LA LEZIONE DI ROUSSEAU, KANT E FICHTE



Il Romanticismo si pone innanzitutto in forte polemica con quella riduzione dell’uomo ad amor proprio e a ragione calcolatrice operata dalla modernità e giunta a compimento con l’Illuminismo. La prima reazione a questa indebita riduzione era avvenuta nell’Inghilterra, con i cosiddetti “filosofi del sentimento” (Shaftesbury e Hutcheson in primis): questi, in risposta alla riduzione dell’uomo a ragione e ad amor proprio, vanno sostenendo che l’uomo è innanzitutto sentimento e, nel sostenere tali tesi, esercitano un’influenza decisiva sul pensiero di Rousseau, che per molti versi si presenta come l’antesignano del Romanticismo. Al cuore della sua riflessione vi è una dura critica contro la cultura illuministica, colpevole di aver innalzato la riflessione critica e calcolatrice a unica dea. Ma tale riflessione razionalistica, lungi dal trasformare la terra in paradiso, - nota Rousseau – non fa che causare tutti quei mali che pretenderebbe invece di guarire: sicché essa è non il rimedio, ma la causa di tutti i mali, primo fra tutti la nascita dell’amor proprio. Con la riflessione si operano distinzioni e, conseguentemente, contrapposizioni (io/tu e, poi, mio/tuo): nasce così la tendenza a paragonarsi e a contrapporsi e da ciò rampolla la volontà di primeggiare dell’io sul tu. Proprio questa divisione generata dalla riflessione critica, implicante l’amor proprio e, dunque, la volontà di primeggiare sugli altri fa sì che la società moderna sia il regno dell’odio reciproco, della diffidenza, della dissimulazione e dell’insincerità, opportunamente nascoste sotto la vernice delle buone maniere. Si tratta allora di una società da cui è bandita la felicità e in cui tutti temono tutti e in cui nessuno è se stesso, giacché si ritrova ad indossare maschere per meglio abbindolare gli altri. L’errore fatale dell’Illuminismo sta dunque nell’aver preso per rimedio dei mali quella che invece ne era la causa scatenante: l’amor proprio, fortificato dalla ragione calcolatrice. Ma l’uomo – rileva Rousseau – non è soltanto ragione calcolatrice e amor proprio; è anche e soprattutto un duplice sentimento: amor di sé e pietà. L’amor di sé di cui parla positivamente Rousseau non dev’essere però confuso con l’amor proprio che egli aborre e che gli Illuministi avevano portato alle stelle: se l’amor di sé è al di qua di ogni riflessione, l’amor proprio è invece il figlio legittimo della riflessione. Da ciò si evince come l’amor di sé, proprio perché a monte della ragione calcolatrice, non instauri paragoni e, in forza di ciò, non entri in conflitto con gli altri e possa pacificamente convivere con la pietà per gli altri: da esso traggono origine tutte le più grandi virtù, la clemenza, la generosità, ecc. Sicché, quando Rousseau invita a tornare alla natura, egli esorta a tornare a questa dimensione situata a monte della ragione calcolatrice e dominata dall’amor di sé e dalla pietà. Basta che l’uomo si apparti anche solo per un attimo dal rumore assordante prodotto dalla ragione e dalla teorie filosofiche che da essa proliferano, e subito ritrova l’immediata certezza del proprio intimo ed immediato sentire (ovvero dell’amor di sé e della pietà): a parlare è allora la voce della coscienza, il nostro profondo sentire rimasto incorrotto nonostante il proliferare del calcolo razionale. Ciò di cui Rousseau sta qui parlando è la naturale bontà dell’uomo: egli rivendica un intervento correttivo che guerreggi contro una ragione che pretende di essere la sola guida dell’uomo. E il grande progetto che sta al cuore del romanzo La nuova Eloisa si risolve per l’appunto in un tentativo, ambizioso e talvolta lacunoso, di coniugare tra loro il sentimento e la ragione, in misura tale che non si prevarichino a vicenda. Accanto a Rousseau, anche Kant costituisce una delle grandi fonti a cui si abbeverano i Romantici: anch’egli protesta vibratamente contro l’utilitarismo e l’eudemonismo illuministico, rifiutandone la concezione dell’uomo come mera sensibilità e amor proprio. Sugli imperativi ipotetici proposti dalla ragione calcolatrice non si può costruire una morale, giacché essi non mirano che all’utile e alla felicità, limitandosi ad indicarci per quali vie incamminarci per conseguirli. Ma, oltre ai suggerimenti della ragione calcolatrice, l’uomo avverte in sé la voce della ragion pura pratica, dell’imperativo categorico che mira unicamente a improntare il comportamento umano ad un agire universale e disinteressato, nonché puramente razionale. Le affinità col discorso di Rousseau sono fin troppo evidenti: il filosofo ginevrino espleta in ambito di ragion pratica la stessa funzione espletata da Hume in ambito di ragion pura, destando Kant dal sonno dogmatico in cui era sprofondato. Nello sforzo di conformare l’agire all’imperativo categorico, vincendo la resistenza opposta dalla sensibilità, l’uomo esercita la propria libertà, essendo libero di non lasciarsi determinare dai sensi, dalle pulsioni, dalle volizioni e dalle inclinazioni sensibili. Tanto Kant quanto Fichte sottolineano il valore umano dello sforzo morale come manifestazione della libertà umana: la coscienza finita dell’uomo è coscienza essenzialmente morale, è sforzo verso un ideale di pura razionalità che, essendo irraggiungibile, mantiene in perenne tensione la coscienza umana. Questo punto di vista è ottimamente compendiato nelle Lettere sul dogmatismo e sul criticismo (1795) di Schelling, che qui ancora si muove in una prospettiva lato sensu fichteana, a tal punto da sostituire la felicità con la libertà della ragion pratica, la quale esclude ogni forma di eudemonismo: “quanto più diventiamo liberi, tanto meno necessitiamo della felicità, che dobbiamo alla sorte […]. Nella misura in cui avanza sulla via della moralità, l’uomo libero si vede innalzato al di sopra dell’ideale sensibile di felicità”, poiché la ragion pratica si sforza per giungere all’assoluta identità con se stessa, cercando cioè di diventare pura e illimitata libertà. E questa è anche la beatitudine, l’attingimento dell’illimitata libertà razionale che permette di approdare alla poesia della vita libera, innalzandosi al di sopra della vita prosaica fatta di appetiti sensibili. Quello di Kant è dunque il punto di vista di una coscienza finita che riflette sul proprio conoscere, mettendone in luce i limiti oltreché le potenzialità. Il filosofo si domanda anche il perché del nostro conoscere e, a tal domanda, risponde che ciò avviene in forza del fatto che la ragion pura connette, ad esempio, in maniera causale certi fenomeni situati nel tempo e nello spazio. Come i bambini rompono i giocattoli per vederne le parti e per poter così capire come essi funzionino, similmente Kant scompone le parti del nostro conoscere (il materiale sensibile e la nostra struttura a priori); la sintesi di queste parti dà appunto quella che chiamiamo conoscenza. Sicché conosciamo il mondo perché il nostro conoscere è fatto di dati sensibili riorganizzati dalla struttura a priori. La prospettiva cambia radicalmente nella Critica della ragion pratica, giacché non è possibile dedurre la ragion pratica in quanto essa è un fatto nella cui presenza ci troviamo e che dobbiamo necessariamente accettare come tale. E pertanto Kant non risponde a domande del tipo “perché sentiamo in noi la voce dell’imperativo categorico?”: si limita a notare com’esso sia un dato di fatto che non consente alcuna deduzione. E allora, nella Critica della ragion pratica, il filosofo tedesco riflette sulla praticità della ragion pratica, illustrandone le conseguenze: se agiamo moralmente, allora ne consegue che siamo liberi, che esiste Dio e che la nostra anima è immortale. In altri termini, la ragion pratica, che esiste come fatto, postula la libertà, l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Ma ciò non toglie che anche qui, al pari della Critica della ragion pura, si resti in un punto di vista finito. Anche il pensiero di Fichte è un faro costante per i Romantici: al centro della sua riflessione morale è, come in Kant, la nozione di Streben, ossia dello “sforzo” a cui è chiamato l’uomo per vincere la sensibilità. La sua è una filosofia “trascendentale”, in quella duplice valenza del termine fissata da Kant nella Critica della ragion pura: “chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non degli oggetti, ma del nostro modo di conoscerli”. In questa prima accezione, trascendentale è la conoscenza delle possibilità di conoscenza, ossia la riflessione critica sulla natura del conoscere. È detta “trascendentale” perché trascende il mero conoscere ignaro di sé, ma anche perché è pur sempre un conoscere che non trascende la conoscenza umana in quanto tale (ché altrimenti sarebbe non già trascendentale, ma trascendente): resta cioè un punto di vista finito. In secondo luogo, trascendentale è anche la struttura a priori del nostro conoscere, cioè quel qualcosa che antecede la conoscenza rendendola possibile (le intuizioni sensibili dello spazio e del tempo, le forme a priori delle dodici categorie, l’Io penso). In una terza possibile accezione, trascendentale è  quella componente del nostro conoscere che trascende il singolo soggetto empirico, poiché è presente, in forma uguale, in tutti gli uomini. La Dottrina della scienza di Fichte muove direttamente dal Kant della Critica della ragion pratica e, pur mantenendosi nel punto di vista della coscienza finita, riesce a dedurre ciò che Kant non era riuscito a dedurre: la praticità della coscienza finita, il suo essere moralità. Ciò costituisce l’essenza della coscienza umana: ne segue allora che l’uomo è soprattutto moralità e che il rigorismo etico kantiano diventa ossessivo. Il conoscere stesso è, agli occhi di Fichte, funzione ed espressione dell’essere ragion pratica dell’uomo. Ma che cosa fa sì che la coscienza umana sia eminentemente moralità? Naturalmente – puntualizza Fichte – non tutti gli uomini sono in pari grado moralità, e anzi gli eroi morali sono rare eccezioni in un mondo di briganti e truffatori; ma ciò non di meno l’imperativo categorico è istanza incancellabile nell’uomo, in ogni uomo. E la riflessione di Fichte procede come quella kantiana: se Kant aveva rotto il giocattolo della conoscenza nelle sue parti, Fichte si propone di rompere la coscienza morale per poterla spiegare. In particolare, egli analizza la coscienza pratica, la scompone e ne mostra le relazioni. L’Io finito è coscienza pratica perché è sforzo teso ad attuare l’imperativo categorico, vincendo la resistenza della sensibilità: ma che cos’è che rende possibile ciò? Anche la coscienza pratica è sintesi di due opposti, di una tesi e di un’antitesi: è cioè composizione di un’opposizione. In questo caso, tesi e antitesi sono le condizioni preconsce che solo la riflessione trascendentale riesce a cogliere, mettendole in luce mediante astrazione: la riflessione trascendentale è allora un retrocedere nell’anticamera incoscia della coscienza. Così lo sforzo pratico è sforzo incessante di essere la ragion pura pratica, senza sensibilità: siamo qui in presenza di un’attività finita? Oppure infinita? Se fosse finita, agirebbe mossa solo da imperativi ipotetici, cosicché in presenza di un oggetto piacevole direbbe solamente come agire per ottenerlo e, ottenutolo, si acquieterebbe. Ma un tale agire è tutto fuorché morale, giacché è interamente votato al soddisfacimento di bisogni sensibili. L’azione morale è invece un qualcosa di incessante e ha per fine la ragione stessa e, dunque, non è indotta dall’esterno: è piuttosto innata e radicale, tale da non potersi mai acquietare. Il fine (la pura razionalità) non è mai raggiungibile, ma comunque lo sforzo della ragion pratica mai si tacita, ma anzi sempre e di nuovo rinasce in noi. Un tale sforzo è frutto di un’attività infinita: non si esaurisce conseguendo uno scopo, ma sempre e di nuovo rinasce, anche se lo scopo mai è raggiunto. Il nostro sforzo è allora quello di un’attività infinita che, se ostacolata, si sforza di tornare alla sua illimitatezza, rimuovendo il limite: “la praticità dello spirito finito è la sua destinazione eterna, la sua infinità; è ciò per cui lo spirito è infinito”. E dunque “lo sforzo è attività infinita che, limitata, non rinuncia alla propria infinità […]. Lo sforzo è precisamente la sintesi fra attività pura e limite, e cioè è attività limitata ma che ancora contiene lo slancio della sua infinità”. Questo è il risultato cui perviene la riflessione trascendentale, componendo la coscienza pratica e scoprendo che essa è attività infinita limitata sempre e di nuovo da un limite. E attività infinita e limite costituiscono per l’appunto la tesi e l’antitesi di cui prima dicevamo, delle quali la coscienza è sintesi. In termini fichteani, la tesi è “l’Io pone se stesso”, l’antitesi  “l’Io oppone a sé un non-Io”. La sintesi risultante sono le coscienze finite umane di fronte al mondo entro cui agiscono moralmente: questo punto, espresso in termini fichteani, recita che “l’Io oppone nell’Io all’Io divisibile un non-Io divisibile”. La tesi è l’attività infinita dell’Io, è la ragion pura pratica in quanto inesauribile e illimitata attività identica a se stessa. Quest’attività infinita compone la nostra coscienza in quanto, in presenza del limite, essa tende a superarlo cercando con sforzo di recuperare la propria identità di attività infinita che sarebbe se non fosse limitata. Ma che cos’è che la limita? È la sensazione, o meglio il nostro sistema delle sensazioni: questa è l’antitesi contro cui urta l’attività infinita della ragion pura pratica, costretta alla condizione di sforzo per superare le sensazioni che le si oppongono. In quanto coscienze finite, siamo composte dall’attività infinita della ragion pratica che, in presenza di un limite che la ostacola, diventa lo sforzo sempre reiterato di recuperarsi alla sua condizione di infinità. Le sensazioni sono precisamente l’ostacolo contro cui cozza la coscienza: esse provengono dall’Io stesso, cui è congenito l’autolimitarsi, cosicché da sempre l’Io sussiste come sforzo perché da sempre esso si limita diventando la totalità delle sensazioni. Sicché le coscienze che siamo sono frutto di uno sforzo di essere se stesse superando l’ostacolo che si sono poste. È questa la preistoria inconscia della coscienza a cui perviene la riflessione trascendentale. L’attività infinita dell’Io è già sempre l’intero sistema delle sensazioni contro cui essa urta. In realtà, a sussistere sono sempre le singole coscienze finite, composte dallo sforzo infinito volto a superare l’ostacolo che esse si pongono. Diventando attività conoscitiva, l’Io trasforma l’urto in un ostacolo superabile, mutando la molteplicità delle sensazioni nella rappresentazione del mondo. L’Io infinito tende a limitarsi e, per ciò stesso, diventa la molteplicità delle sensazioni; ma, essendo infinito, reagisce all’ostacolo, non ne è annientato: la reazione all’ostacolo si sviluppa in due momenti, uno conoscitivo e l’altro morale. Nel primo momento, la massa delle sensazioni è trasformata in rappresentazione spazio/temporale del mondo e ciò avviene perché l’Io si è fatto coscienza teoretica (cioè immaginazione produttiva). Avendo reso l’urto superabile, in veste teoretica, l’Io diventa attività morale: la ragion teoretica trapassa in ragion pratica, poiché è solo così che può realmente superare quell’ostacolo reso superabile dalla ragion teoretica. Ed è per questo motivo - ossia per il fatto che solo la ragion pratica può trionfare sul limite – che Fichte mai si stanca di ribadire la superiorità della ragion pratica su quella teoretica: l’essere anche ragion teoretica è funzionale alla ragion pratica, giacché solamente se costruiamo un mondo attraverso l’attività teoretica possiamo poi agire in esso moralmente. In quest’ottica, le sensazioni si riducono ad autoaffezioni dell’Io: se rimanesse soltanto un magma di sensazioni, l’Io non potrebbe essere sforzo morale. Esso invece reagisce in due battute, facendosi dapprima coscienza teoretica (e dunque rendendo le sensazioni rappresentazioni spazio/temporali) e poi, costruitosi un mondo di rappresentazioni, facendosi coscienza pratica. La sensazione interrompe l’attività pura dell’Io, la quale diventa sforzo di recuperarsi alla propria situazione facendosi teoresi e poi attività pratica. L’Io riflette su di sé fino a scoprire in tutto ciò che lo circonda una propria autolimitazione: il mondo non è che il limite che l’Io si autopone; se il mondo è posto inconsapevolmente dall’immaginazione produttiva (che trasforma le sensazioni in rappresentazioni), allora l’intera conoscenza si risolve in aspetti e gradi diversi della stessa immaginazione produttiva, che proietta le sensazioni in oggetti che noi dapprima crediamo esterni all’Io. Scrive Fichte: “poiché all’Io non appartiene nulla ch’esso non ponga, bisogna che questa limitazione la ponga lui. Porre tale limitazione è ciò che si chiama sentire”. L’Io, da sempre, si modifica in sensazione e lo fa inconsciamente: “attraverso l’immaginazione, il sentimento passa nella vita conoscitiva facendosi intuizione spazio/temporale”. Quel che Fichte non fa è dedurre il finito da un infinito che lo precede: riflettendo sulle condizioni del finito, vi individua un’attività infinita come una delle sue condizioni. Tale attività infinita esiste da sempre come reazione al limite: siamo attività infinita autolimitatasi e reagente a tale limitazione prima come conoscenza, poi come sforzo pratico. L’immaginazione produttiva racchiude la conoscenza trascendentale di cui parlava Kant e l’attività dell’Io è insieme attività e freno a quest’attività: “la coscienza dello spirito è l’attività della ragione che si cerca”. Siamo e conoscenza e praticità, e il nostro essere le due cose è lo sforzo della ragione ostacolata di autoritrovarsi. Quando l’Io non sussiste mai come Io puro, è sempre un Io finito, che reagisce al proprio limite ed è perciò in perenne ricerca di se stesso: a sussistere è solo l’identità in cerca di se stessa, non l’identità pura. Pertanto non c’è un infinito reale fuori e prima del finito: l’infinito esiste solo nel finito, come sforzo d’essere infinito, cosicché l’agire del finito è l’attività stessa dell’infinito, attività che esiste sempre e solo come ostacolata e in cerca di sé. L’unico infinito reale è l’infinito tendere del finito. La tesi e l’antitesi sono condizioni reali di ciascuno di noi che la riflessione filosofica, astraendo, proietta in una preistoria puramente filosofica: se l’Io è sforzo morale, allora in lui vi saranno l’attività infinita e la sua autolimitazione. Cerchiamo di tirare le fila su quanto finora detto circa Fichte: alla domanda “di che cosa siamo fatti, noi singole coscienze morali e, per ciò stesso, libere?”, egli risponde che a costituirci è un’infinita (cioè inesauribile e illimitata) attività della ragion pura pratica, cioè l’infinito autoaffermarsi dell’Io in quanto attività morale e il suo simultaneo autolimitarsi diventando la molteplicità delle sensazioni. Da sempre l’infinita attività morale così si limita: siamo fatti di un’infinita attività morale e dalle sensazioni, diventando le quali essa si è limitata. Proprio perché siamo siffatti, siamo quel che siamo (finite coscienze morali libere), ovvero siamo lo sforzo etico che siamo: più precisamente lo sforzo pratico (teoretico/pratico) dell’Io di recuperarsi oltre il limite, vale a dire lo sforzo d’essere ciò che virtualmente sarebbe (pura auto-identità) se da sempre e per sempre non si limitasse. Ci rappresentiamo il mondo trasformando l’oscuro sentire in un mondo fatto di oggetti situati spazio/temporalmente: così facendo, il limite è trasformato in ostacolo superabile, in mondo di oggetti nel quale progettare e attuare i propri fini. Già essendo coscienza teoretica, la coscienza umana finita è sforzo pratico dell’Io di autorecuperarsi, ma tale sforzo inizia come coscienza teoretica. Avvertiamo la voce dell’imperativo categorico e lottiamo contro i sensi nel tentativo sempre reiterato di affermare la razionalità pura dell’Io. Ciò vuol dire che siamo fatti di una cosa sola, ossia dell’infinita attività morale dell’Io, che è il principio primo dell’intera realtà. Tale infinita attività è il principio che però non sussiste di per sé separato e anteriore, ma solo nelle sue modificazioni, come sforzo teoretico/pratico. Dei tre principi che Fichte enuncia, i primi due sono astrazioni operate dalla riflessione: l’Io e il non-Io non sussistono mai come tali, esiste sempre il terzo principio, cioè la molteplicità delle coscienze finite e la molteplicità degli oggetti finiti che esse si rappresentano come sintesi di tesi e antitesi. Fichte per un verso ha dedotto le coscienze finite umane pratiche, per un altro è pervenuto ad una concezione in cui il finito si trova assolutizzato: Kant aveva postulato la libertà senza dedurla, mentre Fichte si sente in grado di dimostrarla; al contrario, ogni prospettiva realistica che parli di un mondo reale slegato dalla coscienza non può che avere un esito deterministico e negatore di ogni libertà. Sicché la più coerente esposizione del materialismo è quella del sensismo francese, in cui l’uomo è inteso come zimbello delle sue passioni e della sensibilità. Fichte dimostra che è la libertà dell’Io a fondare il non-Io, limitandosi liberamente: l’Io resta indipendente dalla sua limitazione, che ha lui stesso posto con un atto libero. La libertà è allora tale precisamente per il fatto che è essa stessa a porre il mondo esterno: lungi dall’essere passiva, la ragione è attività pura. Nulla può l’antitesi contro la tesi: può sì limitarla, ma mai sopprimerla. Così l’idealismo spiega la libertà pratica, mentre il realismo sortisce esiti deterministici. La prospettiva fichteana si chiude con una assolutizzazione del finito: la coscienza finita è tutta la realtà, cioè l’assoluto non esiste se non come infinito tendere a se stesso. L’unico modo di essere dell’identità è l’identità in cerca di sé. L’Io assoluto, allora, non esiste prima e fuori del finito delle coscienze, ma esiste unicamente nel finito e come finito, ovvero come sforzo pratico/teoretico. Il discorso di Fichte sull’Io assoluto non riguarda un Io assoluto che crea il mondo precedendolo ontologicamente: l’assoluto resta ideale e solo infinito è reale, mentre il finito resta coscienza finita di un singolo essere riflettente su di sé. Dire che solo il finito è reale equivale a dire che l’assoluto è reale solo nel finito, come attività del finito stesso: lo spirito finito è tutto, ma non è l’assoluto compiuto; l’assoluto è allora un ideale verso cui il finito tende senza tregua. Fichte afferma l’indeducibilità della molteplicità concreta delle cose: sia la molteplicità delle cose sia quella delle coscienze rientra nella categoria del fatto e dell’accidentale, ragion per cui non v’è risposta a domande del tipo “perché questo mondo?”, o “perché questi individui?” o ancora “perché ci rappresentiamo questo nostro mondo?”. Il contenuto concreto delle coscienze individuali resta, nella sua contingenza e concretezza, insondabile per la riflessione trascendentale, la quale riesce però a dedurre i tratti e la struttura generale della coscienza finita, ma non il suo contenuto. Perciò tutte le domande relative ai contenuti empirici (ad esempio “perché questo corpo?”, “perché questo mondo?”, e così via) sono domande impertinenti, alle quali Fichte non risponde, in quanto esulanti dalla riflessione trascendentale. In un celebre frammento, Schlegel nota che Fichte, la Rivoluzione Francese e il Guglielmo Meister di Goethe sono i vanti dell’epoca e, in un altro frammento, fa cenno all’accusa di ateismo intentata a Fichte: “Fichte avrebbe dunque attaccato la religione? Se l’essenza della religione è interesse per il soprasensibile, allora tutta la sua dottrina è religione in forma di filosofia”. Da ciò si evince l’influsso che Fichte esercitò sui giovani Romantici: l’uomo di cui egli parla è in costante tensione verso l’infinito, ripudia gli scopi sensibili e finiti di cui fa vanto l’Illuminismo.

 


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