KANT


 

 

Immanuel Kant si occupa della religione e della preghiera in almeno tre luoghi della sua vasta produzione, anche se tale tema non ha ricevuto dagli studiosi una degna attenzione, Nell’occuparsi della religione, il filosofo tedesco attua un’estensione applicativa delle sue tesi di filosofia teoretica e di filosofia morale, muovendosi con grande prudenza e con oscillazioni (e non solo per timore della censura prussiana).

I testi di cui è necessario occuparsi per affrontare la problematica della preghiera in Kant sono una nota della Religione entro i limiti della semplice ragione (1794), un paragrafo delle Lezioni di etica e un testo significativamente intitolato Das Gebet (La preghiera).

Nella Religione entro i limiti della semplice ragione, Kant si sofferma sui mezzi della Grazia (culto, sacramenti, frequentazioni della Chiesa), ricompresi nella “fede illusoria” dei miracoli e dei misteri:

 

“la preghiera intesa come culto divino interiore e formalistico, e perciò come mezzo della grazia, è un’illusione superstiziosa (un feticismo”. In questo senso, infatti, essa è semplicemente l’espressione dei nostri desideri fatta a un Essere che non ha nessun bisogno di vedere espresso il sentimento religioso del soggetto desiderante”. 

 

Kant non rimprovera alla preghiera di essere desiderio (cioè un domandare in vista del proprio interesse), dice piuttosto che essa è espressione inutile di un desiderio: è feticismo e superstizione perché pretende di essere efficace presso Dio e di “ottenere effetti soprannaturali con mezzi del tutto naturali”. Il filosofo tedesco rifiuta non il desiderare qualcosa da Dio (il desiderio è ineliminabile dall’uomo), bensì il pretendere di ottenerlo direttamente e senza impegno morale. Non accompagnata dall’impegno morale, la preghiera è secondo Kant inazione, mera passività deprecabile perché si accompagna all’idea che ne segua ciò che per attuarsi richiede invece la buona volontà. La preghiera è feticismo perché sostituisce la pigrizia alla buona volontà morale: a tal proposito, Kant oppone alla preghiera lo “spirito di preghiera”, il quale si ha quando prevale il desiderio intimo di rapportarsi a Dio nell’agire morale, l’essere graditi a Dio tramite le nostre azioni in una relazione che Paolo definiva “ininterrotta”. Sicché, per Kant, pregare non è un disporsi in certi momenti con formule, ma è piuttosto un ininterrotto essere moralmente attivi nelle intenzioni. E lo spirito della preghiera esclude paradossalmente la preghiera, che di per sé, nella lettera, è inutile. Lasciar cadere la lettera della preghiera vuol dire affermare l’inutilità della sola parola: riferendosi alla lettera della preghiera, Kant aggiunge che “la lettera indebolisce l’azione e l’idea morale”. Eppure la disposizione nell’uomo all’adorazione di Dio porta Kant ad ammettere che la preghiera possa sgorgare da una saggezza sui generis, da uno stupore che ha qualcosa del “sublime dinamico”. In questo modo sembra un po’ oscillare il rapporto tra morale e religione fatto valere nella Critica della ragion pratica, ove si affermava la derivazione della religione dalla moralità. Nelle Lezioni di filosofia della religione (i quattro corsi universitari che Kant tenne tra il 1783 e il 1784) si rinviene in più passaggi un rapporto tra morale e religione ben più complesso di quello descritto nella Critica della ragion pratica: certo, la morale non può fondarsi sulla religione, ma senza quest’ultima l’agire morale risulterebbe impossibile per l’uomo (in questo senso, la religione diventa un ausilio indispensabile).

Qual è l’oggetto della “adorazione” (Anbetung)? L’operare di Dio nella natura e, soprattutto, la saggezza, la maestà, i predicati morali che qualificano Dio nel suo rapporto col mondo. In tale adorazione, la preghiera non è vana verbosità, ma serve anzi a rinsaldare l’azione morale dell’uomo.

Nella Critica della ragion pratica, dopo aver introdotto il postulato dell’esistenza di Dio, Kant diceva esplicitamente che l’ordine morale di Dio lo rende oggetto di adorazione. V’è dunque una chiara dimensione morale dell’adorazione della perfezione morale di Dio: e se Dio è l’ideale della potenza completamente realizzata della morale, allora l’atteggiamento dell’uomo nei suoi confronti deve essere affrancato da tutto ciò che pare far pensare a un’impotenza della morale (culti, miracoli, preghiere). Tutti gli atti religiosi tradizionali (e soprattutto la preghiera), tuttavia, non devono essere rigettati (Kant non è un deista), ma piuttosto epurati.

Nella Critica della ragion pratica, Dio è inteso come potenza che rende conforme la natura alla legge morale e tra i vari attributi che a Lui possono essere rivolti ce ne sono tre peculiari: beatitudine, saggezza, santità. Anche di questo, Kant aveva già discusso nelle Lezioni di filosofia della religione: in esse, Dio era inteso come giudice morale. Un Dio che l’uomo senta come giudice morale deve essere un perfetto conoscitore del cuore umano e non deve sfuggirgli nulla: è a tale conoscitore che si rivolge ininterrottamente lo spirito della preghiera di cui si dice nella Religione entro i limiti della semplice ragione. Dunque la preghiera può sussistere come richiesta di aiuto, ma di aiuto morale: e ogni altra richiesta contraddirebbe la legge morale. Così, chiedere aiuto senza esercitare impegno morale equivale a commettere la peggior forma di male, la menzogna. L’unico modo in cui Dio è presente in noi è come idea dell’assoluta autonomia della morale, quasi come se nell’uomo ci fosse un divino a priori (in ogni uomo c’è un “minimum theologiae” dice Kant). Sembra tuttavia che all’orizzonte appaia un dubbio circa l’esistenza di Dio, poiché là dove non vi fosse il dubbio, potremmo abbandonarci alla preghiera senza tema di immoralità (e del resto l’esistenza di Dio, in Kant, riguarda la sfera dello sperare, non del conoscere): ma il tarlo del dubbio non fa che rinforzare lo spirito della preghiera, mentre la lettera della preghiera vorrebbe la certezza teoretica dell’esistenza di Dio per potersi abbandonare all’inoperosità. La lettera della preghiera pretende di agire su Dio per ottenerne l’intervento: essa è dunque sempre insincera, mentre nello spirito della preghiera agisce quel dubbio che garantisce la sincerità e, di conseguenza, l’autenticità morale. Detto in altri termini, il dubbio teoretico apre alla sincerità morale, rendendo l’uomo più padrone delle proprie azioni e più attivo.

Questa tematica è centrale anche nello scritto La preghiera, uno scritto non databile ma sicuramente riconducibile a un periodo compreso tra il 1788 e il 1790 e contenuto nelle Reflexionen kantiane: queste ultime, che sono state così intitolate dagli editori che a partire dal 1900 hanno iniziato a ordinare gli scritti kantiani, sono le annotazioni che Kant prendeva, spesso datandole, e nelle quali scriveva pensieri sugli argomenti più svariati, tra i quali la filosofia della religione. Si tratta di scritti destinati non alla pubblicazione, bensì all’uso personale e, in forza di ciò, presentano una punteggiatura sommaria, mancano di verbi, sono scritti con una grafia non di rado indecifrabile. Come dicevamo, nelle Reflexionen abbondano le annotazioni circa la filosofia della religione (sono ricorrenti temi come l’immortalità, Dio, il mondo futuro). Nel testo La preghiera vengono tassativamente esclusi gli effetti soprannaturali della preghiera,alla luce del fatto che l’uomo, ignorando quale sia la natura di Dio, non può farGli richieste precise. A rigore, non si può nemmeno parlare di “effetti naturali esterni” della preghiera,ma soltanto di “effetti naturali interni”, i quali hanno indubbiamente una positività psicologica: occorre tuttavia chiedersi se abbiano anche una positività morale. In particolare, Kant insiste molto su come si debba stare in guardia dal trasformare la preghiera in un monologo col quale si estenua la propria intenzione morale spaccando, come si suol dire, il capello in quattro e svuotando di forza l’azione veramente morale, la quale nella prospettiva kantiana è la cosa che più conta. Il rischio è infatti quello dell’autismo psicologico mascherato dietro a un presunto dialogo con Dio, autismo a cui fa seguito un’immancabile ipocrisia scaturente dal trasporre sul piano teoretico un contenuto che deve essere esclusivamente morale: l’esistenza di Dio. L’ipocrisia che si annida nella preghiera è allora quella di pregare un Dio della cui esistenza non si dubita affatto, attribuendo un valore morale a un vuoto parlare che è soltanto psicologico. In quest’ottica, Kant tende ad escludere a ogni forma del pregare esteriore la certezza morale che dovrebbe sempre guidare l’azione di chi non è ipocrita. Quella di chi prega ipocritamente è, a ben vedere, una situazione contraddittoria: infatti, egli sa che il suo dovere è l’agire morale e tuttavia si affida a un pregare verbale che contrasta con la legge morale e “rende a Dio un cattivo servizio”. Il rischio della preghiera è allora che in essa si annidi la somma menzogna. Kant conclude il suo scritto mettendo in luce come chi è veramente progredito nella legge morale cessi di pregare: non per orgoglio, ma perché ormai in grado di vedere la presenza di Dio nella legge morale.

È a questo punto che dobbiamo prendere in esame il commento kantiano (svolto nella Religione entro i limiti della semplice ragione) del “Padre nostro”, preghiera che per il nostro autore costituisce un caso sui generis perché esprime una disposizione autentica e pienamente morale nel rapporto con Dio: per tale ragione, questa preghiera deve essere accettata senza remore. Col “Padre nostro” è possibile parlare a Dio, l’importante è non assumere troppe mediazioni: è una preghiera che si configura come inno alla volontà morale e, insieme, come condanna della vanità di tutte le altre preghiere. Il “Maestro del Vangelo” (così viene definito Gesù, inteso come modello di perfezione morale) ha espresso in modo eccellente il vero spirito della preghiera, richiedendo soltanto una buona condotta morale che renda degni membri del Regno di Dio (quella che Kant chiama la “Chiesa invisibile”), al quale si accede per meriti e non per grazia. Nel “Padre nostro” non compare alcuna richiesta di beni materiali ed esteriori: v’è piuttosto un desiderio che produce il suo stesso oggetto, ossia accedere al Regno di Dio, esserGli graditi. Sorge però un problema interpretativo quando, nel testo del “Padre nostro”, si parla di “pane quotidiano”: non è forse una richiesta materiale che smentisce la lettura kantiana? Per sfuggire a questa possibile critica, Kant spiega come il “pane quotidiano” debba essere inteso come richiesta che la nostra natura animale venga sopita affinché l’azione morale non venga disturbata dai bisogni esteriori. Kant si sofferma poi sul criterio fondamentale che il “Padre nostro” rivela: perché sia morale, una preghiera deve essere inesaudibile, poiché altrimenti si tenterebbe di forzare la volontà divina. Pertanto, la preghiera non può pretendere di fare miracoli: è essa stessa un miracolo interno (il passaggio dal cattivo principio a quello buono) e deve guardarsi dal pretendere di ottenere qualcosa nell’ambito della natura o, peggio ancora, di coordinare il volere di Dio.

Quanto abbiamo finora detto riguarda la preghiera privata. Ma Kant si occupa anche della preghiera pubblica nelle Lezioni di etica, tenute in più anni presso l’università di Königsberg. Non si tratta di una trattazione pregnante come quella della Religione entro i limiti della semplice ragione,ma è comunque utilissima per comprendere la posizione kantiana in materia di culto esterno. Si ribadiscono temi già affrontati altrove e si tratta anche dell’importanza della preghiera ai fini etici per “accendere la moralità all’interno dei cuori”: in particolare, la preghiera dev’essere un rimettersi alla saggezza di Dio e, lungi dal presentare contenuti determinati, deve essere universale. Nella fattispecie, la preghiera collettiva in cerimonie pubbliche – quella che avviene in quella che nella Religione entro i limiti della semplice ragione è detta la “Chiesa visibile” –, sia pure su un piano inferiore ed educativo, ha una sua efficacia, ha valore come mezzo perché nella collettività, nota Kant, ciascuno guarda e ascolta l’altro e se vi vede una disposizione religiosa autentica può potenziare la propria, in un infinito gioco di rispecchiamento tra i soggetti partecipanti alla cerimonia. Ciò non di meno, le intenzioni morali sono superiori ai culti esterni di devozione, i quali non devono essere impiegati come “cerotti per la coscienza” tramite i quali mettersi in pace la coscienza senza sforzarsi di compiere azioni moralmente rette.  

 

 


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