HEGEL


 

 

 

Hegel rappresenta il punto estremo del trionfo del principio di immanenza. Il motto del suo pensiero in ambito religioso è che Dio è nell’uomo. In Hegel, il problema religioso è centrale dagli Scritti teologici giovanili, i quali sono animati dal tentativo di comprendere il nesso tra il finito e l’infinito, fino al “sistema” compiuto, nel quale il Cristianesimo viene tradotto nel “sapere assoluto” della filosofia in un rapporto che è, insieme, di conservazione e di superamento, secondo l’accezione del termine tedesco Aufhebung. Proprio in quanto è il culmine della religione, il Cristianesimo è il punto in cui essa si toglie come religione e trapassa in filosofia: e non a caso la Trinità cristiana corrisponde in pieno al ritmo triadico del movimento dialettico dello spirito. Nella prospettiva hegeliana, la filosofia e il Cristianesimo hanno lo stesso contenuto (il sapere assoluto), ma lo esprimono in forme differenti: se la religione fa ricorso alla “rappresentazione” (Vorstellung) dell’Assoluto, la filosofia lo esprime nella più alta forma del “concetto” (Begriff), il quale afferra e unifica facendo venir meno la distanza propria della rappresentazione religiosa.

È in questa luce che occorre leggere lo sviluppo del pensiero hegeliano sulla filosofia della religione dagli Scritti teologici giovanili fino alle Lezioni sulla filosofia della religione: in Hegel, la religione è soggetta a un processo di assorbimento da parte della ragione in un’immanenza che, rispetto a Fichte e a Schelling, è portata alle sue estreme conseguenze. Nello scritto giovanile La vita di Gesù (1795), la prospettiva è ancora kantiana e viene privilegiato l’insegnamento morale del Cristo in vista del “culto purificato di Dio”, culto che porta a scoprire che “la ragion pura è la divinità stessa che insegna all’uomo a conoscere la sua destinazione”.

Nel successivo Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino (1795), Hegel legge la preghiera in chiave etica. Dobbiamo però soffermare l’attenzione sulla prospettiva finale del sistema, perché è lì che si consuma la conciliazione del divino e dell’umano nell’assoluto, una conciliazione che implica il riassorbimento dialettico della religione cristiana (e dunque anche delle altre) nella ragione, quest’ultima intesa come identità compiuta di reale e razionale. Nello “Spirito assoluto”, ogni forma rappresenta un momento dialettico della relazione tra il finito e l’infinito: nell’arte, l’infinito è calato nel finito; nella religione, v’è opposizione tra i due; infine, nella filosofia, il finito è fuso nell’infinito. Ogni forma trapassa nella successiva quando ha raggiunto la sua perfezione, la quale è anche la sua negazione come forma particolare: così la religione, una volta giunta al suo culmine (che è il il Cristianesimo), si toglie e trapassa in filosofia, proprio perché il Cristianesimo (che è la “religione assoluta”) è intrinsecamente dialettico e dice già, nella Trinità, la dialettica, la quale è la forma saputa della filosofia. Il dogma trinitario che è il cuore del Cristianesimo è assunto a schema logico del ritmo dialettico della filosofia.

Il terreno su cui Hegel si muove risulta ben definito se si volge lo sguardo ai quattro corsi (1821, 1824, 1827, 1831) di filosofia della religione che egli tenne a Berlino e che furono pubblicati postumi dai suoi allievi sotto il titolo di Lezioni di filosofia della religione. L’oggetto della filosofia della religione è “ciò che è assolutamente vero”, è “la regione dell’eterna verità”, nella quale “lo spirito si sgrava di ogni finitezza”; Hegel dice che la religione è “l’occuparsi con l’eterno”, intrattenendo un rapporto con esso: a tal proposito, Hegel parla di ascesa dello spirito finito che si ricongiunge col suo principio. Questa ascesa, spiega Hegel, può essere definita come “devozione” (Andacht), intendendo con tale termine il movimento dello spirito finito verso l’assoluto. Nella devozione rientra anche l’atto specifico della preghiera. La Andacht non è un atto preciso e determinato, è “una situazione della coscienza” che, stanca dei suoi scopi finiti e delle afflizioni di una vita temporale, si slancia verso “la forma luminosa della riconciliazione, ove il dolore della temporalità si trasforma in un’armonia superiore”. Tuttavia, il limite della devozione è che per essa l’assoluto resta pur sempre un’immagine, un qualcosa di tenuto a distanza: affinché essa si tramuti in “elemento beatificante del mondo presente e vita attiva dell’individuo”, occorre che essa superi il suo carattere immediato e ingenuo, lasciandosi penetrare dal concetto e, pertanto, comprendendo la sua essenza. Ma l’essenza della devozione è ben espressa dal termine stesso: Andacht è composto da “an”, che indice un “andare verso”, e da “denken” (nella forma passata, “ich dachte”: “ho pensato”); e quindi l’essenza della devozione è il pensiero, cosicché essa deve sapersi come pensiero di questo movimento del finito verso l’infinito. In altri termini, la devozione è il sapere che il finito ha dell’assoluto come della sua stessa sostanza. Nella devozione – dice Hegel – “Dio è per me e Dio è in me”, è il pensiero della reale sostanza di me stesso. Ponendomi in rapporto con l’assoluto, mi conosco come pienamente pensante e, per ciò stesso, come ancora distinto dall’assoluto. Occorre superare tale separatezza: la vera essenza della devozione, una volta che sia stata compresa, sta nel dileguarsi dell’accidentalità del finito nel sapersi nell’infinito. Così intesa, la Andacht è il vero fondamento di tutti gli atti di culto e, dunque, anche della preghiera, nella quale il finito si pone in relazione con l’infinito e, insieme, sa di doversi togliere e superare come finito perché solamente in quel modo l’infinito può essere nella sua verità. Devozione, allora, non è solo credere che Dio sia: il soggetto si rapporta come con un oggetto, ma, proprio perché si toglie e si supera come finito, si fonde con l’infinito e sprofonda in esso. “Devozione è allora lo spirito che muove se stesso per conservarsi in questo movimento”: e il fondamento è il pensiero. Certo – ammette Hegel –, nell’oggetto della religione confluiscono in un’unità indistinta diverse disposizioni, ma il fondamento è e resta il pensiero.

Già nella Fenomenologia dello spirito (1807), a proposito della religione estetica, Hegel diceva che in essa “l’autocoscienza resta presso di sé” e che è “pensiero puro, ossia devozione, la cui interiorità trova nel culto la sua esistenza esteriore”. Il vero atto di culto è allora il pensiero, che però nella semplice devozione è ancora astratto e indeterminato: solo quando tale astrazione è superata, allora si perviene effettivamente al sapere di sé della devozione come pensiero in cui il finito scopre di essere tutt’uno con l’infinito. Tutto quello che abbiamo chiamato “ascesa” del finito all’infinito e che la rappresentazione religiosa vede ancora come alterità viene pensato e saputo dalla filosofia, con la conseguenza che il mio rapportarmi a Dio diventa un momento della vita di Dio. E dunque la devozione è non già un andare verso Dio, bensì un momento dell’assoluto, in quello che è stato definito un “panteismo logico”. D’altra parte, senza il mondo Dio non sarebbe Dio, proprio perché Dio è il mondo stesso: il vero atto di culto, in questa prospettiva, è solo il pensare. Scrive Hegel: “Dio è soltanto nel pensiero e col pensiero”, non altrimenti: ma perché ciò sia saputo, la devozione in quanto tale dev’essere superata perché implicante tensione (“an”) e difettante di pensiero. Essa, infatti, non è ancora l’atto di preghiera supremo e autentico, che, così come si mostra nella dialettica dispiegata, è quel pensare l’assoluto che è il pensarsi dell’assoluto stesso nel e tramite l’infinito. “Io sono la lotta”, scrive Hegel a proposito del rapporto tra il finito e l’infinito, e aggiunge: “io sono il fuoco e l’acqua che si toccano”. Il pregare, inteso come preghiera soggettiva, è devozione astratta che tende sì a farsi universale, poiché è un primo sforzo di elevazione, ma il suo contenuto è ancora tutto soggettivo e solamente l’universalità del pensiero può universalizzarlo. Non è un caso che Hegel privilegi il culto pubblico rispetto a quello privato: infatti, nella prospettiva hegeliana, che ampio spazio concede al momento etico, il culto pubblico è più concreto, più universale e più etico rispetto a quello privato (che è più morale e più soggettivo). Il culto pubblico, nota Hegel, supera l’individualità del singolo, pur restando inferiore alla filosofia. In definitiva, per Hegel, non è la preghiera ad essere pensiero, ma è il pensiero ad essere l’unica forma autentica di preghiera.                  

 


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