LA TRADIZIONE CRISTIANA


 

 

Abbiamo visto come la figura di Gesù si situi interamente nella tradizione giudaica e come il Cristianesimo sia inaugurato dalla prospettiva universalistica inaugurata da Paolo di Tarso. Dobbiamo ora precisare come con Origene e col vescovo Ireneo il Cristianesimo pervenga a una prima formulazione organica della propria dottrina: Ireneo, in particolare, è il primo autore a proporre una lista di eresie in una vera e propria catalogazione eresiologica; e nella misura in cui rubrica i nemici del Cristianesimo, egli abbozza anche la configurazione della dottrina cristiana, rispetto alla quale le eresie – che Ireneo fa scaturire tutte dalla “falsa gnosi” – sono un erramento. Ad avviso di Ireneo, la dottrina cristiana è migliore di quella gnostica perché si fonda sui vescovi, che sono successori degli apostoli, a loro volta successori di Gesù. In ambito cristiano, una delle preghiere che più si sviluppa fin dalle origini è quella relativa al culto dei defunti, preghiera attestata da un buon numero di documenti: in particolare, le invocazioni assumono la forma di una richiesta di perdono di peccati e di concessione della vita eterna al trapassato. Presso i Cristiani, comincia inoltre a imporsi il libro dei Salmi come libro di preghiere: a ciò deve essere aggiunto il fatto che i Cristiani subiscono le persecuzioni, alle quali sono connessi il martirio e il culto del martire, quest’ultimo inteso come intermediario che intercede direttamente con Dio. Sappiamo di preghiere rivolte a Dio dai martiri stessi, ma si tratta di documenti dalla valenza duplice: infatti, esse, in molti casi, riproducono fedelmente le vicende del martire e il suo rivolgersi a Dio; ma talvolta sono vere e proprie rielaborazioni dell’episodio, rielaborazioni in forza delle quali l’autore mette in bocca al martire considerazioni proprie sul martirio e sul suo valore.

Numerosi sono anche gli inni e le riflessioni cristiane sulla preghiera: queste ultime, devono costituire il punto di partenza della nostra indagine sulla preghiera cristianamente intesa. È soprattutto a partire dal II secolo d.C. che si producono trattati sulla preghiera, i quali prendono tutti le mosse dal “Padre nostro”. I principali autori di tali trattati sono Tertulliano (che sul finire del II secolo scrive il trattato De oratione), Cipriano (che nella metà del III secolo compone un De dominica oratione, ovvero Sulla preghiera del Signore), Clemente Alessandrino (che, sul finire del II secolo, scrive gli Stromati, il cui settimo libro è dedicato al tema della preghiera), e Origene (che nel 234 scrive il suo trattato Sulla preghiera). Tutti questi trattati risentono di tre filoni:

a)     La tradizione delle opere a carattere liturgico, come per esempio la Diadokè, che riflette su pratiche cultuali precise e indica il “Padre nostro” come modello di preghiera, riportandolo nella versione di Matteo.   

b)    La tradizione dei commentari biblici, mediati da Filone di Alessandria, città nella quale si commentano non i classici greci, bensì il Pentateuco, al fine di presentarlo per via allegorica a un pubblico di cultura ellenica.

c)     La tradizione della reazione agli stimoli critici della tradizione filosofica greca: la si rinviene soprattutto negli scritti di autori che scrivono in lingua greca.

Partiamo dal primo dei quattro autori citati, Tertulliano: nel suo De oratione, egli sviluppa specialmente temi etici, occupandosi di come si debba pregare, quale atteggiamento assumere nella preghiera e che cosa chiedere con essa. Tertulliano concede ben poco spazio a problemi di carattere filosofico, con un atteggiamento attento al concreto che è tipico della mentalità latina. Occorre tenere a mente che Tertulliano era, di formazione, un avvocato e che, nel confutare gli eretici, sosteneva che non bisognava neppure parlare con essi, giacché hanno torto in partenza. Egli svolge un commento esegetico di tipo morale al “Padre nostro”, rivelando preoccupazioni eminentemente pastorali: infatti, l’obiettivo che Tertulliano si propone è di istruire la gente a pregare; egli insiste molto sul carattere spirituale della preghiera. Proprio in virtù della sua spiccata spiritualità, la preghiera dei Cristiani è differente da quella degli Ebrei, che è legata alla sfera materiale (le premesse di questa spiritualizzazione debbono essere rintracciate in Gesù stesso): non è un caso se Tertulliano scrive anche un Adversus Iudaeos.

Col suo De dominica oratione, Cipriano riprende l’impostazione di Tertulliano senza apportarvi grandi modifiche: l’unica novità risiede nel fatto che Cipriano pone l’accento sull’aspetto comunitario della preghiera, come si evince anche da un’altra sua opera, il De unitate Ecclesiae.

Dal canto suo, Clemente Alessandrino si colloca in una tradizione che molto risente del platonismo e dello stoicismo: occorre tenere a mente che ad Alessandria c’era una scuola filosofica della quale egli è erede e che troverà un suo continuatore in Origene, il quale dà vita a una scuola teologica cristiana (il “Didaskàleion”) particolarmente sensibile alle problematiche filosofiche (a differenza di Tertulliano e di Cipriano, che ad esse non avevano attribuita alcuna importanza). L’opera di cui Clemente è autore sono gli Stromati, letteralmente “tappezzerie”: lo scritto è una sorta di zibaldone che racchiude tematiche di vario tipo; il libro VII, col quale si chiude l’opera, è dedicato al tema del vero culto e dell’attacco rivolto contro il materialismo dei pagani. Nel libro VII, affiorano i temi della preghiera rivolta a Dio ininterrottamente per tutta la vita, del rifiuto dei teatri per via dei contenuti che essi veicolano, dell’ideale stoico dell’imperturbabilità e del rigore, della preghiera come un qualcosa che può avvenire anche soltanto nel pensiero, della critica della preghiera di richiesta materiale, della fuga dal mondo su cui già i Neoplatonici s’erano soffermati. La preghiera, scrive Clemente, “è un modo di comunicare con Dio; e anche se Gli parliamo in silenzio, senza nemmeno aprir le labbra, con un sussurro, dentro gridiamo”.

Veniamo ora a Origene, che si colloca sulla scia di Clemente e articola ottimamente i contenuti nel suo trattato Sulla preghiera, strutturato in tre parti: a) la prima parte (capp. 1-17) svolge riflessioni sulla preghiera in generale; b) la seconda parte (capp. 18-30) si occupa del commento del “Padre nostro”; c) la terza parte fornisce spiegazioni dettagliate circa la preghiera e le sue modalità pratiche. Origene compone il suo trattato in occasione di una richiesta avanzatagli dagli amici, che gli avevano sottoposto delle precise domande sulla preghiera: ad esse egli cerca di rispondere scrivendo l’opera Sulla preghiera. In essa, troviamo una brillante confutazione delle obiezioni filosofiche alla preghiera (che il nostro autore liquida sbrigativamente) e delle obiezioni (sulle quali si sofferma più diffusamente) che ad essa muovevano gli eretici. Origene spiega che solamente gli atei o i negatori della Provvidenza (ed egli allude soprattutto agli Epicurei) rigettano la preghiera in quanto tale. Nella prospettiva eretica, in particolare, si faceva notare come la prescienza divina renderebbe vana la preghiera; la quale è del resto un qualcosa di inutile anche alla luce del fatto che Dio dev’essere inteso – dicono tali eretici – come un padre che dispensa prodigalmente doni ai suoi figli senza che essi debbano pregarlo. Tutti questi argomenti ritornano poi, seppur declinati con maggiore cogenza argomentativi, nel deismo inglese, che utilizza lo strumentario concettuale cristiano al fine di attaccare il Cristianesimo stesso. Sempre gli eretici – spiega Origene – sostengono che, come p stolto chi prega affinché sorga il sole e si crede poi esaudito nella sua preghiera quando vede il sole sorgere, così è stolto chi prega Dio e poi vede che le cose procedono conformemente alla sua preghiera, senza accorgersi che ogni cosa è stata preordinata da Dio e che la preghiera è assolutamente inutile. Inoltre, gli eretici mettono in luce come la Scrittura chiarisca senza equivoci come gli uomini siano peccatori e come alcuni siano predestinati: che senso potrà mai avere pregare Dio quando si è già predestinati alla salvezza o alla condanna? Tanto più che, se Dio ha già fissato ogni cosa, è assurdo ipotizzare gli Egli possa poi intervenire sul mondo in base alle preghiere rivolteGli: in tal caso, infatti, ci si troverebbe nella paradossale situazione per cui Dio corregge la propria opera iniziale, che dunque non era perfetta. Origene fornisce una risposta puntuale a tutte queste obiezioni: egli esordisce precisando come “il moto degli esseri dotati di ragione sia movimento libero” perché scaturente dal libero arbitrio, del quale si sono fatalmente scordati gli eretici. Inoltre, per Origene, la prescienza divina non azzera la libertà umana, ma anzi la impiega per coordinare le azioni umane in vista di un disegno trascendente rispetto ad esse. Detto altrimenti, Dio orienta ma non determina l’agire degli uomini: egli conosce in anticipo ciò che noi liberamente facciamo. Poste queste premesse, Origene afferma che Dio non può non tener conto del fatto che gli uomini Gli rivolgano preghiere: anzi, a rigore, la preghiera stessa rientra nel disegno divino di cui abbiamo detto. Un punto sul quale il nostro autore insiste molto è che la preghiera dev’essere diretta a Dio, non a Cristo: e ciò in forza del “subordinazionismo” a cui è legato il pensiero origeniano. Infatti, è solo coi successivi Concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381) che si giunge a una formulazione completa del dogma della Trinità (secondo il quale Dio è fatto di tre persone uguali e distinte); è vero, Paolo di Tarso utilizzava già un linguaggio trinitario, ma di fatto egli non afferma mai apertamente che Dio è tre persone, poiché non si pone il problema da un punto di vista concettuale. Quando Giustino si pone il problema del rapporto tra Dio e Cristo, asserisce che Cristo è un “secondo Dio”; mentre Filone parla di “potenze intermedie” di cui Dio si serve per creare il mondo. E nella storia del Cristianesimo si sono formati due poli teorici: il primo, tipico dell’Occidente, intende Dio come un monarca rispetto al quale il Figlio e lo Spirito Santo sono mere modalità d’essere; il secondo, tipico dei Greci, insisite molto sulla differenza delle tre persone (o ipostasi) e sulla specificità di ciascuna di esse: per poter fare ciò, si tende a subordinare gerarchicamente al Padre il Figlio i a quest’ultimo lo Spirito Santo. Di qui quel “subordinazionismo” al quale soggiace anche il pensiero di Origene. Questa teoria diventa un’eresia col Concilio di Nicea, che fu appunto convocato perché Ario sosteneva ereticamente che il Figlio era creato e che dunque (anche se non lo diceva esplicitamente era implicito nel suo discorso) era subordinato a Dio. Anche Origene si muove in questa prospettiva, nella misura in cui afferma che il Figlio è distinto dal Padre “nella sostanza e nella persona”. Tornando a Origene, egli è convinto che la preghiera debba essere diretta al vertice della scala, cioè a Dio stesso, e n on ai gradini più bassi (Cristo e lo Spirito Santo). Il nostro autore scrive espressamente che non bisogna pregare alcuno dei mortali e “neppure Cristo”, il quale ci ha egli stesso insegnato, col “Padre nostro”, che le preghiere devono essere rivolte a Dio. Nel capitolo 27, Origene commenta la preghiera del “Padre nostro”, dandone un’interpretazione allegorica, dalla quale traspare comunque una marcata attenzione filologica. In particolare, Origene si domanda con insistenza quale sia il “pane” a cui si fa riferimento nel “Padre nostro”: per rispondere a tale quesito, egli cerca altri passi dei testi sacri nei quali vi sia un aggancio col luogo del “Padre nostro” su cui si vuole far luce. Il risultato origeniano è una lettura spiritualizzante del “Padre nostro”, una lettura nella quale il pane non viene inteso nel suo significato più banale, quello materiale; infatti, secondo Origene, il pane coincide con le opere che il Cristiano è chiamato a compiere; si tratta di un pane del quale, come già aveva chiarito Giovanni, bisogna cibarsi in abbondanza poiché, come dirà Paolo, è il “cibo dei perfetti”. L’attenzione del nostro autore si sofferma su un termine problematico che compare nel “Padre nostro”: tale termine è “supersostanziale”, la traduzione del greco epiousioV, termine che non viene impiegato da nessun altro autore greco e che è stato probabilmente coniato dagli Evangelisti: forse ciò – ipotizza Origene – si può spiegare tenendo a mente che si tratta di una traduzione in greco di un termine ebraico. Per fare luce su di esso, Origene sposta l’attenzione su un altro luogo (Esodo, 19, 6) nel quale compare un termine analogo, periousioV: esso è impiegato per designare il popolo eletto. Tanto in periousioV quanto in epiousioV v’è un comune riferimento alla ousia, parola che alla lettera vuol dire “sostanza” ma che in questo caso significa “Dio”. Alla luce di questa comparazione, il pane di cui si parla nel “Padre nostro” non può essere quello materiale: piuttosto un pane spirituale nutrendoci del quale ci avviciniamo a Dio; come dice Origene, è un pane celeste che ci permette di vincere la morte, è un “cibo per gli angeli” che non deve essere confuso col cibo del demonio. Chiarito il termine “pane”, il nostro autore sofferma l’attenzione sulla parola “oggi”, che è centrale nel “Padre nostro”: essa dev’essere intesa nel senso escatologico di un’anticipazione dei secoli futuri. Origene spiega poi le feste ebraiche e l’impegno quotidiano a cui è chiamato il Cristiano.  

 

 


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