Félix Ravaisson-Mollien

 

VITA E OPERE

Jean Gaspard Felix Ravaisson-Mollien (23 ottobre 1813 – 18 maggio 1900) nacque a Namur e, dopo un corso di studi pieno di successo al College Rollin, continuò a Monaco, dove frequentò le lezioni di Schelling e si laureò in filosofia nel 1836. Nell’anno seguente pubblicò il primo volume della sua famosa opera Essai sur la métaphysique d’Aristote, al quale, nel 1846, aggiunse un volume supplementario. In questo suo lavoro non solo critica e commenta le teorie di Aristotele e la filosofia peripatetica, ma da esse trae un sistema filosofico moderno. Nel 1838 riceve il titolo di dottore e diviene professore di filosofia a Rennes. Dal 1840 fu ispettore generale nelle biblioteche e nel 1860 divenne ispettore generale del dipartimento dell’istruzione superiore. Era anche membro dell’Accademia e dell’Accademia di Scienze Politiche e Morali oltrechè sovrintendente del Dipartimento di Antichità al Louvre (dal 1870). Morì a Parigi il 18 maggio 1900. Nel campo della filosofia, egli faceva parte della scuola di Cousin, col quale era sempre in questione su molti punti importanti. L’atto di coscienza, secondo lui, è alla base di tutto il sapere. Questi atti di coscienza sono manifestazioni della volontà, vale a dire la ragione e il potere creativo della vita intellettuale. L’idea di Dio è un’intuizione aggiuntiva data da tutte le diverse facoltà della mente, nella sua osservazione dell’armonia nella natura e nell’uomo. Questa teoria ebbe un’influenza considerevole sulla filosofia speculativa in Francia durante gli ultimi anni del XIX secolo. I principali lavori filosofici di Ravaisson sono: Les Fragments philosophique de Hamilton (1840); Rapport sur Iestoicisme (1851) ;  La Philosophie en France au dix-neuvième siecle (1868, terza edizione, 1889) ; Morale et métaphysique (1893). Eminente filosofo, Ravaisson fu anche archeologo e contribuì con articoli sulla scultura antica al Revue Archiologique, e al Mémoires de l’Académie des Inscriptions. Nel 1871 pubblicò una monografia sulla Venere di Milo.

IL PENSIERO

Ravaisson fa risalire le radici dello spiritualismo allo stesso Aristotele, il quale, a suo giudizio, ha mostrato come l'intelligenza dell'uomo "per esperienza immediata colga in se stessa la realtà assoluta dalla quale ogni altra dipende". Dunque la percezione intima della coscienza è rivelativa del senso dell'essere dell'uomo, e dev'essere il fondamento della riflessione filosofica. In questa esperienza interiore, l'uomo si scopre spirito, cioè libertà, o meglio libera attività creatrice sul piano del pensiero e su quello dell'azione. Ma si tratta di uno spirito non separato dalla materia, bensí in continuità con essa. Infatti è vero che la libertà caratterizza lo spirito e la necessità contrassegna la materia, ma c'è un'area della vita psichica umana - quella dell'abitudine - che ci mostra quella continuità; nell'abitudine infatti la volontà cosciente diventa inconscia, la libertà diventa semplicemente spontaneità; in essa l'attività non si pone fuori del campo dello spirito, perché è pur sempre in funzione di un fine, e quindi implica l'esercizio dell'intelligenza; ma il fine è incorporato nell'attività stessa, reso inconsapevole, per cui l'azione sembra assumere caratteri "meccanici". Dunque non c'è opposizione tra spirito e materia; e pertanto va riveduto lo stesso concetto di "meccanicismo naturale". La vita della natura "appare" meccanica, ma una riflessione piú profonda rivela che tutta la realtà è in movimento verso l'intelligenza, e non solo nel senso che tende al suo compimento nella vita intellettiva dell'uomo, ma anche e soprattutto nel senso che essa tende all'Intelligenza divina. Ciò ha mostrato anche Aristotele quando ha indicato nel passaggio dalla potenza all'atto la legge che muove gli enti finiti verso il Pensiero puro. L'uomo è il punto di congiunzione tra la materia, cosiddetta meccanica, e Dio, spirito puro, perché nell'uomo lo spirito, imbrigliato nella natura, diventa consapevole e si apre alla perfezione divina in un rapporto di "amore scambievole" con Dio. Tale apertura ha luogo nello slancio della volontà verso la realizzazione del bene, e nell'amore per la bellezza della natura e dell'arte. Ravaisson si esprime in favore di Maine de Biran, il cui merito è ravvisato nell'aver sottratto la filosofia all'influenza della tradizione illuministica, riconfermando il primato dello spirito sulla natura. La coscienza è la fonte di ogni verità (già per Aristotele, secondo Ravaisson) e il mondo naturale, che cade sotto le determinazioni empiriche del tempo e dello spazio, è mera parvenza, riconducibile all'attività dello spirito. Per giustificare l'apparenza della materialità alla luce di quest'attività spirituale da cui tutto promana, Ravaisson ricorre al concetto fondamentale di abitudine, concetto che sta al centro della sua importante tesi di dottorato su L'abitudine (1838) appunto. L'abitudine è un ponte di passaggio dall'attività spirituale all'inerzia materiale. Infatti, benchè nasca dallo spirito, attraverso la ripetizione meccanica degli atti, l'abitudine implica una graduale perdita della consapevolezza e della libertà che contrassegnano ogni attività meramente spirituale. Ne segue che si viene a creare una realtà che, pur mantenendo la sua radice spirituale, è ormai del tutto inerte e inconscia: tale è la materia. Tra i due estremi dati dal puro spirito e dalla materia si distribuiscono gradualità diverse di coscienza e libertà, corrispondenti ai diversi livelli della realtà (inorganica, vegetale, animale, umana).


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