Un’analisi critica del postmoderno

 

Di Antonietta Pistone

 

Il postmoderno nasce storicamente dopo la seconda guerra mondiale, e segna la caduta di ogni certezza umana. I filosofi che si fanno interpreti di questa crisi caratterizzano il passaggio da una speculazione sistematica ad una tipologia di riflessione che Gianni Vattimo designa col nome di “pensiero debole”. La mancanza di fondamenti ontologici in risposta alle domande fondamentali che l’uomo da sempre si pone sulla sua esistenza e sul senso della vita, si definisce come crisi della metafisica tradizionale, e determina uno svuotamento del compito della filosofia come scienza della conoscenza. La caduta del paradigma metafisico culmina in una sostanziale crisi dei valori etici, che Nietzsche  preannuncia con il nichilismo. L’uomo, che ha ucciso il suo proprio Creatore, ha distrutto con Dio tutti i valori della morale cattolica. Il vuoto etico che ne consegue deve di necessità essere colmato da una nuova morale. L’opera immaginata dal filosofo si rivela  però difficile all’atto della sua realizzazione pratica, per la resistenza mostrata dal popolo a darsi nuove norme. Ne deriva perciò il vuoto permanente della crisi dei valori tradizionali. Trattasi di quel deserto di senso che Husserl prospetta come orizzonte bisognoso di essere colmato dall’uomo contemporaneo, grazie all’aiuto dei filosofi. Bisogna restituire compiti di responsabilità all’uomo della storia, che deve pretendere di ritornare ad essere protagonista del suo percorso esistenziale. Il postmoderno si definisce come l’epoca che ha perso la memoria storica della sua identità, e che ha appiattito la linearità dei tempi del passato e del futuro riconducendoli al solo presente, senza radicamento né continuità. La Weil ne’ La prima radice scrive pagine di filosofia e politica quando descrive la distruzione di Parigi, completamente bombardata dai Nazisti di Hitler nel 1940. E attraverso la guerra, che è sinonimo di violenza e di distruzione, riscopre i valori del radicamento nella pace, nel lavoro, nella memoria del passato, nell’arte, nel recupero del territorio e del contesto originario di appartenenza. Valori che l’uomo postmoderno pare aver smarrito, ma che vanno invece recuperati perché soltanto attraverso la costruzione di forti idealità territoriali è possibile  travalicare l’angusto limite del personale campanilismo dei popoli, e permettere l’edificazione di una mentalità ecumenica in prospettiva multietnica. Ciò che manca oggi, ai cosiddetti intellettuali, è la capacità di rimettersi in gioco e in discussione in modo critico e costruttivo. Sebbene la contemporaneità abbia segnato il tramonto della cultura dogmatica, si assiste di continuo a comportamenti che pongono in essere una fastidiosa resistenza contro le aperture della mente, proficue e vantaggiose per la dialettica dell’argomentazione e dell’incontro. Si finisce per rimuginare sempre gli stessi pensieri, rimestando nel calderone della filosofia senza produrre visioni innovative, costruttive e progettuali per il futuro. Necessitiamo di un nuovo pensiero, che abbia il coraggio di osare. “Sapere aude…”, diceva Kant, esortando ad avere il coraggio di servirsi fino in fondo della propria ragione. Anche Freud, con la sua scoperta dell’inconscio, ha rappresentato l’emergenza della contemporaneità, fuori dagli schemi precostituiti dalla logica sistematica e sequenziale. E Marx, con il concetto di lotta di classe e di rivoluzione cruenta, ha interpretato la storia come prassi e lavoro dell’uomo, riportando l’attenzione degli studiosi sugli aspetti pragmatici del divenire. Queste sintesi filosofiche non sono bastate a riempire il vuoto dei valori, che ha sostituito alla morale cattolica dell’Assoluto il relativismo esistenziale senza certezze. L’uomo postmoderno è un ibrido che ha perso la sua identità, che si aggira come uno spettro in città non luoghi, dove anche le forme architettoniche degli abitati sono un insieme disomogeneo e confuso di tutti gli stili del passato e del presente. Anche l’universo dell’informazione si è grandemente implementato attraverso le nuove tecnologie, contribuendo a costituire quella multiformità del mondo globale in cui si fondono vicino e lontano le culture delle nuove frontiere del glocalismo. Pare, perciò, che l’uomo contemporaneo possa al più farsi interprete della complessità del reale, non avendo la capacità effettiva di imporsi come attivo creatore di nuovi pensieri. Rorty, a questo proposito, pensa all’ermeneutica come alla sola possibilità, per la filosofia, di riemergere dal vuoto insignificante di senso in cui sembra precipitata ormai da troppo tempo. Nel circolo ermeneutico della precomprensione l’uomo gioca tutto se stesso per interpretare il mondo e la sua attuale complessità. L’ermeneutica filosofica si propone anche come possibile approccio per l’interpretazione della polisemia dell’opera d’arte e del testo letterario. Cinema e letteratura si fanno sempre più strumenti evidenti del pensiero contemporaneo, veicolato attraverso metafore estetiche e poetiche. Il cinema, come la pittura, grazie al suo linguaggio visivo concilia il pensiero astratto con la vita, attraverso l’uso di concetti immagini che permettono di creare un clima di empatia tra l’opera rappresentata e gli spettatori in sala, mostrando, attraverso effetti fantastici e surreali, una visione quasi onirica ed inconscia della realtà, che si fonde con riflessioni psicologiche e sociologiche sulla condizione umana. Personaggi emblematici della nostra epoca vengono a tratti a comparire sulla scena, per toccare, senza tuttavia approfondire, determinati aspetti della contemporaneità. È il trionfo delle banalità, che non soddisfa lo spettatore proprio perché ripropone la superficialità, la frammentarietà e la schizofrenia dell’uomo postmoderno. L’individualismo, come crisi del collettivo, è il ritorno alle miserie del privato dopo la sconfitta del politico. Ma quelle miserie non piacciono e non appagano. Vanno, perciò, tenute ben nascoste, e al riparo da sguardi indiscreti. La letteratura contemporanea ripercorre il dramma di un uomo senza luogo e senza tempo, psichicamente frustrato, e incapace di comunicare il suo dolore, la sua inettitudine a vivere in un mondo che pure egli stesso ha costruito, che popola città invisibili, perso dietro la sua propria solitudine, senza un Dio che implichi un approdo. Il futuro che è doveroso sperare è un’ultima frontiera per una nuova ragione dialogante, argomentativa ed etica, in cui si ponga come obiettivo per tutti l’incontro delle civiltà e l’integrazione culturale, e in cui la poesia riacquisisca il valore pedagogico di strumento educativo forte, presentando valori intramontabili per gli uomini di tutti i tempi. L’incontro con l’altro può annullare la distanza dell’incomunicabilità. La lirica può oggi affondare in profondità insospettabili per la ragione filosofica. “Solo un dio ci può salvare…”, diceva Heidegger, e la filosofia deve assumersi il compito oneroso di edificare una nuova etica dei valori, che aborrisca tanto l’assoluto e il dogma quanto il nichilismo e il vuoto di senso e di significato.

Antonietta Pistone

Docente di storia e filosofia

Articolo edito sul Provinciale di Foggia, anno XVIII-n.7-8, luglio-agosto 2006


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