IL PRIMO LIBRO DELLA REPUBBLICA DI PLATONE



Prima di entrare in medias res e affrontare l’opera, dobbiamo occuparci dei problemi di datazione e di autonomia del libro primo: è parere largamente condiviso che esso, in principio, fosse un dialogo a sé stante (forse intitolato Trasimaco o Sulla giustizia), probabilmente un dialogo giovanile (come attestano gli studi filologici) anteriore al primo viaggio platonico in Sicilia (390 a.C. circa). Tale dialogo originariamente concepito come autonomo sarebbe poi stato riutilizzato (con opportune modifiche stilistiche e concettuali) da Platone come introduzione alla sua Repubblica (risalente al 385 a.C. circa), assumendo la collocazione in cui ancora oggi lo leggiamo, quasi come una sorta di portico socratico dell’intera opera. L’opera presenta fin dall’inizio una ben precisa intenzione, riguardante il ruolo della filosofia e, in particolare, del filosofo nella città, al fine non solo di educare i cittadini che la popolano, ma anche di mettere alla prova il filosofo stesso, chiamato a maturare nella poliV la sofia all’incontro con la realtà della vita associata. Ciò appare lampante fin dall’incipit dell’opera:

 

Ieri scesi al Pireo con Glaucone, figlio di Aristone, per pregare la dea e nello stesso tempo per vedere come avrebbero celebrato la festa, dato che è la prima volta che la fanno. Mi sembrò davvero bella anche la processione della gente del posto, ma non appariva meno decorosa quella condotta dai Traci. Fatte le nostre preghiere e contemplato lo spettacolo, stavamo tornando in città quando Polemarco, figlio di Cefalo, avendo visto da lontano che ci incamminavamo verso casa, mandò di corsa il suo giovane schiavo per invitarci ad aspettarlo. E il ragazzo, afferratomi da dietro per il mantello, mi disse: «Polemarco vi prega di aspettarlo».

 

Quello che, prima facie, parrebbe un inizio del tutto casuale è in realtà il frutto di un attento progetto platonico: il primo termine in cui ci imbattiamo è katebhn (letteralmente traducibile con “io scesi”), direttamente connesso con la parola katabasiV, che vuol dire “discesa” e che, presso i Greci, riveste un significato di primaria importanza; katabasiV era stata, ad esempio, la discesa – cantata da Omero nell’Odissea - di Odisseo nell’Ade e sicuramente il termine doveva colpire molto, ancora ai tempi di Platone, l’immaginario greco. Pertanto, fin dalle prime righe della Repubblica, è chiaro che ciò che Socrate intraprende è una discesa nell’Ade sociale e politico della città, un mondo completamente estraneo al filosofo che lo avverte come non nobile e lontano dalla ricerca che gli è propria; certamente contrapposta a questa discesa simbolica sulla piazza è l’anabasiV, ossia la “risalita”, che, nei libri successivi, Socrate compie, fino ad arrivare al Sole (fuor di metafora: l’idea del Bene). Tuttavia, si tratta anche di una discesa in senso letterale, in quanto si dice che Socrate scende al Pireo e, come sappiamo, per raggiungere il Pireo (il porto di Atene) dall’acropoli della città bisognava effettivamente scendere; il Pireo, del resto, è il luogo che meglio incarna l’anima pulsante della città, è il luogo in cui risiede la parte meno nobile dei cittadini ma più dedita agli affari e alle attività commerciali; è, insomma, la parte che meglio rappresenta l’anima irrazionale del vivere associato. Non a caso, tutto il libro primo è costellato di esempi realistici che tratteggiano la città come frutto di un’aggregazione dettata dall’utile (tema ripreso anche nel secondo libro), realizzata nel momento in cui ciascuno si accorge di non bastare più a se stesso. Proprio nella casa di uno (di nome Cefalo)  di questi cittadini del Pireo si svolge il dialogo narrato nel libro primo: Cefalo è addirittura un meteco, ossia un “non greco”, uno straniero. Perché Platone sceglie di ambientare un dialogo sulla giustizia proprio nel Pireo? Sicuramente perché esso è il luogo in cui meglio si manifesta la ricerca sfrenata di ricchezza e il dinamismo dell’Atene del V secolo, quell’Atene che andava ogni giorno arricchendosi di monumenti e di figure illustri. Il Pireo, inoltre, serve a Platone per mettere in risalto la valenza altamente negativa del commercio, inteso come un qualcosa che dispiega la potenza corruttrice del denaro e per porre l’attenzione sul mare, che simboleggia ogni possibile genere di apertura alle culture “altre” e ai loro bizzarri costumi, da Platone concepiti, se non come malvagi, sicuramente destabilizzanti rispetto ai patrioi nomoi tràditi dal passato e fondanti l’identità dei cittadini. In una città talassocratica quale era l’Atene del V secolo, la pluralità (declinata ora come multietnismo ora come varietà di culti e credenze) genera disorientamento e spaesamento, provocando un’eterogeneità che può sfociare nella stasiV, ossia nella guerra civile. Oltre a ciò, Platone vuole mettere in luce il problematico rapporto tra città e filosofia, un rapporto richiamato ed evocato a più riprese in tutta l’opera: l’idea generale è che la filosofia abbia origine dalla poliV opulenta (idea condivisa da Aristotele in Metafisica I), di cui è figlia, e non dalla poliV al suo livello di mero soddisfacimento dei bisogni elementari (nutrimento, riproduzione, ecc). Significativamente Platone, nel descrivere la formazione della città, qualifica questo stadio primario come poliV twn suwn, cioè “città dei porci”, in cui ancora manca la filosofia; questa, per sua natura, nasce quando la città ha raggiunto un grado di benessere tale che sia dato spazio al pensiero, e non c’è dunque da stupirsi se essa sia nata, con Talete, nella vivacissima Mileto, importante porto della Ionia, crocevia di popoli e culture. E tuttavia la filosofia, che pure è figlia della città opulenta, non può condividerne l’ideologia, la ubriV figlia della talassocrazia e la forza sradicante di una poliV proiettata verso il dominio; ma non può nemmeno rifiutarla tout court, giacchè deve, se vuole essere sapere in senso pieno, allontanarsi dalla doxa, dalle acquisizioni della tradizione, da una forma di sapere che va reiterandosi senza aver coscienza di sé e finisce poi per ribaltarsi in mito. La filosofia non può dunque rigettare la forza sradicante della città poiché deve mirare a farsi sapere critico: e qui essa incontra la sua grande contraddizione, nella misura in cui la filosofia che meglio esprime questo caleidoscopio di forme eterogenee non è il platonismo o il socratismo, ma la sofistica, ossia un sapere mercenario e relativizzante che legittima lo status quo di cui è figlio, e anzi lo usa per autoaffermarsi; è, in certo senso, un sapere che sta sul mercato e cerca di tesaurizzarne le possibilità. Proprio su questo controverso terreno fiorisce la figura di Socrate, che mette in forse il sapere sofistico, il suo prostituirsi al potere e il suo arrendersi alle mode vigenti. Abbiamo tratteggiato, con ampie pennellate, lo sfondo del dialogo: la discesa al Pireo implica la volontà di sporcarsi le mani nella politica, oltrechè la volontà di sostituire il disordine, sempre sfociante in stasiV, con un ordine fondato sulla giustizia. Come egli stesso narra, Socrate è sceso al Pireo per prendere parte alla festa dedicata alla dea Atena, signora della città, e per rivolgerle delle preghiere; è assai importante la precisazione che egli fa quando asserisce che, in parallelo alla festa per Atena, ve n’è un’altra dedicata ad una dea della Tracia (e dunque straniera) Bendis: egli sta tracciando un affresco della società ateniese, multiculturale e pluralistica, del V secolo, un’Atene in cui più culti convivevano pacificamente. Dopo aver rivolto le sue preghiere ad Atena, Socrate si rimette in cammino verso la città, quando a un tratto Polemarco, dopo averlo visto, lo manda a chiamare da un suo servitore. Chi è Polemarco? Tale nome dice sicuramente poco a noi che leggiamo l’opera più di duemila anni da quando fu scritta; ma agli Ateniesi dell’epoca tale nome doveva senz’altro far scorrere un rivolo di sudore freddo sulla schiena: Polemarco, infatti, era un cittadino mandato a morte senza processo durante il governo oligarchico dei Trenta Tiranni nel 404 a.C. Anch’egli, al pari di Socrate, fu vittima di una grande ingiustizia politica che gli costò la vita: tuttavia, se Socrate la subì da parte dei democratici, Polemarco, dal canto suo, la subì, pochi anni prima, per mano di un governo oligarchico; con ciò Platone ci sta comunicando che tanto i governi democratici quanto quelli oligarchici tendono a commettere ingiustizie e che a discutere di giustizia saranno Socrate e Polemarco, ossia due grandi vittime dell’ingiustizia. Proprio Polemarco invita Socrate in casa del padre Cefalo e, in questo modo, si avvia la macchina narrativa del dialogo, a cui prendono parte ben quattro personaggi: Socrate, Cefalo, Polemarco e Trasimaco, un sofista di “destra” assai arrogante che incarna le posizioni che andavano vieppiù affermandosi nell’Atene del V secolo. Ognuno di questi quattro personaggi è alfiere di una sua posizione circa la giustizia, col che Platone rivela quanto essa sia polivoca e difficile da definire in maniera chiara: così Cefalo rappresenta una visione molto tradizionale della giustizia, anche se non coincidente in senso pieno con quella aristocratica (teniamo a mente che Cefalo è un meteco); Polemarco sostiene una posizione affine a quella del padre, quasi come se anch’essa fosse figlia di Cefalo, ancorché appartenga a una generazione successiva. Trasimaco, dal canto suo, è l’uomo nuovo per eccellenza, il vessillo dell’arrogante sofistica che si pone al servizio del potere e che si presenta come un sapere mistificante e tale da mirare al successo più che alla verità. Infine, Socrate propugna una concezione della giustizia assai vicina a quella di Platone, ma non del tutto analoga: ciò si evince dal fatto che l’esito del primo libro è aporetico, non si addiviene cioè ad una conclusione vera, e Socrate non riesce a superare pienamente le posizioni fatte valere dal borioso Trasimaco. La posizione di Socrate sarà poi rivista e modificata nei libri successivi. Occorre notare che tra le tre posizioni di Cefalo, di Polemarco e di Trasimaco, da un lato, e quella di Socrate, dall’altro, si instaura fin dall’inizio una forte tensione che si manifesta già a livello linguistico: i primi tre, quando parlano di “giustizia”, impiegano il termine classico dikh, che designa un insieme di regole per la convivenza; Socrate si avvale invece di una parola più recente, dikaiosunh, che è innanzitutto una virtù dell’anima, è l’esser giusti, ossia la disposizione dell’anima alla giustizia. La prima concezione della giustizia che affiora nell’opera è consegnata alla figura di Cefalo, il ricco meteco che abita al Pireo e che, come tutti gli “arricchiti”, mima gli stili di vita e le usanze degli aristocratici: egli è per una forma di tradizionalismo e di convenzionalismo etico. Per Cefalo, infatti, la giustizia è rispetto dei patti e restituzione dei pegni, cosicché ingiusto è quanto implica una violazione non solo della parola data, ma anche della sacralità dei giuramenti. È qui che emerge come Cefalo, oltre ad essere un parvenu, è anche un bigotto: infatti, quando la combriccola entra in casa sua, egli sta offrendo sacrifici religiosi e confessa di avere ormai poco interesse per le cose terrene; inoltre, dopo aver esposto la propria concezione della giustizia, egli se ne torna a sacrificare, cedendo la parola agli altri. Del resto, la sua stessa concezione della giustizia, incentrata sul mantenimento della parola data, rivela i suoi scrupoli religiosi, giacché è come se si dovesse mantenere la parola data in vista dei rapporti con la divinità e della vita ultraterrena, per la quale Cefalo mostra un’attenzione maniacale. Si può anzi dire che egli compie sacrifici ed è ligio alle leggi proprio in relazione alla divinità e alla vita dell’aldilà, anticipando qui un tema che sarà ampiamente ripreso, nell’ultimo libro dell’opera, attraverso il mito di Er. Nelle prime pagine [328 C e seguenti], dunque, Cefalo presenta la propria posizione e descrive il suo interesse per la filosofia come funzionale alla vecchiaia, a quella stagione della vita in cui nell’uomo si allenta la tirannia delle passioni e sempre più spazio acquista la ragione. Proprio in questo contesto si inserisce una riflessione sul rapporto intercorrente tra il modo di vivere la vecchiaia e la posizione sociale occupata: Socrate, infatti, fa notare a Cefalo che lui vive con serenità la vecchiaia perché può disporre di ingenti ricchezze [329 E], sicché la sopporta bene non tanto in forza della sua indole, quanto piuttosto perché possessore di grandi averi. A ciò segue [330 C] una riflessione socratica (che pare quasi anticipare il mito della “roba” in Verga) sul parvenu:  “mi è sembrato che tu non sia molto attaccato al denaro, atteggiamento tipico per lo più di chi non se lo sia guadagnato di persona, mentre chi se l’è guadagnato gli è affezionato il doppio degli altri”. Subito dopo [331 C], si addiviene alla definizione della giustizia, preparata dal precedente discorso sulla ricchezza: quella di Cefalo è, indubbiamente, una definizione di matrice economica, trasvalutata dalla tradizione; la cosa curiosa è che, a formularla, non è Cefalo in persona (che non è né sofista né filosofo), ma Socrate, il quale, basandosi sulle affermazioni rapsodiche del suo interlocutore, prova a metterle insieme e a formare con esse una definizione secondo cui “giustizia è dire la verità e restituire ciò che si è ricevuto da altri”. Proprio nella restituzione dei beni ricevuti da altri emerge bene la matrice economica della definizione proposta da Cefalo, una definizione che, a ben vedere, presenta molti punti di contatto con quella che Aristotele definirà come “giustizia commutativa”. Giunti a questo punto, Cefalo, dopo aver approvato la definizione suggeritagli da Socrate, si sente quasi indispettito, poiché avverte che il discorso si sta facendo troppo filosofico e astratto; è a questo punto che egli esce di scena e cede la parola a suo figlio Polemarco, il quale cita il poeta Simonide come fonte di verità cui fare costante riferimento. Così Cefalo abbandona la discussione: “lascio a voi la discussione perché debbo occuparmi dei sacrifici”. In questa maniera, il vecchio meteco dimostra, da buon tradizionalista (e i tradizionalisti hanno poca fiducia nella ragione e nella possibilità di mettere in discussione le proprie posizioni), di non avere alcun interesse per l’elaborazione astratta e per il ragionamento; egli preferisce affidarsi a ciò che Max Weber chiama “l’autorità dell’eterno ieri” (La politica come professione). La discussione prosegue comunque senza una vera interruzione, anche perché, in quanto figlio di Cefalo, Polemarco ne condivide, lato sensu, la concezione della giustizia, anche se il suo appartenere ad una nuova generazione influisce molto su di lui: a differenza del padre, il quale era per una concezione irenica, Polemarco ripropone la stessa concezione ma in termini più apertamente conflittuali. “La giustizia consiste nel rendere a ciascuno ciò che si deve”, egli dice: si tratta – è evidente – di una diretta derivazione dello “stare ai patti” di cui parlava Cefalo, anche se le diversità rispetto al padre affiorano non appena Polemarco è sollecitato da Socrate a spiegare meglio che cosa intenda dire: “colui che così ragiona, ritiene che gli amici debbano agli amici il bene, e mai  il male”, precisa Polemarco. In questo modo, l’ideologia della giustizia come rispetto dei patti si trasforma in dottrina polemica, giacché, se giustizia è dare a ciascuno il suo, allora essa diventa un giovare agli amici e un nuocere ai nemici. Si è così introdotta una spaccatura conflittuale (assente in Cefalo) dei rapporti sociali: ammettendo che il diritto e la morale debbano dirimere e prevenire i conflitti, non possiamo che rilevare come la teoria di Polemarco non risponda a tali requisiti. Essa è una concezione polemica e polarizzante della giustizia, è un do ut des. Siamo pertanto rimasti in una logica scambista (quale era quella di Cefalo), in cui è però anche previsto lo scambio violento (il nuocere ai nemici). All’improvviso, Socrate riesce a far ruotare l’argomentazione in senso sfavorevole a Polemarco e a metterlo con le spalle al muro: stando ad essa – nota Socrate -, tutto si divide in “amico” o in “nemico”, secondo una logica dell’aut-aut. Ed è significativo che, nel Novecento, Carl Schmitt abbia scritto un’opera – Il concetto del politico – in cui, dopo aver notato che la dicotomia con la quale si trova ad operare l’economista è quella utile/dannoso, quella dell’estetica è bello/brutto, della morale è buono/cattivo, rileva che la dicotomia per il politico è quella amico/nemico. Stando alla definizione data da Polemarco, tutti gli uomini si ridurrebbero in amici (a cui giovare) e in nemici (a cui nuocere), cosicché – obietta Socrate – la conseguenza immediata sarebbe il formarsi di bande mafiose che, pur giovando ai loro soci, non farebbero che nuocere a tutti gli altri. Con la sua definizione, Polemarco solleva, forse in maniera sotterranea, l’importantissimo problema del rapporto tra giustizia e politica, un problema affrontato da Platone anche nelle Leggi (libro I), dove il cittadino ateniese sostiene che la città è organizzata in vista della pace, mentre lo spartano e il cretese sostengono che essa è organizzata in vista della guerra. Socrate smaschera la posizione di Polemarco facendogli notare che la sua è una posizione contraddittoria, poiché non sempre gli amici (a cui facciamo il bene) sono giusti e i nemici (a cui facciamo il male) ingiusti: con ciò egli intende dire che la parte cui si appartiene e a cui, perciò, si tende a far del bene, può talvolta essere quella ingiusta, cosicché si finisce per fare del bene agli ingiusti e del male ai giusti. Qui comincia a scricchiolare la posizione di Polemarco, e Socrate prova a dimostrare altri effetti perversi a cui essa porta: “amico mio, guarda che gli uomini danneggiati diventano ancora più ingiusti”, egli dice. Con ciò, egli intende dire che, quanto più male arrechiamo ai nemici (e, dunque, quanto più siamo giusti, secondo la concezione di Polemarco), tanto più essi diventano nemici; stando le cose in questi termini, ne seguirà poi che il massimo della giustizia consisterà nell’annientare il nemico, proprio come avverrà nel Novecento per i nazisti o per lo stalinismo. Così Socrate conclude che “non è opera di chi è giusto danneggiare il nemico o chi altro, ma di chi è ingiusto”. Sicchè quella che Polemarco si ostina a chiamare “giustizia”, è in realtà ingiustizia bella e buona: egli, a questo punto, ne conviene e Socrate esce vittorioso; proprio quando egli ritiene di aver riportato una vittoria generale, ecco che balza in scena il feroce Trasimaco. Il suo ingresso, paragonato a quello di una fiera che stava in agguato, è descritto in maniera mirabile [336 B]:

 

Trasimaco, mentre noi parlavamo, aveva tentato più volte di intervenire nel discorso, ma poi ne era stato impedito dai suoi vicini di posto, i quali volevano ascoltare il dibattito sino alla fine; quando però, dopo le mie ultime parole, facemmo una pausa, non si contenne più, ma si raggomitolò su se stesso come una belva e si lanciò contro di noi come per sbranarci. Io e Polemarco restammo attoniti dalla paura; e lui, urlando in mezzo a tutti, disse: «Cosa andate cianciando da un po' di tempo, Socrate? Cosa sono queste concessioni e questi complimenti ridicoli che vi fate a vicenda? Se vuoi veramente sapere che cos'è il giusto, non limitarti a interrogare e non farti bello confutando quando ti si risponde, perché sai bene che è facile interrogare e rispondere, ma rispondi tu stesso e dicci che cosa intendi per giusto. Evita di dire che è il dovere, o l'utile, o il vantaggioso, o il giovevole, ma esprimi con chiarezza e precisione il tuo pensiero, poiché io non permetterò che tu mi venga a contare simili sciocchezze». All'udire queste parole io rimasi sbigottito e alzando lo sguardo su di lui provavo paura; e credo che avrei perduto la voce se non avessi visto lui prima che egli vedesse me.(16) Ma nel momento in cui cominciava a dare in smanie per il nostro discorso io lo guardai per primo, così da essere in grado di rispondergli, e gli dissi tremando: «Trasimaco, non prendertela con noi! Se io e costui sbagliamo nella nostra indagine, sappi che lo facciamo senza volerlo. Sicuramente tu pensi che, se andassimo in cerca di oro, non ci scambieremmo volentieri dei complimenti durante la ricerca, col rischio di comprometterne il risultato; a maggior ragione, dato che cerchiamo la giustizia, una cosa più preziosa di grandi quantità d'oro, non devi crederci tanto dissennati da farci delle concessioni l'uno con l'altro e da non impegnarci a fondo per portarla alla luce. Sta' sicuro di questo, amico. Ma forse non ne siamo capaci; perciò sarebbe molto più logico che voi, che ne siete capaci, provaste compassione per noi, piuttosto che indignarvi». A queste parole lui sghignazzò sardonicamente e disse: «Per Eracle, questa è la famosa e abituale ironia di Socrate! Lo sapevo, io, e l'avevo detto a costoro che ti saresti rifiutato di rispondere e avresti fatto dell'ironia su tutto piuttosto che rispondere, se uno ti avesse interrogato!».

 

Fino a quel momento, egli non era riuscito ad intervenire nel dibattito perché tenuto a freno, con qualche difficoltà, dai suoi vicini; egli entra in scena ex abrupto, come una fiera intenzionata a sbranare gli altri interlocutori, senza esitare a qualificare come fandonie quanto è stato fino a quel momento detto circa la giustizia. Egli è particolarmente duro contro Socrate, del quale critica, senza mezzi termini, il metodo di domanda e risposta (in particolare, rinfacciandogli che è assai più facile interrogare senza rispondere) e la ben nota ironia socratica. È interessante il fatto che, di fronte a Trasimaco, Socrate provi quasi paura e tremi un poco: è lo scontro tra la solare razionalità socratica e la ferinità passionale del sofista, che cade nella trappola delle lusinghe di Socrate e finisce per prendere la parola e definire la giustizia. Il nome stesso di Trasimaco ne disvela l’essenza: esso è infatti composto da qrasuV, letteralmente “ardito”, e mach, che significa “battaglia”, sicchè il suo nome può essere tradotto con “ardito in battaglia”. Con Cefalo e Polemarco, Socrate non aveva fatto grande fatica e aveva liquidato in breve le loro posizioni, che peraltro essi avevano sostenuto non con troppa energia. Trasimaco, invece, è un osso duro, è tenace e ha un suo certo rigore analitico nel ragionare. Due sono le tesi di cui egli è corifeo: 1) “io sostengo infatti che il giusto non è se non l’utile del più forte(fhmi gar egw einai to dikaion ouk allo ti h to tou kreittonoV sumferon) [338 C]; 2) la vita dell’uomo ingiusto è superiore a quella dell’uomo giusto, nel senso che è più felice e migliore. Socrate contrasta entrambe queste tesi pericolose e, per ciascuna di esse, egli adotta una strategia piuttosto complessa, articolantesi in due punti: alla prima tesi (il giusto come utile del più forte), egli oppone quella secondo cui il giusto è ciò che giova ai più deboli (e non ai più forti), ossia a chi è subordinato. Socrate avvalora questa posizione adducendo più esempi, tra i quali quello del medico: il medico è sicuramente superiore rispetto al malato, ma ciò non di meno egli finalizza il suo agire al bene e alla guarigione del paziente; similmente, il più forte deve agire in vista del più debole. A ciò Trasimaco, inferocito, ribatte con un altro esempio: il pastore, che sta a capo del gregge, fa unicamente il proprio utile, mai quello del gregge; e così deve essere anche in ogni altra situazione. Se assunta a massima, la tesi di Trasimaco porta a quella che potremmo definire una “contraddizione performativa”, ossia ad una contraddizione che finisce per danneggiare lui stesso: infatti, se la giustizia è definita in base all’utile del più forte, non si può non constatare che la forza è un qualcosa di instabile e transeunte, dal che deriva una serie di conseguenze assurde. Nella giovinezza si è forti, ma, nell’invecchiare, tale forza viene meno; similmente, all’interno della poliV, a fazione più forte può essere ora quella democratica, ora quella oligarchica, e nel momento in cui prevarrà una, si imporrà una certa forma di giustizia; quando prevarrà l’altra, si imporrà un’altra forma. Ne segue allora (e qui sta la suddetta contraddizione performativa) che la giustizia varierà senza tregua al variare incessante dei rapporti di forza, il che produrrà una vistosa instabilità e un alto tasso di entropia nella poliV stessa. Se poi ciò che giova al più forte contrasta con l’utile del più debole e del soggiogato, allora verrà meno ogni stabilità politica e si solleverà la stasiV e, come patologia strutturale, il relativismo dei valori. Nell’affrontare la seconda tesi (quella secondo cui l’uomo ingiusto è più felice), Socrate la capovolge: a suo avviso, infatti, è superiore la vita dell’uomo giusto, mentre quella dell’ingiusto è massimamente deprecabile e infelice. A questo punto, l’argomento si sdoppia: in primo luogo, Socrate tenta di smascherare la posizione trasimachea in maniera pragmatica, dimostrando che non è affatto vero che l’uomo giusto ottiene meno di quello ingiusto; lo dimostra adducendo l’esempio di una banda di briganti: un tale manipolo di uomini si propone un’impresa ingiusta quale può essere una rapina, ma – e qui sta il punto saliente – non la può compiere se anche all’interno della banda stessa vige l’ingiustizia. Se infatti i briganti della banda si comportassero senza giustizia anche tra loro, allora finirebbero per soverchiarsi l’un con l’altro e l’impresa non potrebbe mai andare a buon fine. Occorre dunque che essi si diano delle regole e che le seguano: occorre cioè che seguano un criterio di giustizia interna alla loro banda. In questa maniera, Socrate ha demolito, almeno sul piano pragmatico, l’argomento fatto valere da Trasimaco. A questo punto, il filosofo prova ad attaccare il sofista anche impiegando un argomento eudemonistico: non è vero che il giusto è meno felice dell’ingiusto, giacchè nel caso dell’uomo più ingiusto che ci sia – cioè il tiranno -, la sua è una vita miserabile perché costantemente oppressa da paure (tanto dei nemici quanto degli amici, dei subordinati e degli alleati) e, dunque, colma di infelicità. È interessante il fatto che Socrate citi il tiranno, una figura che peraltro compare – come sventurata in massimo grado – anche all’interno del mito di Er: verso di esso, i Greci nutrivano sentimenti ambigui e contrastanti, giacché per essi era, da un lato, il prototipo dell’uomo efferato e crudele, degno di essere combattuto e spodestato (nasce da qui una ricca letteratura anti-tirannica); ma, dall’altro lato, verso il tiranno i Greci provavano anche un forte sentimento di invidia, per via delle sue straordinarie possibilità agli altri precluse. Questa concisa notazione storica ci aiuta a capire quella certa ambiguità che, nei confronti del tiranno, anima Platone stesso, il quale, quando nei libri successivi tratteggia la sua utopica kallipoliV, sa bene che, per realizzarla, non bastano i sofoi, bensì ci vuole il pugno d’acciaio di un uomo di potere come il tiranno, che sappia dominare con la forza le genti. Del resto, i numerosi viaggi di Platone in Sicilia che altro sono se non un vano tentativo di convincere il tiranno di Siracusa a realizzare quella “città ideale” che mai potrà affermarsi col favore del popolo? Nel II libro della Repubblica, l’argomento della giustizia continua ad essere dibattuto, anche se prende una piega un po’ diversa: interviene Glaucone e la discussione comincia ex novo, anche in virtù del fatto che la discussione tra Socrate e Trasimaco era approdata ad un nulla di fatto; in particolare, si imbocca ora una via genealogica, tentando di ricostruire come si siano formate le concezioni della giustizia invalse nella poliV [358 E]:

 

Ascolta ora il primo argomento che avevo preannunciato, ovvero che cos'è la giustizia e da dove nasce. Si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il subirla un male, e che il subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla; di conseguenza, quando gli uomini commettono ingiustizie reciproche e provano entrambe le condizioni, non potendo evitare l'una e a scegliere l'altra sembra loro vantaggioso accordarsi per non commettere né subire ingiustizia. Di qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra loro e a dare a ciò che viene imposto dalla legge il nome di legittimo e di giusto. Questa è l'origine e l'essenza della giustizia, che sta a metà tra la condizione migliore, quella di chi non paga il fio delle ingiustizie commesse, e la condizione peggiore, quella di chi non può vendicarsi delle ingiustizie subite. Ma la giustizia, essendo in una posizione intermedia tra questi due estremi, viene amata non come un bene, ma come un qualcosa che è tenuto in conto per l'incapacità di commettere ingiustizia; chi infatti potesse agire così e fosse un vero uomo, non si accorderebbe mai con qualcuno per non commettere o subire ingiustizia, perché sarebbe pazzo. Tale, Socrate, è dunque la natura e l'origine della giustizia, secondo l'opinione corrente.

 

Questo passo è assai importante perché ci presenta una genealogia antropologicamente fondata delle leggi: agli uomini piace commettere ingiustizia, ma questo è un piacere inferiore rispetto alla sofferenza che essi provano nel riceverla, tanto più che quelli che si possono permettere il lusso di fare ingiustizia agli altri sono una netta minoranza; i più, infatti, subiscono l’ingiustizia senza commetterla. E pertanto le leggi nascono come convenzione tra i deboli volta a non patire più le ingiustizie perpetrate dai più forti, avendo esperito che è più doloroso patire l’ingiustizia di quanto non sia piacevole farla; è con questa riflessione platonica che nasce, in nuce, quel contrattualismo che giungerà fino all’età moderna, incentrato sulla convinzione che la società civile nasca per una statuizione siglata con un patto. Non si entra in società perché si aborre, sul piano morale, la violenza: è anzi un piacere farla, nota Platone; tuttavia è un piacere ancora maggiore non subirla, anche alla luce del fatto che sono assai più numerose le occasioni in cui la subiamo rispetto a quelle in cui la commettiamo. In tale prospettiva (che sarà oggetto di critiche durissime da parte di Nietzsche), il tiranno suscita un sentimento di invidia proprio perché è colui che può commettere ingiustizia a volontà senza mai subirne. Dopo questa digressione, torniamo al primo libro e alla tenzone tra Socrate e Trasimaco: la prima tesi sostenuta dal capzioso sofista ha carattere spiccatamente politico e ci fornisce una fondazione elementare di quello che sarà poi detto “positivismo giuridico” nella sua forma più cruda. Se guardiamo alla tradizione giuridica dell’occidente, troviamo una contrapposizione tra il “positivismo giuridico” stesso e il “giusnaturalismo”. Il primo è quella concezione secondo cui le norme che organizzano la convivenza sono il frutto della volontà di chi è superiore, ossia di chi ha il potere di fatto; in questo senso, non vi sono mala in se, ma vi sono soltanto mala quia prohibita. Per il giusnaturalismo, oltre alle leggi prodotte dalla volontà di chi comanda, vi sono anche leggi naturali, che sono superiori alle prime e da cui anzi queste ultime dovrebbero discendere (nel caso in cui si oppongano ad esse, diventa legittima la ribellione, secondo certe correnti di pensiero) tali leggi per natura sono designate dai Greci con l’espressione agrafoi nomoi, ovvero “leggi non scritte”. Per meglio intendere questa distinzione che sta al cuore della tradizione giuridica dell’Occidente, possiamo guardare all’Antigone di Sofocle: lo scontro tra Antigone e il sovrano Creonte per la sepoltura del caduto in battaglia simboleggia appunto uno scontro tra leggi naturali e leggi positive (oltrechè, nella lettura hegeliana, uno scontro tra famiglia e Stato), nella misura in cui Creonte proibisce la sepoltura sulla base delle leggi da lui fatte valere, mentre Antigone ad esse si oppone in nome di una legge non scritta anteriore e più alta di quella di Creonte; ella può del resto invocare la divinità come sua garante. In quest’accezione testé illustrata, la disputa tra Trasimaco e Socrate si risolve in una disputa tra un (rudimentale) positivista giuridico (Trasimaco) e un preparatore del terreno a quel giusnaturalismo (Socrate) che troverà in Aristotele (nella misura in cui egli parla di “giusto per natura”) il suo primo sistematore in senso pieno. La discussione trapassa poi [338 D] in un’analisi dei risvolti politici del positivismo giuridico: interrogandosi sulla tecnica di governo, Socrate sostiene che essa deve essere nell’interesse non già di chi comanda, bensì di chi è comandato [342 B] e, per questa via, la discussione scivola sulla seconda questione, quella di carattere morale. Trasimaco, preso nella morsa della dialettica socratica, avverte di essere in difficoltà e, per ciò, si oppone citando il caso dei pastori [343 B] come negazione di quanto fatto valere da Socrate: come i pastori per le greggi, così i capi per le città mirano al proprio utile, cosicché ciò che per loro è utile, per i più è ingiusto in quanto nocivo.

 

Perché tu credi che i pastori o i bovari mirino al bene delle pecore o dei buoi e li ingrassino e li curino con uno scopo diverso dal bene dei padroni e loro proprio. E così pensi che anche i governanti degli stati, intendo i governanti nel vero senso della parola, siano rispetto ai sudditi in uno stato d’animo assai diverso da quello che si può avere rispetto a pecore”.

 

Si è, a questo punto, aperta un’insanabile divaricazione di punti di vista: ciò che per i governanti è giusto (perché a loro utile), per i governati sarà ingiusto (in quanto a loro nocivo), e viceversa. Comincia ora la discussione eudemonistica: ad essere felice è l’ingiusto o il giusto? L’ingiusto – argomenta Trasimaco – sa trarre vantaggio dalle opportunità che la vita sociale gli offre, senza farsi scrupoli o sensi di colpa; in questo senso, la tirannide si configura come l’apice della felicità e il tiranno come l’uomo più felice. Infatti, se la frode e la violenza sono una costante imprescindibile della vita sociale, ma sono comunque impiegate come mezzi da usarsi con moderazione, al contrario nella tirannide sono invece utilizzate a trecentosessanta gradi, cosicché l’ingiustizia ha più forza, più indipendenza e più potere rispetto alla giustizia. Trasimaco, ripetitivo come non mai, perde addirittura la pazienza [345 B] e, di fronte a un Socrate che non si lascia persuadere dalle sue tesi, vorrebbe ficcargli nell’anima, come un chiodo, il suo ragionamento. Socrate argomenta che la tesi di Trasimaco starebbe in piedi se davvero i singoli che commettono ingiustizia ottenessero la felicità; invece – egli argomenta – l’ingiusto non fa che produrre danno e, con esso, infelicità. Alla fine, il filosofo dimostra che l’ingiustizia radicale si rivela fallimentare, ma non riesce tuttavia a dimostrare né che esista una giustizia universale, per tutti valida, né che un mix di giustizia e ingiustizia sia anch’esso fallimentare. Infatti, per riprendere l’esempio del testo, la banda di briganti che si dà delle regole e le rispetta (dunque seguendo una giustizia interna), ma poi va a compiere rapine (e dunque commette ingiustizia) e riesce in tale impresa, agirà sì ingiustamente, nella prospettiva socratica, ma ciò non di meno conseguirà la felicità quando metterà le mani sull’agognato bottino. In sostanza, Socrate non riesce, in questo primo libro, a dimostrare che tra i due estremi – il giusto come utile al più forte e il giusto come utile a tutti – non vi possa essere una posizione intermedia ed è per questo motivo che il secondo libro si apre come bilanciamento tra chi sostiene che è bello commettere l’ingiustizia e chi invece sostiene che è più bello ancora non subirla. Del resto, la debolezza dell’ argomento socratico risiede anche nel fatto che, con esso, è sì smontato Trasimaco, ma non è per ciò dimostrata l’esistenza di una giustizia universale; si dimostra piuttosto l’esistenza di una giustizia particolare e localistica, che vale all’interno di una banda di briganti in accordo fra loro: essi, infatti, rispetteranno sì le regole che si sono dati non prevaricandosi gli uni con gli altri, ma contro chi è esterno alla loro banda commetteranno ogni sorta di nefandezza e di ingiustizia. E, pur comportandosi in maniera ad un tempo giusta (verso i membri della banda) e ingiusta (verso tutti coloro che alla banda sono esterni), otterranno la felicità. Il dialogo si chiude dunque aporeticamente, senza che si sia raggiunta una conclusione; da ciò possiamo evincere che la posizione di Platone non si identifichi, in questo caso, tout court con quella inconcludente di Socrate; piuttosto, essa andrà via via costruendosi nel seguito dell’opera.                    

 


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