Il Contratto Sociale di Jean-Jacques Rousseau

 

 

A cura di Paolo Petricca

 

 

 

Del “ Contratto Sociale” di Robert Derathè

 

Rousseau è più propriamente un moralista, ma egli stesso nell’ Emile ci dice che "bisogna studiare la società attraverso gli uomini, gli uomini attraverso la società: chi volesse trattare separatamente una politica della morale non capirebbe mai niente di nessuna delle due".  R. Sostiene che l'uomo sia buono in natura e amante della giustizia dell'ordine, ma di tendenza malvagio: è dunque da società a corrompere gli uomini, proporzionatamente allo radunarsi. Nel Discorso sopra l'origine dell’ineguaglianza il filosofo sostiene che la maggior parte dei nostri mali viene dall'opera nostra e che avremmo evitati conservando il mondo di vivere semplice, uniforme e solitario che c'era prescritto dalla natura. Ovviamente egli non vuole cancellare la società e tornare ad uno stato di vita naturale, che ovviamente non ho mai considerato la situazione dell'uomo isolato come una situazione reale. L’immobilismo è uno stato di natura, che l’umanità supera con lo scatto della perfettibilità, così però il tema della depravazione trova la sua consolazione nel tema dell’elevazione: l’uomo isolato conserva i privilegi di benessere e pace rispetto a quello di società, mentre quest’ultimo riesce a sviluppare “ le più sublimi facoltà e mostra l’eccellenza della natura”.

Un altro tema però ci introduce al Contratto Sociale, quello dell’importanza delle istituzioni politiche ( prefazione al Narcisse) , in cui R. si accorge che alcuni dei vizi da lui analizzati per l’uomo sociale in realtà vengono per un uomo mal governato….qui avremo il passaggio per francese dalla morale alla politica . Dunque vediamo come il termine preciso istituzioni si sostituisce a quello di società. Il punto chiave di questo passaggio è nell’introduzione al Narcisse:”Tutti quei vizi non appartengono tanto all’uomo, quanto all’uomo mal governato”. Cos’ bisogna porsi il problema del governare visto che un popolo sarà ciò che il suo governo lo farà essere. Così R. decide di scrivere le Institutions Politiques, dove un R. legislatore si occupo, innanzitutto dei popoli come governabili (indispensabili in questo caso saranno tutti gli esempi sui popoli antichi; questo confronto gli permetterà di mostrare come le istituzioni politiche valgono quanto gli uomini che esse avranno saputo formare. Gli “uomini illustri” di Plutarco non sarebbero esistiti senza le sublimi istituzioni dei popoli antichi, mentre gli uomini moderni devono in gran parte la loro corruzione alla stoltezza e all’inettitudine delle loro istituzioni. Questo confronto è stato fatto nel Discours sur les sciences et les arts mtre nel discours sur l’inegalitè il confronto oppone l’uomo selvaggio a quello civilizzato.

Qui le istituzioni ad essere in possibilità di ricevere aiuto dal testo sono quelle giovani o particolarmente meritevoli, o non troppo radicate nella perdizione di un certo tipo di società (Polonia), ma anche per le altre è possibile salvare i loro individui; a ciò vediamo molto legato L’Emile con le sue massime di educazione utili per salvare dalla perdizione il cittadino mal governato.

 

 

II

 

Uno dei progetti maggiori della carriera filosofica di R. è  Istitutiones politiques  opera di enorme respiro che egli stesso aveva auspicato come opera che gli avrebbe dato la fama. La sua attività letteraria si disperderà costantemente, al contrario per esempio di Montesquieu che riuscirà nell’ Esprit des lois proprio grazie alla sua costanza di lavoro. L’opera fu concepita nel 1743-4, ma iniziò a prendere vita solo nel 1754, mentre si potrebbe anche pensare che il manoscritto abbia avuto inizio a Ginevra nel 1756. Alcuni dei suoi concetti nascono prima, ad esempio la sovranità di cui rileviamo tracce già nella dedica introduttiva al Discours sur l’inegalitè. Le sue idee nascono dalle letture e dalle esperienze; R. non è stato partecipe della vita politica del suo stato nella sua epoca ma è stato un ottimo osservatore, di uomini e istituzioni del suo tempo. Lo stampo dell’opera però è politico, dunque va preso in considerazione il fatto che le letture di R. furono determinanti nella sua stesura: egli citava spesso Platone ma conosceva anche Aristotele; tra i moderni era conoscitore di Machiavelli, Bodin, Hobbes, Grozio, Pufendorf, Barbeyrac, Locke, oltre agli autori contemporanei, tra cui spicca Montesquieu. Non denota nemmeno particolare rispetto per i suoi predecessori, visto che li ingiuria quando li confuta e li passa sotto silenzio quando utilizza loro pensieri.

 

 

III

 

I principi sono perfettamente chiari anche se l’argomentazione è a volte difficile da seguire:

1.     Nessun uomo ha l’autorità naturale sul proprio simile. Ne consegue che nessuna autorità può essere legittima, se è istituita o se viene esercitata senza il consenso di coloro che vi sono sottomessi.

2.     L’autorità (sovranità) politica risiede essenzialmente nel popolo. Essa è inalienabile e il popolo non può affidarne l’esercizio a nessuno. Il singolo che rinunci alla sua libertà, rinuncia nello stesso tempo alla sua qualità di uomo. Così, un popolo che rinunci all’esercizio della sovranità con un patto di sottomissione, si annulla con quest’atto; ci sarebbero solo un padrone e degli schiavi. Le leggi sono l’espressione della volontà generale, e quando un uomo sostituisce la sua volontà a quella di un popolo, non c’è più un’autorità legittima ,ma un potere arbitrario. Poiché la legge non è che la dichiarazione della volontà generale, è chiaro che, nel potere legislativo, il popolo non può essere rappresentato.

3.     Il governo o l’amministrazione dello Stato è solo un potère subordinato al potere sovrano ed è, nelle mani di coloro che lo detengono, un semplice mandato. Il governo cerca costantemente di sottrarsi all’autorità legislativa e tende a sostituire la propria volontà a quella del popolo nella amministrazione dello Stato. Quando ci riesce il patto sociale è infranto, ed i cittadini sono costretti, ma non obbligati ad obbedire.

La monarchia di cui parla R. lascia sovrano il popolo , dunque il potere del re è quello di far rispettare la volontà del popolo, dunque, la forma di governo appare più simile ad una democrazia che ad una monarchia. Egli è però il primo a rifiutare la sovranità del re. L’unico governo sano per R. è la democrazia spesso accompagnata dal nome di repubblica, mentre dove il re ricoprirà ancora cariche pubbliche non si rassegnerà mai a far esercitare le leggi, ma tenterà sempre di togliere la sovranità al popolo ed esercitarla a suo profitto.

Il cittadino resta libero se si sottomette alla volontà generale, che è anche la sua. Ciò è possibile solo se il cittadino fa astrazione dal suo io individuale per integrarsi totalmente nella città. La volontà generale esiste solo in uno stato composto di cittadini: non esiste nella monarchia, dove ci sono sudditi. Da qui la necessità per il legislatore di trasformar l’uomo in cittadino attraverso l’educazione pubblica, di “darlo interamente allo Stato”.

 

 

Del Contratto Sociale o Principi del Diritto Politico

 

Foedris aequas\ Dicamus Leges    Virg, Aeneid., XI.

 

 

In una piccola avvertenza R. ci dice che questa opera fa parte di un progetto di dimensioni maggiori, di cui rimane l’unico passo notevole, vista l’incompletezza di tale opera, il resto è andato perduto.

 

 

Libro Primo

 

R. vuole ricercare, a sua stessa detta, nell’ordine civile, una regola di amministrazione legittima e sicura; egli unirà “ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive, affinché la giustizia e l’utilità non vadano separate”.

 

 

I: ARGOMENTO DI QUESTO PRIMO LIBRO (:L’ordine sociale)

 

“L’uomo è nato libero e dovunque è in catene”. L’ordine sociale è considerato sacro ed alla base di tutti gli altri, ma esso non viene dalla natura, ma dalle convenzioni: prima si dimostrerà quanto affermato e poi si considereranno le convenzioni.

 

 

II: DELLE PRIME SOCIETA’

 

La più antica delle società è la famiglia, lì il legame padre figlio, si articola solo nella necessità da parte del secondo all’aiuto del primo fino all’indipendenza, poi il loro legame si rimette alle possibilità dettate dall’affetto degli individui. La prima preoccupazione è la sopravvivenza ed il primo obbiettivo è quello di essere padrone di se stesso. C’è una differenza: nella famiglia, l’amore del padre per i figli lo ricompensa delle cure che prodiga loro, mentre nello Stato il piacere di comandare sostituisce l’amore che il capo non ha per i suoi popoli. Per Grozio e Hobbes il genere umano appartiene ad un centinaio di uomini, così la specie umana è divisa in greggi, ciascuno dei quali ha il proprio capo che lo custodisce per divorarlo. Per loro i governanti hanno una natura superiore ai popoli, come pensava anche l’imperatore Caligola. Aristotele parla di uomini fatti per governare e altri per essere schiavi, vero ma chi è schiavo lo sarà sempre , si abituerà ed obbedire per lui non sarà più faticoso.

 

 

III: DEL DIRITTO DEL PIU’ FORTE

 

Il più forte non sarebbe mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, se non trasformasse la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere. Cedere alla forza non è un atto di volontà ma a limite di prudenza. La forza sarebbe però un diritto instabile, fino a quando non è sostituita da una maggiore, cosicché i sottomessi possano, e anzi debbano non obbedire, o meglio cercare di essere i più forti. Tutto ciò non fa della forza un diritto, ma semplicemente una forza: noi dobbiamo obbedire ai poteri legittimi.

 

 

IV: DELLA SCHIAVITU’

 

Le convenzioni sono la base del diritto. Alienare (ovvero, secondo R. , donare se stessi) è l’atto dello schiavo che cerca di trarne sostentamento, ma il popolo non può donarsi, non ne otterrebbe nulla ed il re vivrebbe di profitto speculato sul popolo. Hobbes dice che il re assicura la tranquillità civile, ma essa può essere ingannatrice se in essa non si hanno diritti e  agevolazioni: si può essere tranquilli anche vivendo in un carcere. L’atto di donarsi di un uomo lo fa essere fuori di se, la donazione di un popolo richiede, dunque un popolo di  pazzi. “Rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell’umanità, anzi ai propri doveri”. Grozio Hobbes, e Pufendorf vedono nella guerra un’origine del diritto degli schiavi, R. rifiuta uno stato di diritto umano come la guerra, che si realizza invece solo da relazioni reali che non appartengono alla natura dell’uomo: l’uomo naturale è in uno stato né di guerra ,né di pace, e dunque non si stabilisce diritto da ciò. Nel momento in cui il nemico rappresenta una minaccia per lo Stato o per uno dei suoi individui, le armi e la loro condizione ti danno diritto ad uccidere, ,ma nel momento in cui il nemico depone le armi, non ha nessun senso, né tanto meno diritto uccidere un nemico o nutrire ogni aspirazione sulla sua vita o libertà. Fondando diritto di vita e di morte su quello della schiavitù, o il contrario, è un abuso e si cade in un filosofico circolo vizioso. Tutti i rapporti basati sulla forza, come quello di guerra, hanno validità solo finché sussiste la supremazia della forza; le parole Schiavitù e Diritto sono contraddittorie.

 

 

V: COME OCCORRA RISALIRE SEMPRE A UNA PRIMA CONVENZIONE

 

Se degli individui vengono asserviti ad uno solo, si avrà un padrone e degli schiavi, e non un  popolo ed il suo capo, è al massimo un’aggregazione e non un’associazione! Bisogna esaminare l’atto in virtù del quale un popolo è tale, il Fondamento della società.

 

 

VI: DEL PATTO SOCIALE

 

Gli uomini sono arrivati al punto in cui gli ostacoli che nuocciono ad una loro conservazione nello stato di natura prevalgono con la loro resistenza sulle forze di cui ciascun individuo dispone per mantenersi in tale stato. Tale stato primitivo non può più sussistere in questa fase e il genere umano perirebbe, se non cambia se le condizioni della sua esistenza. Per conservarsi si necessita di una aggregazione, una somma di forze che possa prevalere sulla resistenza; aggregazione che deve nascere dal concorso di più uomini. Ma si incontra una difficoltà: ”Trovare una forma di associazione che difende proteggere con tutta la forza comune la persona e di beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, resti libero come prima”. Questo è il problema di cui contratto sociale dà la soluzione. La clausola che caratterizza le legittimità di tale contratto è l'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Essendo l'alienazione fatta senza riserve, l'unione è più perfetta possibile, e non resta ad alcun associato niente da rivendicare. Patto sociale sarà definibile come:” ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; riceviamo in quanto corpo ciascun membro come parte indivisibile del tutto.” Si produce dunque un corpo morale collettivo, una repubblica, un corpo politico, chiamato dai suoi membri Stato quando è passivo, corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Gli associati prendono il nome collettivo di popolo, singolarmente sono cittadini, e sudditi in quanto sottoposte le leggi dello Stato.

 

 

VII: DEL CORPO SOVRANO

 

Ciascun individuo e così un membro del corpo sovrano verso i singoli, ed è membro dello Stato verso il corpo sovrano. Il corpo sovrano non si può imporre una legge che esso non posso infrangere, non limita da se stesso il suo potere. Esso non si può obbligare a nulla che violi il patto originario della sua creazione; violare l'atto per il quale esso esiste, sarebbe annientarsi . Il corpo non ha né può avere alcun interesse contrario all’interesse dei suoi membri, e quindi non necessita di dare loro garanzie. Al contrario esso deve trovare dei mezzi per assicurarsi la fedeltà dei propri sudditi, così dunque si stabilirà: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo. Ciò non significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero (da ogni condizionamento, di dipendenza personale).

 

 

VIII: DELLO STATO CIVILE

 

Lo Stato in cui così si trova l'uomo, sostituirà nella sua condotta la giustizia all'istinto, e darà le sue azioni da moralità che ad esse mancava. Solo quando il dovere sostituirà l'impulso fisico il diritto sostituirà l'appetito, l'uomo si vede obbligato ad agire secondo altri principi e a consultare la sua ragione prima di cedere alle inclinazioni. In questo stato egli si priva di molti vantaggi derivanti dalla natura in cambio ne ottiene facoltà esercitate sviluppate, idee allargate, sentimenti più nobili e un'anima elevata così da farsi benedire la sua uscita dallo stato di natura (se non fosse degli abusi di questa condizione lo degradano spesso al di sotto di quella da cui è uscito). La libertà naturale che l'uomo perde era limitata solo dalle sue forze, quella civile che ora ha acquistato è limitata dalla volontà generale.

 

 

IX: DEL DOMINIO REALE

 

Siccome le forze dello Stato sono incomparabilmente più grandi di quelle di un singolo, così il possesso pubblico è più forte e più irrevocabile, ma non più legittimo: lo Stato è così padrone di tutti i beni dei cittadini, in forza del contratto sociale. Il diritto del primo occupante, perde importanza alla stipulazione del contratto. In generale, perché sIA autorizzato su un terreno qualunque il diritto del primo occupante, occorrono le seguenti condizioni: che il terreno non s'è ancora abitato da nessuno; che si occupi solo la quantità necessaria per la parte sussistenza; che se ne prenda possesso lavorandolo e coltivandolo. La società così acquisisce i beni dei singoli e, in questo modo ne garantisce loro il possesso legittimo, cambia un’ usurpazione di diritto (primo venuto) in un godimento di proprietà.

Invece di distruggere l’uguaglianza naturale, il patto fondamentale sostituisce al contrario un’uguaglianza morale e legittima a quel tanto d’inuguaglianza fisica che la natura aveva potuto mettere tra gli uomini; questi pur potendio essere disuguali per forza o per ingegno, divengono tutti uguali per convenzione e diritto.

 

 

 

 

Libro Secondo

 

 

I: LA SOVRANITA’ E’ INALIENABILE

 

Solo la volontà generale può dirigere la potenza dello Stato, mirando esclusivamente al bene comune. La divergenza di interessi che ne ha resa necessaria la creazione ora è vista negli elementi comuni  di essi, che saranno le basi del governo di tale Stato. La sovranità non può essere mai alienata (donata), e il corpo sovrano non può che essere rappresentato da se stesso: si può trasmettere il potere non la volontà. L’interesse di un individuo può accidentalmente incontrarsi con quello dello Stato, ma di tendenza il primo andrà verso delle preferenze, mentre il secondo andrà verso un interesse comune di uguaglianza.

 

 

II: LA SOVRANITA’ E’ INDIVISIBILE

 

La volontà generale è dichiarata un atto di sovranità e costituisce una legge; la volontà particolare è un atto di magistratura o tutt’al più un decreto. Gli scrittori politici dividono l’oggetto della sovranità, dividono forza e volontà, in potere legislativo e potere esecutivo. Il diritto di guerra, d’imposta, di amministrazione pubblica etc.; così si fa del corpo sovrano, un ente fantastico e sovrapposto di tanti elementi. Tutte le volte che si vedrà la sovranità divisa ci si inganna;  i diritti che si considerano come parti di questa sovranità sono tutti ad essa subordinati e implicano sempre delle volontà supreme di cui questi diritti non fanno che consentire l’esecuzione.

 

 

III : SE LA VOLONTA’ GENERALE POSSA ERRARE

 

La volontà generale è sempre retta e sempre volta al bene pubblico, ma le deliberazioni del popolo non sono ugualmente rette. Considerano tutte le volontà singole in confronto esse si rispecchierebbero nelle loro molte differenze, ma se esse si associassero e una di tali associazioni divenisse la più forte tale volere non sarebbe più generale. E’ necessario dunque , per avere veramente l’espressione della volontà generale, che vi sia nello Stato nessuna società parziale e che ogni cittadino non pensi che secondo il suo giudizio. Quindi bisogna evitare società parziali, o come dice Machiavelli  evitare che si formino in sette, o quando non si possano evitare lasciare che si moltiplichino e che si crei disuguaglianza.

 

 

IV: DEI LIMITI DEL POTERE SOVRANO

 

Tutti i servigi che un cittadino può rendere allo Stato devono essergli resi non appena il corpo sovrano li richieda; ma il corpo sovrano non può opprimere i sudditi con catene inutili alla comunità. Gli impegni che ci legano al corpo sociale sono obbligatori solo in quanto reciproci; e la loro natura è tale che, adempiendoli, non si può lavorare per gli altri senza lavorare anche per sé. Se la volontà segue uno dei singoli o una associazione di essi si avrà un ingiustizia. Ma allora cos’è un atto della sovranità? Una convenzione del corpo con ciascuno dei suoi membri: convenzione legittima, perché ha per base il contratto sociale; equa, perché comune a tutti; utile, perché non può avere altro oggetto se non il bene generale; e solida, perché ha per garanzie la forza pubblica e il potere supremo. Il potere sovrano dunque non passa e non può passare i limiti delle convenzioni generali.

 

 

V: DEL DIRITTO DI VITA E DI MORTE

 

Il petto sociale ha come fine la conservazione dei contraenti. Chi vuole il fine vuole anche i mezzi, e questi mezzi sono inseparabili da alcuni rischi, e anche da alcune perdite. Chi vuole conservare la sua vita con l’aiuto degli altri deve anche darla per essi quando occorra. Quindi quando il principe gli dice :”Occorre allo Stato che tu muoia”, egli deve morire, perché è solo a questa condizione che egli ha vissuto in sicurezza fino ad allora, e perché la sua vita non è più soltanto un beneficio della natura, ma un dono condizionale dello Stato. La pena di morte ai criminali va considerata pressappoco presso la stessa luce, visto che l’omicida ha rotto il patto sociale e si è fatto nemico del corpo sovrano.

 

 

VI : DELLA LEGGE

 

Ogni giustizia viene da Dio ma noi non sappiamo sempre trarla; esiste una giustizia universale concepita dalla ragione, ma essa richiede di essere reciproca. Occorrono dunque convenzioni e leggi per ricondurre la giustizia al suo oggetto. La materia su cui si delibera è generale come la volontà che delibera. E’quest’atto che va chiamato legge. La legge considera i sudditi come un corpo generale e le azioni come astratte; così essa stabilisce privilegi, senza darli a nessuno in particolare, costituisce diverse classi di cittadini senza comprenderne nessuno. Ogni funzione che si riferisca a un oggetto individuale non appartiene al potere legislativo. Esse saranno redatte dalla volontà generale, in modo che nessuno possa essere maligno con nessuno, visto che nessuno è maligno con se stesso. Tutto ciò che si esprime su un oggetto particolare, non è una legge ma un decreto, non è un atto di sovranità ma di magistratura. Repubblica è dunque ogni Stato retto da leggi ( aldilà della sua amministrazione formale) perché esso governa l’interesse pubblico, e la cosa pubblica è qualche cosa. Le leggi sono così condizioni dell’associazione civile.

I singoli vedono il bene che non vogliono: la collettività vuole il bene che non vede. Tutti hanno ugualmente bisogno di guida, c’è dunque necessità di un legislatore.

 

 

VII: DEL LEGISLATORE

 

Ci vorrebbero degli dei per dare le leggi agli uomini. Ma mentre il principe è un operaio che fa muovere la macchina,  il legislatore è il meccanismo che crea la macchina. Egli bisognerà di sostituire un‘esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che tutti noi abbiamo ricevuto dalla natura, bisogna che annulli le forze naturali dell’uomo e gliene dia altre; e tanto più riuscirà a sostituire certe forze , tanto più tale Stato sarà stabile e sicuro. Il legislatore dovrà essere estraneo a magistratura e sovranità, poiché egli sarà una carica unica dello Stato, è un funzione singolare e superiore che non ha niente di comune con l’autorità umana (perché se chi comanda sugli uomini non deve comandare sulle leggi, neanche chi comanda sulle leggi devo comandare sugli uomini). Chi redige le leggi non ha né deve avere alcun diritto legislativo, e il popolo stesso non può, anche se lo volesse, spogliarsi di questo diritto incomunicabile, poiché solo la volontà generale deve avere il potere di obbligare i singoli. Il legislatore,non potendo adoperare né la forza né il ragionamento (visto che egli individuo dovrà trovare il giusto per i bisogni della collettività, dunque fare ricorso ad un intelletto superiore ed ad una razionalità sublime), deve ricorrere ad una autorità di altra specie: è l’autorità divina di cui dovrà farsi interprete e le cui decisioni dovranno essere messe nella bocca degli immortali. Non bisogna dunque concludere che la politica e la religione abbiano nel nostro mondo un oggetto comune, ma che, all’origine delle nazioni, l’una serve di strumento all’altra.

 

 

VIII: DEL POPOLO

 

Il saggio fondatore dello Stato deve, come il buon architetto, testare le sue fondamenta, dunque deve capire se il popolo possa sopportare certe leggi. Ogni popolo può sopportare un certo tipo di leggi a seconda del suo retaggio. Vi è per ogni popolo un periodo di maturità in cui possono essere inciviliti e controllati con leggi; ogni popolo ha bisogno di un’analisi per capire i suoi tempi, e dove questa analisi si s sbagli o il tempo propizio passi via, la libertà non sarà recuperabile, o il governo sarà pessimo (Pietro I zar di Russi, che fa inglesi e tedeschi quando ancora non ha fatto i russi).

 

 

IX: DEL POPOLO (SEGUITO)

 

Come ogni uomo ha una dimensione massima naturale, ogni Stato deve avere una giusta estensione, ed ogni corpo politico ha un Maximum di forza che non deve oltrepassare. I sudditi avranno meno benevolenza per il sovrano, le province con esigenze diverse berranno accomunate erroneamente alle stesse leggi, lo Stato si farà sentire sempre meno con la lontananza. Vi sono molte buone ragioni per estendersi e molte buone restringersi, un buon governante deve saperle cogliere e utilizzarle sempre a buon vantaggio del popolo.

 

 

X: DEL POPOLO (SEGUITO)

 

Gli uomini fanno lo Stato ed è il suolo a nutrire gli uomini: questo rapporto dunque deve essere tale per cui la terra basti al sostentamento dei suoi abitanti, e per cui vi siano tanti abitanti quanti la terra possa nutrirne. In questa proporzione sta il Maximum di forza di una data quantità di popolazione. Naturalmente dovrà anche prevedere, il principe lo stato futuro della sua popolazione, ovvero si dovrà basare sulla fertilità delle donne ed alle quantità di cibo consumate. Tutti questi parametri vanno rivisti in caso di guerra, per le difficili situazioni cui essa conduce, e vanno riconsiderati anche in luce del territorio che si considera.

 

 

XI:DEI DIVERSI SISTEMI DI LEGISLAZIONE

 

I maggiori beni in assoluto, solo la libertà e l’uguaglianza  . La forza delle cose tenderà sempre a distruggere l’uguaglianza, ma la forza delle leggi dovrà tendere sempre a conservarla. Oltre che dalle regole che valgono per tutti, ogni Stato deve essere mantenuto da qualche causa che lo ordina in maniera particolare e rende la sua legislazione adatta soltanto ad esso. Come suggerisce Montesquieu le leggi devono cercare di rettificare principi naturali, se troppo si distanziano da essi non saranno che instabili e renderanno instabile anche il governo.

 

 

XII: DIVISIONE DELLE LEGGI

 

Il rapporto del tutto col tutto (del corpo politico con se stesso) è fondamentale per regolamentare bene uno Stato. Le leggi che regolano questo rapporto saranno leggi politiche. La seconda relazione fondamentale è quella dei membri tra di loro o con il corpo interno (ogni cittadino dovrà essere molto indipendente rispetto agli altri cittadini ma molto dipendente rispetto allo Stato): queste saranno le leggi civili. Infine vi sarà una terza relazione, quella della disobbedienza e della pena: da essa nasceranno le leggi criminali. A queste si  unirà un ultimo tipo di legge che albergherà nel cuore dei cittadini e che formerà la vera spina dorsale dello Stato: i costumi, le consuetudine e l’opinione.

 

 

 

Libro terzo

 

 

I: DEL GOVERNO IN GENERALE

 

Ogni azione libera ha due cause che concorrono a produrla: l’una morale, cioè la volontà che determina l’atto, l’altra fisica, cioè la forza che la esegue. Il corpo politico ha gli stessi motori: la volontà come potere legislativo, la forza come potere esecutivo. Occorre dunque la forza pubblica un agente che la riunisca e la  traduca in un atto secondo le direttive della volontà generale, che renda possibile comunicazione tra lo Stato e il corpo sovrano, che faccia nella persona pubblica ciò che l'unione dell'anima e del corpo fa nell'uomo.

Che cos'è dunque il governo? Un corpo intermediario istituito tra i sudditi e il corpo sovrano con la loro reciproca corrispondenza, incaricato della esecuzione delle leggi e del mantenimento della libertà sia civile e politica. I membri di questo corpo si chiamano magistrati o Re, cioè ai governatori: è il corpo intero prende il nome di principe. Il governo riceve dal corpo sovrano gli ordini che dà al popolo; affinché lo Stato siano il giusto equilibrio occorre che vi sia uguaglianza tra il potere del governo preso in sé stesso, e il potere dei cittadini, che sono da un lato sovrani e dall'altro sudditi. Il potere di legge di un cittadino diminuisce all'aumentare del numero dei cittadini. Quindi quanto meno le volontà particolari si riferiscono alla volontà generale tanto più deve aumentare la forza repressiva. Dunque il governo deve essere più forte man mano del popolo diventa più numeroso. Di conseguenza quanto più forza deve avere il governo per tenere a bada il popolo, tanto più deve averne a sua volta il corpo sovrano per tenere a bada il governo. Naturalmente lo Stato esiste per sé stesso, mentre il governo non esiste che per il corpo sovrano. Perché il corpo del governo abbia un'esistenza, una vita reale che non distinguono il corpo dello Stato, gli occorre un io particolare, ovvero delle assemblee, dei consigli, un potere di deliberare di risolvere, dei diritti, dei titoli, dei privilegi che appartengono esclusivamente al principe.

 

 

II: DEL PRINCIPIO CHE COSTITUISCE LE DIVERSE FORME DI GOVERNO

 

Il corpo dalla magistratura può essere composto da un numero più o meno grande di membri. Dunque, più i magistrati sono numerosi, più il governo è debole. Nel magistrato possiamo distinguere tre volontà: le volontà propria dell'individuo (tendente al vantaggio personale), la volontà comune dei magistrati (che si riferisce vantaggio del principe), la volontà del popolo o volontà sovrana, che è generale sia rispetto lo stato considerato come tutto, sia rispetto il governo considerato come parte del tutto. In una legislazione perfetta la volontà particolare deve essere nulla; la volontà di corpo proprio del governo molto subordinata; e per conseguenza la volontà generale o sovrana sempre dominante regola unica di tutte le altre. Di conseguenza se in un governo il potere nelle mani di un solo uomo, la volontà particolare e la volontà di corpo sono perfettamente riunite, e per conseguenza quest'ultima raggiunge il più alto grado d'intensità possibile. Ora, siccome l'uso della forza di prendere il grado di volontà, e la forza assoluto del governo non può variare, ne segue che il più attivo dei governi è quello di uno solo.

Al contrario, uniamo il governo l'autorità legislativa; facciamo dal corpo sovrano il principe, e di tutti cittadini altrettanti magistrati: allora la volontà di corpo, confusa con la volontà generale, non avrà maggiore attività di essa, e lascerà alla volontà particolare tutta la sua forza: così il governo, sempre con la stessa forza assoluto, sarà al suo minimum di forza relativa o di attività.

È certo anche che il disbrigo degli affari diventa più lento quante più persone siano incaricate; così si lascia troppa prudenza e non si concede abbastanza alla fortuna; si lascia sfuggire l'occasione a forza di deliberare si perde spesso il frutto della deliberazione. Ma da tutto ciò deriva che il rapporto tra i magistrati il governo dev'essere inverso del rapporto tra i sudditi e il corpo sovrano; cioè, più lo Stato si ingrandisce, più il governo deve restringersi, in modo che il numero dei capi diminuisca in proporzione all'aumentare del popolo. R. ci dice che si parla solo della forza relativa e non della rettitudine del governo: perché al contrario, quanto più numerosi siano i magistrati, tanto più la volontà del corpo si avvicinerà alla volontà generale; mentre sotto magistrato unico questa stessa volontà di corpo non è che una volontà particolare. Così si perde da un lato ciò che si può guadagnare dall'altro,  e l'arte del legislatore sta nel saper fissare il punto, in cui si combinino la forza e la volontà di governo nel rapporto più vantaggioso per la Stato.

 

 

III: DIVISIONE DEI GOVERNI

 

Il corpo sovrano può fare depositario del governo tutto il popolo o la maggior parte di esso: questa forma di governo è la democrazia.

Oppure si può restringere la magistratura nelle mani di una minoranza: questa è un'aristocrazia.

Infine si può concentrare tutto il governo nelle mani di un magistrato unico: questa terza forma nella più comune e si chiama monarchia.

Può risultare da queste tre forme combinate una moltitudine di forme miste, di cui ciascuna moltiplicarle per tutte le forme semplici. Non esiste una forma di governo migliore in assoluto ma ognuna da considerare valutare, intorno alla situazione di cui è reggente.

 

 

IV: DELLA DEMOCRAZIA

 

Chi fa la legge sa meglio di ogni altro in quale modo debba essere seguita; sembrerebbe quindi la migliore forma di governo è la democrazia in cui potere esecutivo è unito legislativo: ma proprio questo rende questo governo insufficiente per certi aspetti, perché le cose che devono essere distinte non lo sono, e il principe e il corpo sovrano, essendo la stessa persona non formano che un governo senza governo. L'abuso delle leggi da parte del governo è un male minore della corruzione del legislatore, inevitabile conseguenza del particolare. Un popolo che governasse sempre bene non avrebbe bisogno di essere governato.

Apprendere il termine la sua rigorosa accezione, non è mai esistita una vera democrazia, ne esisterà mai; adesso si richiederebbe uno stato molto piccolo, una grande semplicità di costumi, una grande uguaglianza dei gradi e nelle fortune; infatti Montesquieu pone alla base della Repubblica le virtù. Esso sarà il governo più esposto alle guerre civili delle agitazioni interne. R. apostrofa che  “ se vi fosse un popolo di dei, esso si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non conviene gli uomini”.

 

 

V: DELL’ ARISTOCRAZIA

 

Abbiamo in questo caso due persone morali ben distinte: il governo e il corpo sovrano; e di conseguenza due volontà generali, una rispetto tutti cittadini, l'altro soltanto per i membri dell'amministrazione. Le prime società si governarono aristocraticamente; i giovani credevano senza difficoltà all'autorità dell'esperienza: dei preti, di anziani, di senato, di geronti. Via via che l’inuguaglianza istituzionale del sopravvento sull'inuguaglianza naturale, la ricchezza e la potenza furono preferite all'età, l'aristocrazia divenne elettiva. Vi sono tre specie di aristocrazia: naturale, elettiva, è ereditaria. La prima dei popoli semplici ,la terza era peggiore di tutti governi, la seconda è il migliore, è l'aristocrazia propriamente detta. Qui magistrati saranno scelti per elezione, che andrà ben regolamentata onde non cadere in dinastie ereditarie; inoltre le pratiche governative si svolgeranno più velocemente e lo Stato sarà rappresentato all'estero da pochi esperti senatori, e non da un'ignota moltitudine. Essa chiede meno condizioni meno virtù della democrazia, ma richiede la moderazione nei ricchi e lo spirito di adattamento dei poveri, perché sembra che un'uguaglianza rigorosa sarebbe rimessa fuori posto.

 

 

VI: DELLA MONARCHIA

 

A differenza delle altre amministrazioni in cui un essere collettivo rappresenta un individuo, in questa  un individuo rappresenta un essere collettivo. Un difetto essenziale e inevitabile, che metterà sempre il governo monarchico al disotto di quello repubblicano, e che mentre in quest'ultimo il voto pubblico non innalza quasi mai nei primi posti che uomini illuminati capaci, coloro che arrivano all'apice delle monarchie sono il più delle volte piccoli imbroglioni, piccoli bricconi, piccoli intriganti. Le dimensioni dello Stato monarchico devono essere commisurata le capacità di chi lo governa, infatti bisognerebbe che un regno si estendesse o si restringesse secondo il valore del principe. L'inconveniente più sensibile del governo di uno solo è la mancanza di quella successione continua che forma nelle altre due specie di governo un legame ininterrotto. Quando si cerca di dare costanza questo governo si  incappa spesso nell'ereditarietà che costituisce la rovina di questo governo.

 

 

VII: DEI GOVERNI MISTI

 

Non esistono governi semplici; il governo semplice è il migliore in sé per il solo fatto di esser semplice; ma quando il potere esecutivo non dipenda abbastanza dal legislativo, cioè quando il rapporto tra il principe e il corpo sovrano sia più grande di quello tra popolo del principe, bisogna rimediare a questo difetto di proporzione dividendo il governo.

 

 

VIII:COME OGNI FORMA DI GOVERNO NON SIA ADATTA AD OGNI PAESE

 

Le libertà, non essendo un frutto di tutti i climi, non è alla portata di tutti popoli. Quanto più aumenta la distanza tra il popolo e il governo, tanto più i tributi diventano onerosi: così nella democrazia il popolo è meno gravato; nell’aristocrazia maggiormente; nella monarchia porta il più gran peso. Quindi convengono rispettivamente a stati poveri o piccoli, a stati di media ricchezza ed a stati opulenti..

 

 

IX: DEI SEGNI DI UN BUON GOVERNO

 

Il numero e la popolazione. Non andate dunque cercare altrove questo segno così discusso. A parità di condizioni, il governo sotto il quale, senza mezzi estranei, senza naturalizzazioni, senza colonie, il paese sia popolato e i cittadini si moltiplichino maggiormente, è infallibilmente il migliore.

 

 

X: DELL’ABUSO DEL GOVERNO E DELLA SUA TENDENZA A DEGENERARE

 

Come la volontà particolare agisce senza tregua contro la volontà generale, così il governo fa uno sforzo continuo contro la sovranità. Più lo sforzo aumenta più la costituzione si altera; e vista l'assenza di una volontà di corpo che bilanci quella del principe ,il principe opprimerà e il patto sociale sarà rotto.

Il governo degenera in due modi fondamentali: quando si restringe, o quando lo Stato si dissolve. Si restringe quando passa da un grande numero uno più piccolo cioè dalla democrazia all'aristocrazia, dall'aristocrazia alla monarchia; bisognerà quindi ricaricare e stringere la molla man mano che essa ceda: altrimenti lo Stato che essa sostiene cadere dei rovina. La dissoluzione può presentarsi in due modi: quando il principe non amministra più lo Stato secondo le sue leggi, ed usurpa il potere sovrano; lo stesso caso si presenta quando i membri del governo usurpano separatamente il potere che devono esercitare solo collettivamente.

Quando lo Stato si dissolve, l'abuso di governo, qualunque esso sia, viene chiamato anarchia. La democrazia degenera in oclocrazia, l'aristocrazia in oligarchia,la monarchia in tirannide. Secondo la definizione corrente, un tiranno è un re che governa con violenza e senza riguardo alla giustizia e alle leggi. Secondo la definizione più precisa un tiranno è un privato che si trova all'autorità regia senza averne diritto, al di là del suo bene o male governare la sua autorità non è legittima. Il tiranno è usurpatore dell'autorità regia, il despota è l'usurpatore del potere sovrano: tiranno è colui che chiama a sé contro le leggi il potere di governare secondo le leggi; il despota è colui che si mette al di sopra delle leggi stesse. Dunque il tiranno può non essere despota, ma il despota sempre tiranno.

 

 

XI: DELLA MORTE DEL CORPO POLITICO

 

Il corpo politico come il corpo umano inizia a morire già dalla nascita e porta in sé stesso le cause della sua distruzione. Il principe della vita politica è nell'autorità sovrana. Il potere legislativo è il cuore dello Stato, il potere esecutivo né è il cervello, che dà il movimento a tutte le parti. Il cervello può essere colpito da paralisi e l'individuo vivere ancora, ma non appena il cuore ha cessato di funzionare, l'animale è morto. Le leggi spesso sopravvivano allo stato e sono rispettate dal corpo sovrano, che nonostante possa rifiutarle non lo fa.

 

 

XII: COME SI  MANTENGA L’AUTORITA’ SOVRANA

 

Il corpo sovrano non agisce che per mezzo delle leggi, espressioni della volontà generale; il corpo sovrano non può agire se il popolo non è radunato. Il popolo romano censito 4 milioni di uscire a riunirsi mai  meno di una volta ogni due settimane.

 

 

XIII: COME SI MANTENGA L’AUTORITA’ SOVRANA

 

C'è bisogno di assemblee fisse, sempre seguite; ogni assemblea che non sia stata convocata da magistrati preposti deve essere considerata illegittima perché l'ordine stesso di adunarsi deve essere emanato dalla legge. L'autorità sovrana non si deve dividere deve rimanere una, non deve lasciarsi governare da una sconfitta, il territorio deve essere popolato in maniera uniforme e non si devono comprendere troppe città grandi.

 

 

XIV: COME SI MANTIENE L’AUTORITA’ SOVRANA

 

Durante l'assemblea la giurisdizione del governo è sospesa, perché dove si trova il rappresentato non vi sono più rappresentanti. Ma a volte tra autorità sovrana e il governo arbitrario si introduce un potere intermedio, di cui occorre parlare.

 

 

XV: DEI DEPUTATI O RAPPRESENTANTI

 

Nel momento in cui il servizio fuori della comunità cessa di essere l'interesse primo dei cittadini, ed essi preferiscono servire con la loro borsa anziché con la loro persona, lo Stato è già prossimo rovina. Date denaro e ben presto avrete catene. La finanza è una parola da schiavo e nel vero Stato non è conosciuta. L’intiepidimento dell'amor di patria, l'attività dell'interesse privato, l'immensa estensione degli stati, l'abuso di governo hanno fatto escogitare l'espediente dei deputati o rappresentanti del popolo nelle assemblee della nazione. È ciò che in certi paesi si offre chiamare il terzo Stato. La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata. Ogni legge che non è stata ratificata direttamente del popolo non dovrebbe essere legge. La idea di rappresentanti deriva dal governo feudale. È chiaro che nel potere legislativo il popolo non può essere rappresentato, ma può e deve esserlo nel potere esecutivo.

 

 

XVI: COME L’ISTITUZIONE DEL GOVERNO NON SIA UN CONTRATTO

 

Essendo i cittadini tutti uguali in base ad un contratto sociale, quello che tutti debbono fare deve poter essere stabilito da tutti, mentre nessuno ha il diritto di esigere che un'altra faccia quello che non fa gli stesso. Ora è proprio questo diritto, indispensabile per far vivere e muovere il corpo politico, che il corpo sovrano da al principe istituendo il governo. Molti sostengono che questo sia un patto tra il popolo e i capi che esso si dà, contratto con cui le parti si obbligherebbero una a comandare, l'altra a ubbidire. È assurdo che un corpo sovrano si dia un superiore e il contratto che si stipulerebbero sarebbe un atto particolare, sarebbe illegittimo. Non vi è che un contratto nello stato, quello dell'associazione e questo non esclude ogni altro.

 

 

XVII: DELL’ISTITUZIONE DEL GOVERNO

 

L'atto d'istituzione del governo è composto di due atti: l'istituzione della legge, l'esecuzione della legge. Col primo il corpo sovrano stabilisce che vi sarà un corpo di governo costituito in questo o in quella forma (è un atto di legge). Con il secondo il popolo nomina i capi che saranno incaricati del governo costituito, è una funzione della legge è conseguenza di essa. Come si può avere un atto di governo prima che il governo esista? Perché questo atto si fa con una subitanea conversione della sovranità in democrazia, di modo che senza cambiamento sensibile e con una nuova relazione di tutti rispetto tutti, i cittadini divenuti magistrati, passano dagli atti generali agli atti particolari, e dalla legge all'esecuzione.

 

 

XVIII: PER PREVENIRE LE USURPAZIONI DEL GOVERNO

 

Il principe facendo credere di usare solo i suoi diritti, può facilmente estenderli, e porre ostacoli, col pretesto della tranquillità pubblica, alle assemblee destinate a ristabilire l'ordine; in tal modo approfitta di un silenzio che egli stesso impedisce di rompere, per supporre in suo favore il consenso di coloro che la paura fa tacere e per punire coloro che parlano. Le assemblee periodiche sono adatte a prevenire o almeno differire questa disgrazia queste assemblee devono sempre aprirsi con la votazione separata di due proposte da considerarsi insopprimibili:” se piaccia al governo sovrano conservare la presente forma di governo” e “se piaccia al popolo lasciare l'amministrazione coloro che ne sono attualmente incaricati”.

 

 

Libro Quarto

 

 

I: LA VOLONTA’ GENERALE E’ INDISTRUTTIBILE

 

Spesso dei cittadini eruditi confondono gli altri con parole o macchinazioni politiche, rendendo instabile il patto che sta alla  base del l’istituzione sociale. Quando lo Stato si avvicina alla rovina,la volontà generale non sussiste che come una forma vana e illusoria, diventa muta come se lo Stato non fosse mai esistito e tutti i cittadini divengono guidati da segreti motivi.

Da ciò però la volontà non è distrutta, rimane costante ,inalterabile e pura; ma è subordinata ad altre volontà che prevalgono su di essa.

 

 

II: DEI SUFFRAGI

 

È dunque il modo in cui si trattano gli affari generali a determinare lo stato della volontà generale; più l'accordo regna nelle assemblee, cioè più si avvicinano all'unanimità, più la volontà generale è dominante. L'unanimità l'abbiamo quando accade che i cittadini, caduti in schiavitù, non hanno più libertà né volontà . Allora la paura dell'adulazione ne cambiano i suffragi in acclamazioni, non si delibera più, si adora o si maledice. Da ciò dobbiamo stabilire i principi di base con i quali si devono regolare il modo di contare i voti e quello di confrontare i pareri. Non vi è che una sola legge che per sua natura esiga un consenso unanime; è il patto sociale; perché l'associazione civile è l’atto più volontario del mondo. Quando al momento da stipulazione del patto vi fossero degli oppositori, la loro opposizione non invaliderebbe il contratto, ma impedirebbe loro di esserne compresi: sono stranieri tra i cittadini. Una volta che lo stato è istituito, il consenso consiste nella residenza; abitare il territorio significa sottomettersi alla sovranità. Il cittadino si sottometterà anche le leggi votate suo malgrado ; essi voteranno non l'approvazione della legge, ma la sua conformità alla volontà generale; è come se si rendesse necessaria una votazione fatta per e con la volontà generale, e non con la volontà del singolo cittadino. Due principi possono regolare i rapporti tra unanimità e uguaglianza: uno è che le deliberazioni sono importanti e gravi, quando più il parere dominante deve avvicinarsi all'unanimità; l'altro, che più l'affare trattato esige celerità, più si deve restringere la differenza prescritta nella divisione dei pareri (ne le deliberazioni che bisogna concludere immediatamente una differenza di un solo voto può bastare); che prima di questa regole molto adatta alle leggi, la seconda ai provvedimenti particolari.

 

 

III: DELLE ELEZIONI

 

Due sono i modi di eleggere il principe e i magistrati: la scelta è la sorte. Montesquieu suggeriva che la sorte è nella natura delle democrazie vista l’ambascia d'ogni cittadino la speranza di servire la patria. Riflettendo sulla funzione di governo e non di sovranità dell'elezione, la sorte sarebbe il migliore dei criteri visto l'onere che essa attribuisce. La sorte sarebbe ottima per la democrazia dunque se non fosse che non esiste nessuna reale democrazia.

Quando si ricorre sia alla scelta che alla sorte, la prima deve essere su dei posti che richiedono capacità specifiche, l'altra quelli dove basti il buon senso, la giustizia, l'integrità, perché in uno stato ben ordinato esse sono comuni a tutti cittadini. Nel governo monarchico non c'è posto per i suffragi né per la sorte.

 

 

IV: DEI COMIZI ROMANI

 

Dopo la fondazione di Roma, una repubblica nascente, cioè l'esercito fondatore, composto di Albani, Sabini e stranieri, fu diviso in tre classi, che da questa divisione presero il nome di tribù; ciascuna di queste tribù suddivise in dieci curie e ogni curia in decurie, alla testa delle quali si misero curioni e decurioni. Si trasse inoltre dalle tribù un corpo di cavalieri chiamato centuria; l'organizzazione è dunque solo militare. E’ come se fosse stata istituita per dare alla piccola Roma una costituzione adatta alla capitale del mondo. Visti i rapporti troppo mutevoli nel numero delle varie tribù, Servio decise di cambiare divisione basandola sui luoghi di città occupati da ogni tribù. Esse divennero quattro con i nomi dei colli di Roma che occupavano, proibendo inoltre a ogni cittadino della tribù di vivere nel territorio di un'altra. A queste quattro tribù urbane aggiunse inoltre 15 tribù rustiche , abitanti della campagna, divise in altrettanti cantoni. Il numero di 35 tribù rimase inalterato fino alla Repubblica; al contrario di ciò che si può immaginare le tribù rustiche ottennero sempre più onori, grazie alle loro attività dello stato semplice e civilmente utile dei suoi cittadini, le tribù urbane erano quelle meno stimate. Il principio però fu spinto oltre e divenne un abuso di costituzione: i censori lasciarono trasferire arbitrariamente cittadini da una tribù all'altra, così la distinzione saltò e non si potevano distinguere i membri di ciascuna. Così le tribù urbane, che vivevano vicine  e quindi avevano maggiore capacità di unione vendettero lo stato a coloro che non disdegnavano di comprare i suffragi  delle canaglie  che li componevano. Nel momento in cui Servio dovette applicare un’altra suddivisione agli abitanti di Roma, non si parlò più di curie e di tribù viste che esse, ora totalmente civili, avevano perso ogni valore militare; allora si procedette  alla divisione del popolo romano in 6 classi distinte in base alla quantità dei beni posseduti. Servio cercò di dare un assetto militare a questa riforma inserendo servizi di leva e assemblee presso il Campo di Marte . La suddivisione di queste classi influì sul modo di scegliere i soldati.

Le assemblee convocate legittimamente si chiamavano comizi e si distinguevano in : comizi per curie , comizi per centurie , comizi per tribù. I comizi per curie erano istituzioni di Romolo; quelli per centurie di Servio; quelli per tribù dei tribuni del popolo. Le leggi  e l’elezione dei capi non erano le sole cose sottoposte al giudizio dei comizi: dato che il popolo romano  aveva usurpato le più importanti funzioni del governo , le sorti dell’intera Europa erano decise nelle sue assemblee.

Romolo istituendo le curie mirava a controllare il senato per mezzo del popolo e il popolo per mezzo del senato. Diede dunque al popolo tutta l’autorità del numero per bilanciare la potenza e le ricchezze dei patrizi, ma lasciò ai patrizi una posizione privilegiata in virtù dell’influenza che i loro clienti esercitavano  sulla maggioranza dei votanti ( R. ci dice che questo sistema non creò mai  abusi , tuttavia la stoia non lo ha seguito ) . Sotto la repubblica le curie  non potevano rispondere alle esigenze del senato (visto che esse erano plebee  mentre il senato patrizio ) né a quelle dei tribuni ( che sebbene plebei erano a capo di cittadini agiati) ; così caddero in discredito.

La divisione per centurie  era favorevole alla aristocrazia che possedendo 98 delle 193 centurie che formavano tutto il popolo romano, se tutte esse fossero state d’accordo,non si sarebbe necessitato di continuare i suffragi anche presso le altre classi. Questo strapotere era mitigato con 2 mezzi: appartenendo di solito i tribuni, e sempre un gran numero di plebei alla classe dei ricchi , essi bilanciavano l’influenza dei patrizi in questa prima classe . Il secondo mezzo era di far votare le centurie secondo un ordine estratto a sorte ( praerogativa) , in modo da far votare ogni centuria un giorno diverso e da togliere così  l’autorità dell’esempio al censo, per darlo alla sorte  secondo il principio della democrazia ciò era buono anche perché le classiche votavano per ultime vedevano già il lavoro del candidato provvisorio; il pretesto della rapidità abolì questo uso.

I comizi tributi erano il consiglio del popolo romano, il senato non aveva nemmeno il diritto di assistervi (R. sostiene ingiusto e contro la volontà generale  non lasciare agli altri cittadini , per altro impotenti su questi comizi,la possibilità di assistervi) .

I comizi tributi erano dunque favorevoli al governo popolare , quelli centuriati all’aristocrazia ,quelli curiati viaggiavano verso la tirannia. È certo che tutta la maestà del popolo romano si trovava nei comizi centuriati , i soli ad essere completi ( visto che in  quelli curiati mancavano  le tribù rustiche  e nei comizi tributi  il senato e i patrizi ).

I suffragi erano raccolti  da un cancelliere  che a mano scriveva  i voti  espressi ad alta voce : la maggioranza dei voti di ogni tribù determinava il suffragio della tribù ; la maggioranza di quelli di tutte le tribù determinava il suffragio del popolo ; e così delle curie e delle centurie. Questa usanza era buona  quando l’onestà regnava tra i cittadini, infatti quando il popolo si corruppe il voto acquistò segretezza; Cicerone attribuisce in parte a questo cambiamento la rovina della repubblica, R. pensa invece che il non aver fatto  abbastanza cambiamenti simili  accelerò la perdita dello stato, poiché non bisogna voler governare un popolo corrotto con le stesse leggi  che convengono a un popolo onesto. Si passò al voto scritto su tavolette e organizzato da ufficiali incaricati la cui fedeltà fu sempre sospetta .

 

 

 

 

V:DEL TRIBUNATO

Nel momento in cui la proporzione esatta tra le parti costitutive dello stato  si altera, si istituisce una magistratura speciale che funge da termine medio tra il principe e il popolo  e tra il principe e il corpo sovrano : esso sarà il tribunato, e avrà il compito di tutelare le leggi e il potere legislativo. Esso non è parte dello stato e non deve avere alcuna porzione del potere legislativo né di quello esecutivo : il suo potere è più grande, non può far nulla , ma può impedire tutto . Il tribunato è il più fermo appoggio di una buona costituzione ma ,per poco che abbia più forza di quanta ne debba avere , travolge ogni cosa e,  usurpato il potere esecutivo, degenera in tirannia. Il tribunato si indebolisce, come il governo, con la moltiplicazione dei suoi membri.

Il miglior mezzo per prevenire le usurpazioni di tale corpo, potrebbe essere quello di non renderlo permanente, ,a di stabilire intervalli durante i quali resti soppresso.

 

 

VI :  DELLA DITTATURA

L’inflessibilità delle leggi può renderle perniciose e causare per loro mezzo la rovina di uno stato. Esse non provvedono a consolidare le istituzioni politiche per migliorare l’efficienza della legislazione fino al punto di togliersi il potere di sospenderne l’effetto è sbagliato. Non bisogna mai fermare il sacro potere delle leggi se non quando si tratta  della salvezza della patria. In questi casi  si provvede alla sicurezza pubblica con un atto particolare che ne affida l’incarico al più degno: questo incarico si può dare in due modi, secondo la specie del pericolo.

Se per rimediare basta aumentare l’attività del governo lo si concentra su uno o due dei suoi membri: non si altera l’autorità delle leggi ma solo la forma della loro amministrazione. Se il pericolo è tale  che le leggi possano ostacolare la difesa contro di esso, si nomina un capo supremo che fa tacere tutte le leggi  e sospende l’autorità sovrana. Tale magistrato può fare tutto ma non le leggi.

Agli inizi della repubblica si dovette ricorrere spesso alla dittatura, per la giovinezza dello stato,  e non si temeva che un dittatore potesse abusare della sua autorità né che egli tentasse di conservarla oltre il termine stabilito. Era più spesso il pericolo dello svilimento del magistrato in carica che non quello dell’abuso a far deplorare l’uso indiscreto di tale magistratura; usando spesso questa magistratura si perde il rispetto per il suo potere.

Verso la fine della repubblica a Roma si fece ricorso alla dittatura con una prudenza non meno irragionevole della leggerezza con cui prima se ne abusava. I timori erano spesso infondati  visto che le catene di Roma non sarebbero state fabbricate in Roma stessa ma nei suoi eserciti ( Silla , Cesare). Questo causò loro grandi sbagli come il non aver permesso ad un dittatore di disperdere la congiura di Catilina.

 

 

VII : DELLA CENSURA

Come la dichiarazione della volontà generale si fa per mezzo della legge, così la dichiarazione del giudizio pubblico si fa per mezzo della censura; l’opinione pubblica è quella specie di legge di cui il censore è ministro, e la applica ai casi particolari . Il tribunale censoriale è l’espressione delle opinioni del popolo , che nascono dalla sua costituzione; sebbene la legge non regoli i costumi , è la legislazione che li fa nascere; quando la legislazione si indebolisce, i costumi degenerano: la censura può conservare i costumi ma non ristabilirli.

La censura conserva i costumi impedendo alle opinioni di corrompersi.

 

 

VII : DELLA RELIGIONE CIVILE

Molti popoli ebbero in origine  gli dei come re; dal solo fatto di mettere Dio alla testa di ogni società politica derivò che vi furono tanti dei quanti popoli; così dalle divisioni nazionali risultò il politeismo e da ciò l’intolleranza  teologica e civile, che naturalmente sono un’unica cosa. Le guerre religiose non accadevano perché ogni stato avendo un culto proprio come un proprio governo, non distingueva i suoi dei dalle sue leggi ; le regioni degli dei erano fissate dai confini delle nazioni. I popoli si assoggettavano oltre che al dominio alla religione dei vincitori ; ma quando gli ebrei , assoggettati dai re di babilonia e di Siria vollero ostinarsi a riconoscere nessun altro dio oltre il loro , questa ribellione contro il vincitore attirò su di loro le persecuzioni. Infine quando i romani ebbero diffuso il loro impero avvolte imponendo i loro dei , altre volte adattandoli a quelli dei vinti i popoli del vasto impero si trovarono ad avere un'unica religione, piena di dei, il paganesimo.

L’avvento di Gesù separò il sistema teologico dal sistema politico, fece si che lo stato cessasse di essere uno, dovendosi confrontare con l’idea di un regno dell’altro mondo. Ciò che i pagani avevano temuto accadde:  Il preteso regno dell’altro mondo , sotto un capo visibile divenne il più violento dispotismo di questo mondo; da questo duplice potere venne un perpetuo conflitto di giurisdizione che ha reso impossibile ogni buon ordinamento negli stati cristiani. Nel caso di Maometto il sistema politico si conservò sotto i suoi califfi e successor,i ma gli arabi  divenuti fiorenti , civili, fiacchi e vili , furono soggiogati dai barbari e  ricominciò la suddivisione dei due poteri.

Il re di Inghilterra  e lo zar di Russia si sono proclamati capi della chiesa , dunque suoi ministri , hanno acquistato non il diritto di cambiarla ma il potere di conservarla; dovunque ora il clero costituisce un corpo esso è padrone e legislatore nel suo ambito. Di tutti gli autori cristiano Hobbes è il solo che abbia individuato il male  e il rimedio  e che abbia osato di ricondurlo all’unità politica , ma dovette accorgersi che lo spirito dominatore del cristianesimo era incompatibile col suo sistema , e che l’interesse del prete sarebbe stato sempre più forte  di quello dello stato.

Si potrebbero facilmente confutare le opinioni di Bayle e Warburton dei quali uno pretende che la religione sia utile al corpo politico mentre l’altro sostiene che il cristianesimo ne sia il più saldo appoggio.  Al primo si potrebbe provare  che  mai uno stato fu fondato senza una religione come base; al secondo che la legge cristiana  molto più nociva che non utile alla salda costituzione dello stato.

La religione può anch’essa esprimersi in due specie : la religione dell’uomo e quella del cittadino. La prima  è limitata al culto puramente interiore del dio supremo , è la pura e semplice religione del vangelo , il vero teismo ,  e ciò che si può chiamare  il diritto divino naturale. L’altra  professata in un solo paese dà ad esso i suoi dei i suoi padroni tutelari ; essa ha dogmi, riti e culto prescritto da leggi : fuori dalla nazione che la segue tutto è infedele, straniero, barbaro. Tali furono le religioni  dei primi popoli ai quali si può dare il nome di diritto divino civile o positivo.

Vi è una terza specie di religione , che dando agli uomini 2 legislazioni , 2 capi , 2 patrie, li sottomette a doveri contraddittori,  ne impedisce loro di poter essere contemporaneamente  devoti e cittadini ( religione dei Lama , Giapponesi , Cristianesimo romano).

Della terza specie  non vale la pena di mostrare  la manifesta cattiveria ( tutto quello che rompe l’unità speciale è sbagliato ; tutte le istituzioni che mettono l’uomo in contraddizione con se stesso sono sbagliate ) .

La seconda è buona in quanto riunisce il culto divino e l’amore delle leggi e insegna ai cittadini che servire lo stato significa servire il dio tutelare. È una teocrazia nella quale il principe è unico pontefice e i magistrati unici sacerdoti. Però è cattiva in quanto fondata sull’errore e sulla menzogna  inganna gli uomini , li rende creduli, soffoca il vero culto con un vano cerimoniale. Inoltre  diventando esclusiva e tirannica rende un popolo sanguinario e intollerante .

Rimane il cristianesimo del Vangelo, non quello  d’oggigiorno, che non avendo nessun legame con il corpo politico , lascia alle leggi la sola forza che esse traggono da se stesse. Inoltre, invece di far si che il cuore dei cittadini si affezioni allo stato, lo distacca da esso, come da tutte le cose di questo mondo: non esiste niente di più contrario allo spirito sociale.

R. dice che una società cristiana  non sarebbe più una società di uomini e non sarebbe la società più forte, né la più durevole: a forza di essere perfetta essa mancherebbe di coesione; il suo vizio distruttore sarebbe nella sua stessa perfezione. Per questo tipo di stato un uomo con qualche astuzia e l’arte di farsi valere si potrebbe impadronire dell’autorità pubblica facendosi depositario del potere di dio; per cacciare l’usurpatore bisognerebbe quindi usare violenza e spargimento di sangue, che mal si accorda con la mitezza del cristianesimo.

È quindi quasi assurdo dire repubblica cristiana: il cristianesimo non predica che servitù e dipendenza, il suo spirito è troppo favorevole alla tirannia perché questa non ne approfitti sempre; i veri cristiani sono fatti per esser schiavi. Interessa allo stato che ogni cittadino abbia una religione che gli faccia amare i suoi doveri , ma i dogmi di questa religione non interessano né lo stato né i suoi membri se non in quanto questi dogmi si riferiscano alla morale e ai doveri che colui che la professa è tenuto a compiere verso gli altri .Vi è dunque una professione di fede puramente civile  della quale spetta al corpo sovrano fissare gli articoli, i sentimenti di socialità senza i quali è impossibile  essere buon cittadino  o suddito fedele. I dogmi della religione civile  devono essere pochi , semplici, enunciati con precisione : l’esistenza della divinità potente , benefica, intelligente, previdente e provvida , la vita futura , la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi , la santità del contratto sociale e delle leggi; ecco i dog,mi positivi . Uno solo è il dogma negativo : l’intolleranza. Non si distingue l’intolleranza teologica dall’intolleranza civile : è impossibile vivere in pace con delle persone credute dannate , amarle sarebbe odiare il dio che le punisce; di conseguenza  dovunque è ammessa l’intolleranza teologica, è impossibile  che  essa non abbia qualche effetto civile.

 

 

IX : CONCLUSIONE

R. rimanda ad un’altra opera, ipotetica, il diritto delle genti , il commercio, il diritto di guerra e le conquiste , il diritto pubblico, le leghe, i negoziati, i trattati , le relazioni estere dello stato.



 

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