MEDIOEVO, NOTTE, VIAGGIO IN NOVALIS



L’Enrico di Ofterdingen risale al 1800 ed è un romanzo naturalmente rimasto incompiuto, secondo la consuetudine romantica: esso presenta una prima parte giunta a compimento e una seconda in forma frammentaria. Si tratta di un romanzo di formazione in cui a formarsi è un poeta che, come meta di un lungo e tortuoso percorso, perviene ad un’esistenza realmente autentica. La formazione ch’egli consegue, stante la prospettiva platonico/cristiana fatta valere da Novalis, è duplice: è, infatti, formazione in terra dell’artista e, insieme, sua trasfigurazione in cielo. Il protagonista dell’opera – Enrico – inizia la propria formazione con l’incontro di uno straniero (a significare l’alterità che fa irruzione nella vita ordinaria) che gli parla del “fiore azzurro”, metafora di ogni metafora. Di fronte a ciò, la reazione di Enrico è di irrequietezza e di presentimento: nascono in lui il desiderio e, a poco a poco, lo stato poetico. Questa nascita raggiunge il culmine nel sogno che Enrico fa del fiore azzurro, il quale cela un viso femminile. Il padre del giovane Enrico ritiene di doverlo mettere in guardia dai sogni, che sono soltanto menzogne: il padre simboleggia l’Illuminismo che, nelle vesti del razionalismo, conduce la sua interminabile battaglia contro ogni forma di sogno. Secondo la definizione hegeliana, la coscienza illuministica è per sua natura desta e vigile, e ciò già a partire da Cartesio. Questi si era premurato di distinguere lo stato di veglia da quello del sonno, sostenendo che v’è conoscenza dove regnano la chiarezza e la distinzione delle idee. Chi ci garantisce che la vita che conduciamo non sia un continuo sognare? A tale domanda, Cartesio risponde additando Dio come garante della certezza della conoscenza. E la lotta cartesiana contro il sogno è raccolta dai suoi successori ed è intesa come battaglia della ragione vigile e desta contro i sogni dei metafisici e dei visionari. Sicché il rigorismo illuministico finisce per esercitare un’egemonia indiscussa sulla vita dell’uomo, liberandolo dai sogni, dai miti, dalle fantasticherie e dalle visioni. In polemica frontale con questa prospettiva, Novalis estrae dal suo cilindro la fiaba e il sogno come dimensioni veritative; e all’affermazione del padre che liquida i sogni come menzogne, Enrico risponde significativamente che il sogno è un dono divino, una “difesa contro la regolarità e la mediocrità della vita”, un’irruzione dello straordinario nella vita di tutti i giorni. Il sogno del fiore azzurro fatto da Enrico si rivela profetico: esso profetizza al giovane l’imminente innamoramento e la nascita della poesia in lui (e tanto nell’amore quanto nella poesia si manifesta la nostalgia della “patria”). Il racconto prosegue ed Enrico giunge ad Augusta, la città della Baviera ricchissima di tradizione medievale: egli si reca in casa del nonno, ove è in corso una festa. Qui incontra un famoso poeta e la sua bella figlia, Matilde. Il tema del viaggio, del Medioevo, della festa come avvenimento inconsueto, sono tutti elementi squisitamente romantici che preparano il terreno per l’imminente incontro di Enrico con l’amore e con la poesia. Si realizza in questo modo una dimensione di amor platonico, cortese e cavalleresco che rende protagonista il poeta. Ben emerge l’identità tra poesia e amore: la poesia non è che l’Uno-Tutto che, in quanto tale, è anche amore. Amare Matilde significa allora amare la poesia e, con essa, Dio. Ella appare anzitutto come Musa ispiratrice di Enrico, giacché suscita in lui l’entusiasmo inventivo proprio del poeta. Il padre di Matilde gli tiene poi una breve quanto profonda conferenza sull’essenza del poeta, la quale non fa che confermare come per Novalis la dimensione del poetico non si risolva solo nell’entusiasmo, ma comprenda anche il momento della criticità: “nulla al poeta è più indispensabile che la penetrazione nella natura d’ogni cosa […]. Entusiasmo senza comprensione è inutile e nocivo, e il poeta potrà fare pochi miracoli se egli stesso si meraviglia del miracolo”, se cioè non instaura una giusta distanza che permetta lo sviluppo della riflessione critica. “Il calore fresco e vivificante di un’anima poetica è esattamente il contrario di un selvaggio ardore di un cuore malaticcio, che è povero e passeggero”: così dicendo, Novalis sta già negando la degenerazione cui il Romanticismo andrà incontro quando si capovolgerà in culto dell’immediatezza rapsodica e frammentaria dell’ispirazione. Freddezza e cautela sono due componenti del poeta, il quale è “puro acciaio”, sensibile e duro al tempo stesso: “la poesia richiede esercizio; l’arte deve aggiungersi al talento”, il che equivale a dire che il poeta deve osservare e arricchire la conoscenza, senza limitarsi alle mere sensazioni che prova. Sicché all’entusiasmo (che è il dono dell’amore provato per Matilde) deve accompagnarsi quella freddezza, quel discernimento e quella riflessione che permettano di organizzare l’ispirazione e l’entusiasmo. Non si può infatti creare alcunché di duraturo con la sola ispirazione. Sull’onda di queste considerazioni, Novalis fa una diffida al ritenersi poeti perché capaci di sensazioni acute: il poeta – egli sostiene – è rivelatore di verità, non di epidermiche sensazioni soggettive e narcisistiche. Egli deve essere sempre anche filosofo, ossia poeta doctus, ché altrimenti resta prigioniero della propria soggettività e riduce la propria arte ad autobiografismo. Il fatto che al poeta inerisca la distanza critica apre la possibilità del con-poetare e del con-filosofare: ma, perché ciò si verifichi, ai due momenti precedentemente individuati (l’entusiasmo e la riflessione critica) deve aggiungersene un terzo, quello dell’amore/morte. L’altro (aspirato e saputo) è ora esperito in un contatto diretto che si produce tramite l’esperienza della morte dell’amata (Matilde nel romanzo, Sofia nella vita di Novalis) e che lascia trasparire la contrapposizione della notte al giorno. Dopo la morte di Matilde, Enrico continua a vivere nel giorno, ma con una costante nostalgia della notte e con la consapevolezza che il giorno non è il vero mondo e che perciò esso mai può appagare il desiderio del poeta. “Si è già fatta sera intorno a me, e presto sarà notte”, scrive Novalis in una lettera: si acuisce in lui il desiderio dell’altro mondo e, correlativi a ciò, il disgusto per questo mondo e il taedium vitae, cosicché “la tomba di Sofia è anche la mia; tutta la mia gioia, i miei progetti sono qui sepolti”. Ciò vuol dire che questo mondo, senza Sofia, appare per quello che realmente è: manchevole, insufficiente, deficitario. A ciò s’accompagna l’esperienza della costante presenza immanente dell’amata defunta, che consolida la convinzione novalisiana dell’intreccio dell’altro mondo con il nostro. L’amore prosegue, ma l’amata lo chiama via da questo mondo e, per ciò, si fa sempre più forte il ricordo dell’altro mondo, con la conseguenza che si muore a quello terreno. È questo, in linea generale, il contenuto degli Inni alla notte. Essi nascono dall’esperienza della morte, la quale palesa la natura platonico/cortese della relazione amorosa, poiché nell’atto in cui l’amata scompare, ecco che l’amore non cessa ma anzi disvela la propria vera natura, scoprendo che la persona amata era solo un tramite per l’amore provato per la patria divina. Nel primo inno (che così si apre: “quale vivente, dotato di sensi, non ama tra tutte le meravigliose parvenze dello spazio che ampiamente lo circonda, la più gioiosa, la luce”) v’è una contrapposizione tra gli individui normali, che apprezzano il sole, e la solitudine del poeta, che si rivolge “alla sacra e ineffabile notte”, la quale “reca balsamo alle ferite del desiderio”, giacché apre in noi occhi infiniti e, per ciò, è annunciatrice di sacri mondi e sede della rivelazione. Già i Neoplatonici asserivano che l’Uno è tenebra (in virtù della sua insondabilità e della sua ineffabilità) ma non per difetto, bensì per sovrabbondanza dell’essere e di una luce che è così forte da apparire come tenebra. Nel secondo inno, la conversione dal giorno alla notte ritorna in forma di disgusto per le attività del giorno e prosegue con l’invocazione del sacro sonno affinché non sia parco di doni con chi si è consacrato alla notte. Il sonno in questione non è quello della gente comune, ma piuttosto quello che veicola messaggi infiniti. Il terzo inno è il resoconto di un sogno: l’esistenza, dopo la morte, dell’amata appare come un vicolo cieco perché chiuso da una collina che nasconde la vista ed opprime, finchè dal cielo non si affaccia un nuovo mondo senza fondo ed abissale. La collina si dissolve in una nuvola e il poeta vi scorge i tratti dell’amata. È qui che si palesa come l’amore era in questo mondo nostalgia per l’altro mondo, presente nelle vesti dell’amata, la quale è – con la sua bellezza – il tramite per cui l’Uno ci chiama a sé liberandoci dai limiti dell’egoità. È questa la dimensione metafisico/religiosa dell’amore: amando una persona, si ama l’altro, cosicché gli amanti assurgono a reciproco veicolo del divino. È però solo con la morte di uno dei due che ciò si palesa radicalmente, come ci insegnano Dante con Beatrice e Petrarca con Laura: morta la donna amata, si scopre che quel che si amava non era quella persona finita e transitoria, e proprio perché essa, post mortem, appare insostituibile, ci si accorge che questo mondo non basta più. Ciò significa che si amava non un che di finito e limitato, ma l’infinito stesso. Tale teoria dell’amore cortese trova la propria espressione più efficace nel quinto dialogo dell’opera De gli eroici furori di Giordano Bruno, ove una delle due interlocutrici riconosce la propria funzione di esca dell’infinito e così si esprime: “or io, se per grazia del cielo ottenni d'esser bella, maggior grazia e favor credo che mi sia gionto; perché qualunque fusse la mia beltade, è stata in qualche maniera principio per far discuoprir quell'unica e divina. Ringrazio gli dei, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice ed innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie maggiori a' miei amanti, che altrimente avessero possute ottenere per quantunque grande mia benignitade”. La tenera età dell’esca divina (Beatrice, Laura, Sofia) è, del resto, segno del rinvio ad altro e della costante tensione dell’eros. Il quarto inno descrive la duplice ed ambigua esistenza di chi, avendo contemplato la vera patria (“dove eterna regna la luce”), torna al mondo comune ma restando fedele all’altro e percependo vieppiù la lontananza del giorno dalla nostra patria e dell’antico “magnifico cielo”. È interessante rilevare come il primo Kierkegaard sarà influenzato sia da Hegel sia dai Romantici: il “cavaliere della fede” di cui egli parla è il religioso che, pur continuando a vivere in questo mondo, in realtà intrattiene una relazione privilegiata con Dio, vivendo la vita normale e ordinaria ma ciò non di meno essendo votato al divino e all’infinito. Nel quinto degli Inni alla notte, il poeta palesa al massimo la propria dimensione critica, facendo un abbozzo di filosofia della storia. Novalis propone una visione generale del mondo, badando non alla soteriologia privata (come aveva fatto finora), ma a quella pubblica. La storia umana, com’egli la concepisce, si articola in tre fasi distinte. Dapprima v’è il mondo antico e della luce: essa, infinitamente diversa da quella dell’Illuminismo, segnala la presenza degli dei e – winckelmannianamente - l’inconsapevole e felice fanciullezza di un’umanità paga di sé e in una primavera perenne. Tuttavia, in ciò divergendo da Winckelmann, Novalis aggiunge l’elemento della precarietà a quest’era: è un’epoca precaria perché insidiata dal tarlo della morte, il cui pensiero – nota Novalis – s’aggira tremendo tra i commensali dei banchetti. Alla morte, neppure gli dei sanno dare una risposta. Essa interrompe la festa: gli antichi hanno provato a rimuoverla con l’idea edulcorante di un dolce sonno, ma solo in parte vi sono riusciti. Il che ha comportato la fine del mondo antico, inficiato da tale menomazione congenita: “irrisolta rimase l’eterna notte, il severo segno d’una potenza lontana”. Dal mondo antico si passa allora a quello moderno, caratterizzato (illuministicamente) dal lavoro e dalla categoria dell’utilità, visti ora da Novalis come fuga dalla morte (giacché, per dirla con Pascal, essi costituiscono una sorta di divertissement). Contro questo mondo, Novalis polemizzerà accesamente nel testo Cristianità o Europa, etichettandolo come mondo in cui “numero e misura incatenano la natura” e spariscono la fede e la fantasia. Ma, nel frattempo, è accaduto qualcosa che può aprire nuovi spiragli: si è verificata, ad opera di Cristo, la vittoria sulla morte, la quale diventa ora una porta che apre sull’infinito. Il nuovo Dio rivelato è allora il Dio della notte, non quello del giorno: alla metafora del sol salutis, Novalis contrappone ora quella del sol noctis, del quale il poeta è annunciatore. Del resto, la bella antichità è – nota Novalis - preceduta dall’assoggettamento dei Titani, ossia di quelle forze gigantesche e minacciose che sono sì legate, ma non eliminate in via definitiva e che possono riesplodere da un momento all’altro. La notte in cui il poeta scende e a cui si vota è anche la notte del sentimento, di contro alla luce abbagliante della ragione. Recuperando il suo antico interesse per l’attività del minatore come immagine della ricerca filosofica, Novalis esprime il ritrovamento della pietra filosofale in un sol termine: VITRIOL (Visita Interiora Terrae Rectificando Invenes Occultum Lapidem). Ciò significa, per dirla con Proclo, che “l’Uno è in noi”, ovvero che l’interiorità è la notte in noi presente. Calandosi nel fondo, si troverà il sol noctis che il minatore, gli elfi e il poeta trovano in loro. Questa è la notte della favola e della poesia, di contro alla superficialità della chiarezza prosastica. L’imprendibilità dell’amata rende possibile il distacco dal mondo, facendolo apparire come limitato e, per ciò stesso, da abbandonare. Il VI inno si intitola Nostalgia della morte e in esso Novalis afferma plotinianamente che “svanito è il desiderio dell’andar lontano, vogliamo tornare a casa del padre”. “In questa temporalità, l’eterna sete resta sempre insoddisfatta”: così dicendo, Novalis sta facendo – come lo chiama egli stesso – un “annichilimento del qui ed ora”, contrapponendo il tempo all’eternità. In questa contrapposizione riecheggiano temi squisitamente neoplatonici, per cui il tempo non è che deficiente imitazione dell’eternità. L’Uno stesso è eterno, in quanto infinita pienezza d’essere cui nulla manca e a cui nulla può essere aggiunto: essendo infinita pienezza d’essere, l’Uno è, per ciò stesso, già sempre e per sempre. E il tempo si trova in rapporto con l’eternità come il finito con l’infinito: per un verso, in forza dell’onninominabilità, il finito rivela l’infinito; ma, per un altro verso, non fa che metterlo in ombra. Similmente, il tempo rincorre l’eternità e ad essa allude, ma al contempo è radicalmente altra cosa rispetto ad essa. In questa maniera, Novalis vede il tempo non già come via all’eternità, bensì come fuga da essa. Se l’eternità è infatti l’eterno presente d’una infinita pienezza d’essere, allora il tempo in cui viviamo manca di presente ed è l’imprendibile attimo fuggente di cui diceva Goethe. Una momentanea sospensione del tempo è data dall’esperienza amorosa e dall’opera d’arte: quando si ama e quando si fruisce di un’opera, ecco che si perde la nozione del tempo, il che segnala come siamo tenuti a trascendere il più possibile la temporalità. Anche per Enrico, come per Novalis, l’esperienza della morte è una tappa decisiva per l’acquisizione della poesia: infatti, dopo la festa interviene un sogno premonitore in cui egli assiste alla morte di Matilde nelle acque azzurre d’un fiume. Egli cerca invano di salvarla, ma, persi i sensi, si risveglia sulla spiaggia di un luogo fantastico: al suo fianco egli ritrova Matilde e, quando domanda dove si trovino, gli è risposto che sono nel paese dei genitori, nella terra paterna. Se in Schlegel v’è una visione laica ed emancipatrice del rapporto amoroso, per cui la donna vale quanto l’uomo, in Novalis prevale invece una concezione religiosa tale per cui a morire è sempre la donna. La seconda parte dell’opera resta incompiuta: dopo la morte di Matilde, Enrico diventa un pellegrino errante, essendosi ormai liberato dal finito. Ciò gli permette di diventare poeta e di guardare al mondo superiore. Il mondo stesso in cui egli vive non è più limitato, ma è riscoperto come segno di quello superiore e per ciò è caro al “cittadino della notte”. Il mondo così poeticizzato diventa esso stesso fiaba: il sogno diventa mondo, e il mondo diventa sogno. Se la prima parte del romanzo descrive la formazione del poeta, la seconda dovrebbe raffigurare la rivelazione della poesia da parte del poeta così costituitosi. E se in Schlegel il romanzo si presenta come eterno divenire, in Novalis esso è fiaba: quel che accomuna le due concezioni è l’incessante polemica anti-illuministica e il netto rifiuto della prosa. Entrambi i poeti convengono nell’identificare la poesia con l’infinito, concependo però quest’ultimo in termini diversi: esso è panteismo dinamico per Schlegel, partecipazione neoplatonica per Novalis. Divenuto viandante, Enrico va errando per il mondo senza una precisa meta mondana, a segnalare che la sua vita è un iter dal finito verso l’infinito. E dunque questo vagabondo è assai simile al viator della tradizione platonico/cristiana e alla sua tradizione della “teologia dei viandanti”. L’esistenza è, in questa prospettiva, un vagabondare con una meta oltremondana, con la conseguenza che scarso spazio è concesso al viaggiare in questo mondo: infatti, sia il monaco sia l’eremita, che di ciò sono emblemi, non viaggiano affatto e il loro stare al mondo è già uno starne fuori. Del resto, se guardiamo al Medioevo, il viaggiatore (tanto il pellegrino quanto il crociato) è sempre in viaggio non verso mete mondane, ma verso la salvezza eterna. Al contrario, il viaggio nel mondo mosso dall’esclusivo interesse per il mondo stesso nasce con la modernità e si sviluppa con lo svilupparsi della modernità stessa. Principalmente quattro sono i modi in cui essa sperimenta il viaggio: 1) come viaggio di conquista, 2) di affari, 3) di scoperta, 4) di istruzione. I primi due tipi segnalano un atteggiamento ormai saldamente mondano e gli altri due sono decisivi per lo sviluppo della modernità e della rilegittimata curiosità per il mondo. Ciò giunge all’apice nel Settecento, con quella grande serie di viaggi motivati da interessi scientifici, botanici, cartografici: grazie ad essi, il mondo è ora reso accessibile e messo a disposizione dell’uomo. Altrettanto decisivo è il viaggio d’istruzione, che serve alla riappropriazione di un io allestito per poter operare efficacemente in questo mondo in vista del proprio vantaggio. Significativamente, Montaigne nei suoi Saggi esalta il viaggio perché, mettendoci a confronto con l’alterità, propizia l’esercizio della ragione critica, vince il conformismo della tradizione e delle opinioni ricevute, risvegliando il pensiero e il relativismo. Il viaggio ci induce a mettere in forse tutte le certezze di cui viviamo. Lo stesso itinerario di Cartesio si configura come un allontanamento dalla selva delle opinioni e della tradizione grazie alla bussola del metodo critico. Viaggiando, si apprende tutto ciò che torna utile per vivere meglio a casa: così Bacone e Locke sostengono che il viaggio completa il gentleman insegnandogli a stare al mondo. In ques’ottica si può capire il significato del Gran Tour che i gentlemen inglesi facevano in Italia ai fini della propria formazione. Tutti questi viaggi segnalano un atteggiamento radicalmente mondano: così la società borghese/illuministica afferma la sua volontà di vivere al meglio nel migliore dei mondi possibili e il viaggio diventa strumento di felicità. Diversissimo (e assai più vicino a quello dei Cristiani) è il viaggio come lo intendono i Romantici: nell’Illuminismo, il viandante quanto il residente sono soddisfatti appieno del mondo finito in cui si trovano; al contrario, il viandante romantico non trova posto in questo mondo e si dà per ciò al vagabondaggio, muovendosi non verso un obiettivo prefisso, ma in fuga da questo mondo, verso il quale esprime disagio, dissenso, protesta. Il vagabondo radicale di cui dice Novalis è sempre in fuga; quello meno radicale (di cui parla Schlegel) rifiuta sì la società borghese e la sua finitezza, ma non questo mondo, che può essere infinitizzato. Nell’Orlando furioso, i vari paladini sono costantemente all’inseguimento di Angelica, la cui bellezza che sempre sfugge alla presa non è che l’eros platonico che distoglie i paladini stessi da ogni altro impegno: sicchè, se letto in chiave romantica, l’intero Orlando furioso non è che la narrazione delle alterne vicende di un’unica esistenza di un unico io nella sua infinitizzazione. Lo stesso si può dire del Don Chisciotte: egli brama d’essere un cavaliere antico e si trova a vagabondare per il mondo ordinario, fatto di sopraffazione, di violenza e di inganni.           

 


INDIETRO