KIERKEGAARD


 

 

Søren Kierkegaard è il modello esistenzialistico della preghiera a cui immancabilmente si rifanno gli esistenzialisti successivi (Barth, Marcel, Jaspers): in lui la preghiera assume una centralità che fa tutt’uno con la critica del razionalismo moderno (che giunge all’apice con Hegel). Kierkegaard non tenta di fondare speculativamente la preghiera, ma insiste piuttosto sull’analisi esistenziale di essa, mostrando come la preghiera sia il “filo continuo” che raccoglie in unità dinanzi a Dio gli elementi sparsi della nostra vita. In questo senso, la preghiera è “ciò senza di cui non possiamo fare nulla”.

Tutti gli aspetti dell’esistenzialismo kierkegaardiano vengono in certa misura a convergere sul tema della preghiera: la libertà, la trascendenza divina, il peccato vengono puntualmente riferiti alle preghiere che costellano le opre di Kierkegaard. Ci troviamo dunque di fronte a un pensatore che non si limita a riflettere sulla preghiera, ma che nei suoi scritti prega a più riprese: e del resto egli era restio a farsi chiamare “filosofo”, preferendo il titolo di “scrittore di cose religiose”.

Come è noto, Kierkegaard ha incentrato tutta la sua riflessione sull’esistenza del singolo e sugli “stadi” (estetico, morale, religioso) che essa attraversa. Al fondo dell’angoscia in cui ci si imbatte nell’esistenza estetica, sta l’impegno etico, il quale è un punto intermedio tra il demoniaco estetico e lo stadio religioso, nel quale si ha un’incondizionata accettazione dell’esistenza di Dio e della fede in Lui.

Nello stadio religioso, il singolo si trova faccia a faccia con Dio e a nulla vale l’astrazione filosofica: non si potrà mai parlare del peccato, dell’angoscia, della preghiera, ma soltanto del mio peccato, della mia angoscia, della mia preghiera. Nello stadio religioso, è in gioco il proprio rapporto personale con Dio.

In Aut aut, Kierkegaard svolge la già ricordata dottrina degli stadi dell’esistenza, insistendo sulle loro diverse forme, ciascuna delle quali si rapporta a un’idea più o meno concreta (la musica è la forma perfetta dello stadio estetico): la forma più concreta è il linguaggio. Quando la parola che esprime la relazione con Dio è assolutamente nuda e abbandonata a se stessa, allora si ha quello che Kierkegaard definisce “l’abbandono in Dio”, nozione che ricorre senza tregua nel Diario e nel Vangelo della sofferenza. È in quest’ultima opera che dev’essere ravvisato il cuore della riflessione kierkegaardiana sulla preghiera: in essa si dice che l’abbandono in Dio è la più alta forma di relazione con Lui, quasi come se si trattasse di una “seconda nascita”, un tornar bambini in cui “ritorna lo spirito di infanzia, ma alla seconda potenza” o, detto altrimenti, si cresce “diventando sempre più bambini”. È l’abbandono a Dio che dà la vittoria sull’angoscia dell’esistenza.

Ne La malattia mortale e ne Il concetto dell’angoscia affiora il tema dell’angoscia e del suo superamento: scegliere per il transeunte della vita estetica è un superamento solo apparente dell’angoscia, poiché è solo abbandonandosi a Dio che la si può vincere pienamente. Ma che cos’è l’angoscia? È una dimensione esistenziale propria dell’esistente finito (l’uomo) che oscilla di fronte al nulla, è una forza che cattura l’individuo come una vertigine in cui ciò che vorremmo fuggire ci attira: ed è esattamente in questo senso che essa è causa del peccato, poiché è “ciò che fa peccare l’uomo contro la propria volontà”, facendogli compiere ciò che egli vorrebbe evitare. Ma la coscienza dell’angoscia è già la base del possibile volgersi a Dio e del possibile accettarne la rivelazione, accettando il peccato e comprendendo che siamo immersi in esso. L’angoscia può allora essere superata col “salto” della fede, ossia qualora ci si abbandoni – e non v’è nulla della necessità hegeliana – a Dio. Il primo peccato (quello originale) è avvenuto per debolezza: e nella disperazione l’uomo dubita che tale peccato possa essere perdonato e, per ciò, continua a peccare. Solo la fede blocca il passo a tale dispersione e solo chi ha provato fino in fondo la dispersione abbraccia la fede. È per questo motivo che l’uomo dello stadio religioso confida non in sé, ma nell’abbandono in Dio, perdendosi e rinunciando alla propria egoità. Si tratta dunque di disfarsi del soggetto metafisico e di tornare a un soggetto autenticamente personale. Nel Diario (fr. 1900) scrive Kierkegaard: “bisogna avere di nuovo il coraggio di dire ‘io’”, il che implica il “rivolgersi a un ‘tu’” (fr. 1913), pena il restare nell’astrazione metafisica. Le religioni (compreso il Cristianesimo) non sono fatte per distruggere l’io inteso come io metafisico-cartesiano: l’unica direzione autentica dell’io è quella esistenziale. Sempre nel Diario (fr. 3068) si dice che “Dio vuole degli io” che si relazionino con Lui. Dunque l’io indica l’uomo in quanto spirito che opta per l’assoluto. È dall’interno di questa dialettica polare (e antihegeliana) della libertà che si possono comprendere sia la dispersione dell’io, sia la sua salvezza e la preghiera ad essa connessa. E proprio con una profondissima riflessione sulla preghiera si apre La malattia mortale, insistendo sul tema della relazione col divino considerata da ogni possibile angolatura: l’io – nota Kierkegaard – è relazionalità con l’altro da sé, ma ciò è al tempo stesso anche relazione con se stessi. L’uomo può dunque perdersi così come può salvarsi: ma se è vero che dispersione (e disperazione) e salvezza (e speranza) sono condizioni del rapporto con Dio, soltanto nella seconda – cioè nella salvezza – ci si eleva a Dio: sicché la preghiera viene ad essere un “dovere”, nel senso che non si può non pregare. In questa prospettiva, la preghiera, ben più che semplice atto morale, appartiene alla dinamica del religioso, la quale implica un salto rispetto alla sfera morale: in questo salto, la preghiera è mediazione tra l’Io e il Tu assoluto, tra il finito e l’infinito. Di conseguenza, Kierkegaard ammette tutte le forme possibili di preghiera, senza distinzioni: egli riconosce la piena legittimità della preghiera di benedizione, di ringraziamento, di pentimento e perfino di richiesta (giacché rifiutarla sarebbe un atto d’orgoglio). La preghiera suprema non è tanto il “Padre nostro”, quanto piuttosto quella pronunciata da Cristo sulla croce per i nemici che l’hanno inchiodato: tale preghiera è atto d’amore incondizionato verso Dio e verso il prossimo, in una lotta che è perseveranza, manifestazione verbale e pensante della ripetizione. Certo, pregare è difficile, giacché implica tensione: e ancora più difficile è pregare bene. Nella Postilla conclusiva non scientifica, Kierkegaard analizza con una straordinaria efficacia il tema della difficoltà del pregare: a tutta prima si può dire che “il pregare è qualcosa di estremamente semplice […] come abbottonarsi i pantaloni”; eppure “come è difficile” pregare bene! Ciò, infatti, implica che si sappia che cosa è Dio e che cosa siamo noi che lo preghiamo. È difficilissimo concludere in modo giusto una preghiera. Nel Diario (frammento 1426), troviamo scritto: “come è raro poter finire una preghiera con un vero ‘amen’!”, ossia senza che ci sia qualcosa da aggiungere. La conclusione della preghiera non deve infatti essere una troncatura, ma piuttosto un compimento, nel senso che le parole devono venir meno. La potenza di una preghiera così concepita è immensa: essa è il “punto di Archimede” (Diario, fr. 1482) con cui si può sollevare la Terra. Esaminata la struttura della preghiera, dobbiamo ora capirne lo scopo: prima facie sembrano esserci molteplici scopi della preghiera, ma in realtà ve n’è uno solo. Quest’unico scopo autentico è l’unione dell’anima con Dio, l’avvertire la presenza divina. Ciò che riscatta anche la preghiera più errata (ad esempio la richiesta di beni materiali) e peccaminosa è l’intenzionalità della relazione con Dio, la quale dev’essere esperita sul piano esistenziale fino a provocare un rovesciamento della concezione tradizionale secondo cui con la preghiera Dio ci ascolta. Infatti, come scrive Kierkegaard (Diario, fr. 930), l’importante non è che Dio ci ascolti, ma che noi Lo ascoltiamo. E il tema dell’ascolto è cardinale anche nei Discorsi edificanti del 1844, soprattutto in quello dal lungo titolo Nella preghiera il vero orante lotta e vince in quanto è Dio che vince. In questo scritto, affiora il tema della tensione della preghiera e Kierkegaard riprende le posizioni filosofiche tradizionali per smascherarle: se anche è vero che la preghiera non muta il mondo né tanto meno Dio, resta però vero che essa trasforma l’uomo che prega, ponendo la sua volontà in consonanza con quella divina. Si ha allora, nella preghiera, un lottare con Dio per essere vinti da Lui, affinché si compia la Sua volontà: è dunque la lotta di chi vuole essere vinto, il che ben esprime la dialettica della preghiera. Nel voler essere vinti da Dio, si realizza pienamente l’abbandono di cui s’è detto: la formula più vera della preghiera è allora pregare Dio chiedendoGli di restare vicini a Lui per l’eternità.   

 

 


INDIETRO