SCHELER


 

 

Max Scheler fornisce un’interpretazione fenomenologia della preghiera: la sua è una delle prospettive più complete, che meglio rendono conto del fenomeno senza escludere le altre prospettive.

Come è noto, Scheler si forma alla scuola fenomenologia inaugurata da Edmund Husserl: ma l’autonomia della sua filosofia risiede nel fatto che per lui la fenomenologia non si riduce a mera analisi gnoseologica delle essenze (com’era in Husserl), ma è insieme un modo di conoscenza e di partecipazione attiva all’ordine del cosmo. Questo è basilare per tutto il suo pensiero, e dunque anche per il problema della preghiera. Quello di Scheler è un pensiero fenomenologico-religioso, una fenomenologia della religione tormentatissima e che, nelle sue varie fasi, può essere definita come “metafisica dell’amore” o anche “teologia della ragione”. L’opera principale in cui meglio affiora questo tema è L’eterno nell’uomo (1921), scritto al cuore del quale sta il primato dell’amore sul conoscere: tale primato si configura come primato degli atti vitali sugli atti del pensiero. La nozione scheleriana di intuizione delle essenze non è più di ordine soltanto conoscitivo (come era in Husserl), ma esige una particolare organizzazione interiore di tutto l’uomo, di tutta la “persona” (termine carissimo a Scheler) nel suo nucleo più intimo, ovvero nella capacità di amare, che altro non è se non il desiderio di unione del conoscente con l’essenza conosciuta. Si tratta di un’unione che Scheler esprime nella parola “simpatia” (e L’essenza e le forme della simpatia è un altro suo scritto importante).

Lungi dall’essere astratta e fredda contemplazione, la filosofia è allora “l’atto determinato di amore nella partecipazione del nucleo di una persona umana finita all’essenza di ogni cosa possibile”. Così intesa, la filosofia non può essere che una implicazione attiva del soggetto nell’essenza dell’oggetto: “è il nucleo stesso dell’essenza conosciuta che si mette in vibrazione e in consonanza con l’essenza conoscente”. Pertanto errano tutte le posizioni che, pur diversamente, riducono la conoscenza a un atto determinato e staccato dalla vitalità della persona, poiché – come nota Scheler – il soggetto conoscente è sempre una persona reale, che è a sua volta un modo d’essere inoggettivabile e inaccessibile se non attraverso una partecipazione che deve essere vitale (chiamando in causa affetti, volontà, valori, ecc). Anche la cosiddetta conoscenza oggettiva è soltanto un modo particolare della partecipazione e forse è più superficiale rispetto ad altri modi, perché si limita a ciò che è oggettivabile, mentre il nucleo dell’essenza è sempre inoggettivabile: la vera conoscenza come autentica com-prensione è la partecipazione di un essere spirituale alla vita di un altro essere spirituale in una comunione di essenze spirituali. Anche quella che si suole definire conoscenza di Dio dev’essere intesa come partecipazione attiva nel suddetto senso, deve cioè essere “azione dello spirito invocato che attira a sé lo spirito creato”, in un sapere comunicato e partecipato. Scrive ancora Scheler: “ogni conoscenza religiosa di Dio è un conoscere che viene da Dio […] nel senso della forma in cui questo sapere stesso viene ricevuto. […] Dio si fa conoscere immediatamente al soggetto, in quanto Egli stesso è causa della conoscenza di sé nell’atto religioso”: ma non nel senso che Dio venga conosciuto metafisicamente come causa, bensì nel senso che Egli è appreso direttamente e senza astrazione teoretica, è quasi vissuto nella sua azione nello spirito finito, in un “contatto immediato”. Questo contatto non dev’essere confuso con la pretesa conoscenza immediata di matrice romantico-metafisica: tant’è che, per evitare fraintendimenti, Scheler parla esplicitamente di partecipazione, d’inserzione di questo sapere di un essere eterno nell’uomo. L’eterno nell’uomo a cui fa riferimento il titolo dell’opera scheleriana è esattamente questa inserzione del divino in noi: esso, in un certo senso, è un dato originario, che sta alla sorgente dell’essenza dell’uomo. Quella che impropriamente i filosofi chiamano “coscienza religiosa” è una partecipazione vitale che comunica attraverso l’amore di Dio in noi e che implica un contatto con Lui: un contatto che deve distendersi in atto teoretico, ma a due condizioni. 1) Deve sempre essere inteso come un qualcosa di ricevuto, come un’inserzione; 2) la stessa elaborazione teoretica deve sapersi secondaria rispetto all’originaria ricettività.

Si tratta di una partecipazione così profonda da definire l’essenza dell’uomo, il suo essere “animal religiosum”: secondo Scheler, v’è una disposizione naturale nell’uomo alla religione, disposizione che si attua negli atti religiosi (riscontrabili soltanto nell’uomo), nei quali si manifesta l’essenza di quella partecipazione. L’eterno (ossia il divino) presente nell’uomo non è un concetto, un’astrazione, un pensiero: è un dato primitivo e originario che è costitutivo dell’essere dell’uomo, il quale è tale solo perché è costituito da tale partecipazione. Al fondo degli atti religiosi v’è sempre la coscienza di un rapporto vitale da persona a persona, nel quale la conoscenza percepisce la sua dipendenza dall’assoluto e la sua “relatività ontologica” per via della quale il finito si sente spinto ad “umiliarsi”.

Il momento esplicativo-razionale, che tanta parte ha avuto nel pensiero moderno circa la conoscenza di Dio, è qui del tutto secondario perché derivato: è un possibile sviluppo dell’intenzionalità dell’atto religioso, il quale è però incomparabilmente più originario ed esteso rispetto all’atto della riflessione metafisica; quest’ultima è una delle possibilità di sviluppo (ed è quella che si è data storicamente) del religioso. Scrive Scheler: “la sfera dell’assoluto non apparteneva originariamente all’ambito metafisico, ma all’atto religioso”, che è il solo atto essenziale nel quale l’atto stesso si conosce fin da principio come meramente recettivo. Scrive ancora Scheler: “ogni conoscenza di Dio è necessariamente insieme una conoscenza da Dio”.

Il problema della preghiera è affrontato soprattutto in Fenomenologia e metafisica della libertà (un saggio postumo), ove si asserisce che Dio e uomo possono mettersi in rapporto perché l’uno e l’altro, pur infinitamente distanti, sono persone e ad ogni persona Dio comunica qualche raggio della sua natura. È in base a questa comunicazione che l’uomo ha una forma d’esistenza simile a quella di Dio (che è “persona infinita”) e ne è l’immagine. Questa comunicazione si presenta in varie forme di illuminazione e di grazia che si fanno accessibili nell’esperienza che Dio ne concede. La realtà di questa autocomunicazione divina costituisce la libertà spirituale (della quale si dice nel titolo dell’opera) dell’uomo come persona. Ma l’aprirsi per capire tale comunicazione divina avviene in quegli atti religiosi nei quali si esplica la dialettica tra ricettività e attività dell’uomo. Di tali atti, la preghiera è il culmine. Essa è efficacemente definita come “atto centrale” (Zentrum Akt) del costituirsi della persona finita nel rapporto con la persona infinita ed è un atto “intenzionale” (nel senso fenomenologico) primario, perché verte su un oggetto proprio e specifico: è un’intenzionalità che si volge alla trascendenza e in essa soltanto trova il suo compimento e mette in gioco la sfera della libertà dell’uomo come persona. Nella preghiera – dice Scheler – si attua il “circolo intenzionale”: nella misura in cui “solo un essere reale che sia la persona divina può essere la causa dell’intenzionalità religiosa dell’uomo”, ecco che l’oggetto della preghiera (Dio) è la sua stessa causa. Il contenuto della preghiera è il “supremo bene” possibile per l’uomo: l’oggetto intenzionato si dà all’uomo e al tempo stesso l’uomo si dirige intenzionalmente a tale oggetto, in un rimando circolare che troviamo espresso anche nelle Scritture, quando si dice: “tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”.

Inoltre la preghiera è anche comunicazione con gli altri uomini, giacché in essa ciascuno si trova in rapporto con Dio e con i propri simili: “qui soltanto noi siamo veramente uniti”. Nella preghiera, allora, si conosce Dio e l’altro nella conoscenza e nei rapporti che questi ha con Dio, col mondo e con gli altri uomini, in un’apertura alla dimensione del Noi. In questo senso, la preghiera è un “atto fondamentale” (Grundakt), giacché apre alla comunicazione dell’Altro ed è possibile solamente se rivolta a un Dio personale che nulla ha a che vedere col “Dio dei filosofi” tematizzato da Cartesio e smascherato da Pascal. La preghiera è dunque “dialogo” con una persona infinita che non tace, ma che è apertura e “sorgente di tutti gli atti liberi”: in essa emerge al grado massimo la libertà umana, la quale è esplicazione dell’originaria recettività trasformata in attività di risposta.         

 

 


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