiscutibile, ma in cui al tempo stesso la Grecia, col suo glorioso passato, non vuole essere relegata ai margini come mera colonia, Plutarco sa bene che la sua è una missione storica di unificazione e conciliazione tra due realtà diverse e potenzialmente in conflitto. Il mondo greco e quello romano sono da Plutarco intesi come due mondi complementari, quasi come se quello romano non fosse altro che una riproposizione in parallelo degli antichi eroi greci, migrati a Roma. Il mondo romano non segna dunque la fine di quello greco, ma piuttosto la sua continuazione. Ma non è questo l’unico scopo dell’opera plutarchea: ve n’è un altro, altrettanto importante, che Plutarco enuncia nell’esordio della Vita di Emilio Paolo, allorché spiega che, “guardando nella storia come in uno specchio”, egli prova a modellare in qualche modo la sua vita sulle virtù dei protagonisti della storia, aggiungendo che “non esiste modo migliore e più piacevole di migliorare i propri costumi”. Le virtù degli eroi storici sono dunque un paradigma da cui mai bisogna allontanare lo sguardo e che dev’essere conosciuto per poter essere imitato. Plutarco sa bene che, per questa via, si esce dai sentieri della storia per imboccare quelli delle biografie personali, e lo dichiara programmaticamente nella Vita di Alessandro (I, I, ss.):

“Noi non scriviamo storie, ma biografie. […] Come dunque i pittori ricavano le somiglianze dal volto e dai tratti esteriormente visibili, attraverso i quali si manifesta il carattere, così a noi dev’essere concesso di penetrare maggiormente nei segni rivelatori dell’animo e mediante questi dare un’immagine della vita di ciascuno, lasciando ad altri le grandezze e le contese”.

Nel tratteggiare la vita dei suoi personaggi, Plutarco parte solitamente dalla gioventù, su cui si sofferma con particolare insistenza, giacché la intende come il momento di formazione dell’uomo e del suo éthos; poi passa alle imprese storiche compiute (che sono una diretta emanazione dell’éthos) dal personaggio cresciuto, per poi concludere con la vecchiaia e con la morte; numerosi sono gli aneddoti e le frasi celebri (“meglio essere i primi in un villaggio che i secondi a Roma”, dice ad esempio Cesare). Su un piano strettamente filosofico, è bene rilevare come ogni personaggio tenda, da un lato, ad assumere la fissità dell’archetipo platonico, eterno modello da imitare, e, dall’altro lato, sia attratto nella sfera dell’incessante divenire storico, entro cui recita dinamicamente il suo ruolo di protagonista. Sicché ciascun personaggio è un modello platonico calato nella storia o, se preferiamo, sceso dal cielo sulla terra, a segnalare la possibile attuazione di quei modelli che, a tutta prima, nella loro perfezione potrebbero sembrare meramente ideali. Questo schema è poi reso più intricato dall’intersecarsi di un terzo piano, quello “speculare”, in forza del quale ogni eroe greco si riflette specularmene nel suo parallelo romano, che ne rappresenta, per così dire, una reincarnazione.

Il pensiero filosofico
Se dalle Vite parallele ci è restituita l’immagine di un “Plutarco storico” o, meglio, biografo, quello che affiora dai Moralia è un “Plutarco filosofo” a trecentosessanta gradi, che non conosce zone inaccessibili alla sua indagine filosofica (dalla gnoseologia all’etica, dalla teologia alla psicologia, dalla pedagogia alla politica, ecc.): il titolo di Moralia, che rimanda necessariamente alla filosofia morale (e che fu attribuito all’opera plutarchea probabilmente in forza del fatto che gli scritti morali furono quelli più apprezzati), pare dunque riduttivo, perché trascura il carattere enciclopedico dell’indagine plutarchea. Una prima serie di scritti filosofici è quella di contenuto etico che sviluppa argomenti di filosofia spicciola ad uso quotidiano:

1 De adulatore et amico; 2 De profectibus in virtute; 3 De capienda ex inimicis utilitate; 4 De amicorum multitudine; 5 De virtute et vitio; 6 Consolatio ad Apollonium; 7 De tuenda sanitate praecepta; 8 Coniugalia praecepta; 9 De virtute morali; 10 De cohibenda ira; 11 De tranquillitate animi; 12 De fraterno amore; 13 De garrulitate; 14 De curiositate; 15 De cupiditate divitiarum; 16 De vitioso pudore; 17 De invidia et odio; 18 De laude ipsius; 19 Consolatio ad uxorem; 20 Amatorius; 21 Amatoriae narrationes; 22 De vitando aere alieno; 23 De amore.

Cinque sono le opere pedagogiche:

1 De liberis educandis; 2 De audiendis poetis; 3 De audiendo; 4 De musica; 5 Pro nobilitate.

Questi sono gli scritti politici:

1 Maxime cum principibus viris philosopho esse disserendum; 2 Ad principem indoctum; 3 An seni res publica gerenda sit; 4 Praecepta gerendae rei publicae; 5 De unius in re publica dominatione, populari statue t paucorum imperio; 6 De esilio; 7 Institutio Traiani.

Presentano un contenuto marcatamente speculativo alcune opere che passano in rassegna, non senza intenti polemici, le diverse posizioni assunte dalle varie scuole filosofiche:

1 Platonicae quaestiones; 2 De animae procreatione in Timaeo; 3 De Stoicorum repugnantiis; 4 Stoicos absurdiora poetis dicere; 5 De communibus notitiis adversus Stoicos; 6 Non posse suaviter vivi secundum Epicurum; 7 Adversus Coloten; 8 De latenter vivendo; 9 De libidine et aegritudine; 10 Quod in animo humano affectibus subiectum parsne sit eius an facultas; 11 De anima.

Fin dai titoli appare evidente come nel mirino della critica di Plutarco siano soprattutto gli Stoici e gli Epicurei, ai quali il pensatore di Cheronea contrappone come antidoto il platonismo, di cui si dichiara a gran voce seguace. Di argomento spiccatamente scientifico sono una serie di opere al cui cuore sta l’indagine del mondo fisico e animale; in esse Plutarco si occupa anche di astronomia e prende posizione contro l’uso alimentare della carne:

1 De facie in orbe lunae; 2 De primo frigido; 3 Quaestiones physicae; 4 De amore prolis; 5 De sollertia animalium; 6 Bruta animalia ratione uti; 7 De esu carnium.

Alla storia della religione e a problematiche teologiche sono poi dedicati scritti che risultano interessanti soprattutto alla luce delle preziosissime informazioni antropologiche e culturali sul contesto spirituale tardo-pagano che racchiudono:

1 De superstitione; 2 De Iside et Osiride; 3 De E apud Delphos; 4 De Pythiae oraculis; 5 De defectu oraculorum; 6 De sera numinis vindicta; 7 De genio Socratis.

Presentano poi un taglio antiquario ed erudito scritti che trattano, in forma rigorosamente eziologica, di riti e usanze greche e romane:

1 Mulierum virtutes; 2 Aetia Romana; 3 Aetia Greca; 4 Regum et imperatorum apophthègmata; 5 Apophthègmata Laconica; 6 Parallela minora; De fluviis.

Plutarco si occupa anche di critica letteraria, di poetica e di retorica, anche se i suoi scritti circa questi argomenti sono andati perduti: di essi conosciamo solo i nomi, riportati nel catalogo di Lampria. Due però ci sono giunti e sono rispettivamente dedicati ad un raffronto tra Aristofane e Menandro e alla malignità di Erodoto (malignità dimostrata soprattutto ai danni dei Corinzi e dei Beoti):

1 De comparatione Aristophanis et Menandri epitome; 2 De Herodoti malignitate; 3 De vita et poesi Homeri; 4 X oratorum vitae; 5 De placitis philosophorum; 6 De proverbis Alexandrinorum; 7 Ecloga de impossibilibus; 8 De metris.

Prove di declamazione e di talento retorico sono alcuni scritti (probabilmente giovanili) in cui Plutarco esercita la propria bravura stilistica:

1 De fortuna; 2 De fortuna Romanorum; 3 De Alexandri Magni fortuna; 4 De gloria Athenensium; 5 Aquane an ignis sit utilior; 6 An virus doveri possit; 7 An vitiositas ad infelicitatem sufficiat; 8 Animine an corporis affectiones sint peiores; 9 De fato.

Contenuto miscellaneo e difficilmente classificabile hanno infine le seguenti due opere:

1 Septem sapientium convivium; 2 Quaestiones convivales.

Le due forme stilistiche che Plutarco sembra di gran lunga preferire nel fare filosofia sono quella del dialogo alla maniera platonica e quella del trattato: ma il dialogo platonico, nelle mani di Plutarco, muta radicalmente essenza, perdendo il suo splendore stilistico e il suo procedere scandito dalla dialettica della “botta e risposta” in cerca del vero; gli stessi personaggi sono ben poco artisticamente caratterizzati, e non di rado il dialogo finisce per essere solo una cornice entro cui inserire l’esposizione dell’argomento sotto forma di trattato. Lo stesso trattato assume una forma particolare, declinandosi ora come declamazione oratoria, ora come invettiva (tali sono gli scritti contro Epicurei e Stoici), e talvolta come diatriba di derivazione cinica, con frequenti aneddoti e ammonimenti rivolti al lettore e con un uso piuttosto colloquiale del linguaggio. Dal lungo elenco di titoli sopra riportati è facile evincere come Plutarco fu un ingegno enciclopedico, che si occupò di tutto, mosso da una curiositas che lo spingeva a interrogarsi su ogni cosa. È soprattutto a Platone che Plutarco si richiama espressamente, anche se la sua etica ha molti tratti comuni con quella aristotelica: dall’Accademia egli mutua l’atteggiamento antidogmatico e scettico, che lo porta spesso a ricorrere alla sospensione del giudizio (epoché), rendendolo consapevole dell’impossibilità di raggiungere in via definitiva la verità. Ma ciò non vuol dire che Plutarco sia un relativista o uno scettico tout court: il dubbio e la sospensione del giudizio vengono esercitati da Plutarco limitatamente al mondo fisico, cioè al mondo della dòxa, dell’opinione e della congettura; per quel che invece riguarda l’ambito delle eterne verità religiose e morali, egli è profondamente dogmatico, a tal punto da poter attaccare senza remore gli Stoici e gli Epicurei in nome del vero. Così, nel De primo frigido, Plutarco conclude la sua indagine sull’origine del freddo con un’inaspettata professione di scetticismo al suo interlocutore Favorino, esortandolo ad evitare oculatamente le secche del dogmatismo; e poi, negli scritti religiosi, attacca duramente quanti mettono in forse l’esistenza dell’aldilà o l’immortalità dell’anima. Sulle orme dell’amato Platone, Plutarco non ritiene assurdo o impossibile conciliare la fede in un Dio unico col politeismo della religione tradizionale, verso la quale nutre un incredibile rispetto. Non a caso egli fu sacerdote di Apollo e venne iniziato anche ai misteri dionisiaci, nutrendo una fede incrollabile nell’immortalità dell’anima e nell’aldilà, di cui abbozza una descrizione di impareggiabile suggestività nel De sera numinis vindicta. Suggestionato dal pitagorismo, Plutarco credeva anche nella trasmigrazione delle anime: questo spiega il suo vivacissimo interesse per il mondo animale, per il vegetarismo e per la lotta contro l’uso alimentare delle carni. Seguace fedele del dio delfico, Plutarco credeva alla funzione dell’arte mantica e alla veridicità degli oracoli, il cui silenzio egli prova a spiegare nel De defectu oraculorum, attraverso le tesi esposte dai vari interlocutori: una di tali tesi ipotizza addirittura l’esistenza di demoni, ossia di esseri anfibi tra l’umano e il divino, coi quali in altri scritti si cerca di render conto anche del male nel mondo e della sua apparente inconciliabilità con la provvidenza divina. In questa prospettiva, il filosofo di Cheronea non può non condannare l’ateismo e la superstizione, propugnando la rivitalizzazione dell’oracolo di Delfi. Interessato alla religione egizia, egli interpreta il mito di Iside e Osiride alla luce delle nozioni (desunte dal Timeo di Platone) di intelletto, anima del mondo e materia come ricettacolo. All’interno dei suoi dialoghi, Plutarco non esita ad introdurre, ancora una volta seguendo le orme di Platone, miti escatologici sul destino dell’anima dopo la morte; e l’ammissione dell’immortalità dell’anima facilita l’ammissione di una provvidenza divina che, nell’aldilà, premia i buoni e punisce i malvagi. È questa (formulata nel De sera numinum vindicta, scritto in cui si discute appunto del perché la divinità tardi a vendicarsi) una vera e propria teodicea che risente notevolmente del mito di Er platonico. Richiamandosi alle Leggi di Platone, Plutarco tenta poi di render conto del male nel mondo, ammettendo l’esistenza, accanto ad un principio divino razionale e buono, di un principio che genera il male:

“La nascita e la sostanza di questo universo derivano dalla mescolanza di forze contrarie ma non di ugual potenza, dato che il principio vincente è sempre quello buono. Ma non è del resto possibile che la forza del male sia del tutto annientata: essa è innata sia nella struttura fisica sia nell’anima vitale del tutto, in un’eterna lotta contro la forza del bene” (De Iside et Osiride, 49, 371 a).

Come abbiamo detto, Plutarco nutre un atteggiamento profondamente ostile allo stoicismo e all’epicureismo: degli stoici, egli mette in luce le innumerevoli contraddizioni teoriche che inficiano il loro sistema, sottolineando anche l’incompatibilità tra l’impegno politico a cui essi esortano e il loro totale disimpegno e agnosticismo politico praticato nella vita di tutti i giorni. La stessa pretesa stoica di eliminare le passioni è un’assurdità degna di essere derisa: ad essa Plutarco contrappone l’antica strategia platonica di misurazione ragionata delle passioni, in modo tale da disciplinarle e renderle funzionali ad una buona costituzione politica. E del resto Plutarco recupera in toto l’antica tripartizione platonica dell’anima: una tripartizione che, com’è noto, lungi dal liquidare le passioni, le ammette e le promuove, a patto che siano regolate dalla guida lungimirante della ragione. Dell’epicureismo Plutarco attacca ogni parte, schierandosi con particolare accanimento contro l’etica: non è un caso che il giovane Marx, nella sua dissertazione dottorale (Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, 1841), non esiterà ad individuare in Plutarco (insieme con Cicerone) il massimo nemico dell’epicureismo. In particolare, il filosofo di Cheronea cerca di mettere in mostra come – parafrasando il titolo di un suo scritto – sia impossibile vivere felicemente seguendo Epicuro: e dato che l’etica è il cuore della filosofia epicurea, distrutta quella, crollerà l’intero sistema. Una sferzante requisitoria contro l’epicureismo è, ad esempio, quella condotta da Plutarco contro l’epicureo Colote e nello scritto De latenter vivendo (in cui prende di mira l’agnosticismo politico di Epicuro). Il pensatore di Cheronea, così critico verso le diverse scuole di pensiero, assume un atteggiamento di acquiescenza verso la realtà politica presente, tessendo a più riprese le lodi di Roma, alla quale riconosce il merito di assicurare la pace, la sicurezza e la libertà a quanti si affidano alla sua protezione. Il vero obiettivo politico da raggiungere è allora quello della concordia tra i cittadini, rimuovendo ogni lotta tra loro: a questo scopo, Plutarco propone un ritorno alla paideìa, sulla scia di Platone. In un’epoca in cui il disegno politico platonico è ormai irrealizzabile, resta comunque viva la linea pedagogica del filosofo delle idee, a patto che la si porti all’altezza della nuova temperie culturale, così intrisa di religione e spiritualità. Anche se non fu mai un professore di filosofia (come lo sarà di lì a non molti decenni l’aristotelico Alessandro di Afrodisia), Plutarco si occupò per tutta la vita di questioni filosofiche, con un interesse che forse lo accomuna più che ad ogni altro a Cicerone: come Cicerone, egli non è uno specialista di filosofia in senso stretto, talvolta commette errori e fraintendimenti, non elabora un sistema proprio, ma si pone in costante dialogo con le menti illustri del passato, di cui cerca di riproporre i temi. Così, nell’Amatorius, egli elabora una sorta di rifacimento del Simposio platonico, declinandolo secondo i canoni della nuova sensibilità del suo tempo e, in questo modo, scostandosi talvolta dagli insegnamenti platonici: così l’obiettivo stesso del dialogo (dimostrare la superiorità dell’amore eterosessuale rispetto a quello omosessuale) è profondamente antiplatonico; verso l’omosessualità, Plutarco mostra una vera e propria repulsione, pur senza giungere a condannarla inappellabilmente (giacché era pur sempre stata un costume di grandi ingegni antichi).Il dialogo si finge narrato da Autobulo, un figlio di Plutarco, che racconta ad un certo Flaviano un episodio risalente ad anni addietro: i genitori di Autobulo (cioè Plutarco stesso e sua moglie, Timossena) si erano recati a Tespie, ai piedi del monte Elicona, per fare un sacrificio in onore di Eros e delle Grazie; la città era sconvolta dal gran parlare che si faceva intorno alla decisione della ricca vedova Ismenodora di sposare il giovanissimo Baccone. Alcuni parenti del giovane approvano la decisione, altri la rigettano: la cosa che più colpisce è che a decidere il tutto è Ismenodora, mentre Baccone accetta passivamente le decisioni altrui. A Plutarco, appartato nel santuario di Eros, giungono informazioni sulla vicenda e ciò costituisce lo spunto per il dialogo: intanto Ismenodora macchina, con l’appoggio di Baccone, un finto rapimento del giovane, in maniera da mettere la famiglia del ragazzo di fronte al fatto già compiuto; proprio mentre Plutarco sta tessendo l’elogio del matrimonio (contrapposto all’amore omosessuale) e della virtù delle donne, arriva la notizia dell’imminente felice matrimonio tra Baccone e Ismenodora. Nel corso del dialogo, Plutarco prova a dimostrare la natura divina di Eros, messa in dubbio da un interlocutore epicureo che si rivela piuttosto critico verso la religione. Se nel Simposio platonico Eros era un daimon, Plutarco lo descrive invece come un vero e proprio dio, grazie ad un’appassionata argomentazione dialettica:

“Tu vuoi rimuovere gli inamovibili fondamenti della nostra fede negli dei, quando chiedi per ciascuno di loro una dimostrazione razionale. La fede ancestrale dei nostri padri si fonda su se stessa, non si può trovare ed escogitare prova più chiara di essa […]. Questa convinzione è una base, un fondamento comune posto all’origine della pietà religiosa; se in un solo punto viene messa in discussione la sua solidità e risulta scossa la convinzione generale, essa diventa tutta quanta instabile e sospetta” (Amatorius, 13, 756 B)



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