IL PENSIERO DI SCHLEGEL



Lo svilupparsi del razionalismo moderno avviene attraverso un’aspra e lunga polemica anti-aristotelica. Sia la scienza moderna sia il razionalismo crescono polemizzando senza sosta non già contro lo spirito dell’aristotelismo, bensì contro la sua lettera. E del resto lo spirito aristotelico era profondamente razionalistico e naturalistico (cioè empirico) e, pertanto, affine a quello dei moderni. L’accusa che questi ultimi muovono ad Aristotele non è pertanto quella di essere naturalista e razionalista, ma piuttosto quella di essere inconseguente tanto nel suo naturalismo quanto nel suo razionalismo. È incoerente nel naturalismo perché muove dai sensi, senza far ricorso all’anamnesi platonica, ma finisce poi per smarrire il naturalismo quando, pervenuto alla definizione (attraverso l’astrazione e la deduzione), il suo pensiero diventa deduttivo, prescindendo dall’esperienza e lavorando di soli sillogismi. Altrettanto inconseguente è Aristotele nel suo razionalismo, giacché la sua celebrazione della ragione finisce per rovesciarsi in condanna della medesima: alla sua ragione manca infatti quella criticità tipicamente moderna, la consapevolezza non solo di ciò che essa può fare ma anche di ciò che non può fare. Ecco perché poi tale ragione acritica e inconsapevole di sé sortisce quello pseudo-sapere metafisico che i moderni rigettano come chimerico. La ragione dei moderni, consapevole dei propri limiti intrinseci, non si avvita su inutili speculazioni metafisiche, ma ciò non di meno è in grado come non mai di civilizzare la terra: in particolare, con l’Illuminismo a trionfare è la ragione calcolatrice, il cui trionfo è quello dell’intelletto riflettente (Hegel) e della prosa, nel senso del trionfo del genere letterario prosastico. Se la ragione ha da vincere, allora deve trionfare la prosa piana e chiara in cui tale ragione meglio si esprime e che nell’uomo costituisce il linguaggio più alto, di fronte al quale altre forme (la poesia, la musica, ecc) hanno funzione esornativa o di intrattenimento. In questo panorama, si spiega come Bach e Mozart, due dei grandi geni musicali dell’epoca, siano del tutto assenti dalla vita culturale del Settecento: lo stesso Mozart era costretto a pranzare coi servi, a sancire la funzione servile della musica. Ancora nella Critica del Giudizio, e dunque sul tramontare del secolo XVIII, Kant sostiene che la musica ci parla per mere sensazioni, senza lasciare alcunché alla riflessione: proprio in forza di ciò, essa “è piuttosto godimento che cultura”, è l’infima fra le arti e le spetta la sola funzione di titillamento dei sensi. Questa situazione è il portato di una ragione eminentemente prosastica, cosicché l’Illuminismo si configura come trionfo della prosa sul piano stilistico e una tale forma letteraria dà il meglio di sé nella miriade di trattati, tutti aventi per oggetto la felicità, che fioriscono nell’età dei Lumi. Oltre a ridurre a prosa ogni arte, l’Illuminismo abbassa a prosa l’intera vita dell’uomo, rinchiudendolo nel finito: e il trionfo di quest’ultimo esclude ogni sforzo volto a trascendere la finitezza, cosicché si è in presenza di un finito rinchiuso entro e su se stesso. “Ut pictura poesis”, diceva Orazio nell’Ars poetica: gli Illuministi, rovesciando il motto oraziano, sostengono che è la pittura a dover essere come la poesia e, in particolare, deve narrare gli accadimenti storici, rendendo il più possibile manifesta la ragione. Quella da loro operata è allora un’autentica riduzione della vita a prosa, cosicché – nota Schlegel - “gli uomini comuni venerano tutto ciò che è ordinario e mediocre e considerano diabolico lo straordinario”. Gli uomini in comune di cui qui si parla sono quelli che “restano incollati alla terra”, come precisa Schlegel utilizzando un’espressione che inciderà profondamente su Hegel (il quale, com’è noto, definisce la modernità come “conversione dal cielo alla terra”). In questo senso, gli uomini comuni sono meri ingranaggi della macchina produttiva, sono numeri di una funzione politica: conducono un’esistenza umbratile, di contro a quanti vivono in maniera autentica (tematica che tornerà con insistenza nell’esistenzialismo). Scrive Schlegel: “Dapprima l’uomo borghese viene non certo senza sforzo lavorato e tornito fino a farne una macchina; avrà poi fatto la sua felicità? Allorché sarà diventato anche un numero nella somma politica e si potrà dire di lui che è perfetto sotto ogni punto di vista quando finalmente sarà diventato un fantoccio. E come i singoli, così è anche la massa: si nutrono, si sposano, generano figli e invecchiano e lasciano dietro di sé figli che vivono allo stesso modo”. Ma perché una tale massificazione? Perché – risponde Schlegel – “sono pochi gli uomini che siano degli individui” e la maggior parte degli uomini, come i “mondi possibili” di Leibniz, sono dei pretendenti all’esistenza, di contro ai pochi che esistono veramente. In un tono alquanto simile, scrive Novalis: “costoro vivono solo la vita di ogni giorno, tutto ciò che fanno lo fanno solo in vista della vita terrena; a questa loro vita mescolano quel poco di poesia che sembra loro necessaria […]”, interrompendo di tanto in tanto la vita ordinaria e concedendosi brevi spazi di vita “poetica”: “di norma, questa interruzione avviene ogni sette giorni e la si potrebbe definire una poetica febbre settanica. La domenica il lavoro cessa, vivono un po’ meglio del solito e questa ebbrezza domenicale si conclude con un sonno un po’ più profondo […]. Il massimo grado di esistenza poetica costoro lo vivono in occasione di un viaggio, di un battesimo, di un matrimonio […]. Ma un rozzo interesse egoistico è il risultato di una grezza limitatezza”. Quella che i più si trovano a condurre è allora un’esistenza ordinata solo ad una fitta trama di scopi finiti e, proprio per ciò, essa appare tanto a Schlegel quanto a Novalis come il frutto di un’aberrazione: “avere degli scopi, agire secondo scopi e collegare artificialmente uno scopo all’altro in vista di sempre nuovi scopi è aberrazione profondamente radicata nella stolta natura dell’uomo” (Schlegel), prodotta dal trionfo dell’empiria e dell’economia, le quali costringono l’uomo alla finitezza. Proprio in ciò riposa la ragione dell’inautenticità di una tale esistenza, poiché “ciò che è solo qualcosa esiste solo in senso improprio” (Schlegel). Ecco perché la logica dell’utile e della produttività è aberrante: essa esige un attivismo frenetico che però immobilizza nella condizione di esseri finiti, un attivismo frenetico in virtù del quale ci si muove molto senza andare da nessuna parte (un po’ come capita nei cartoni animati, in cui spesso i personaggi muovono con incredibile rapidità le gambe su se stessi, senza però spostarsi). E tale costrizione alla limitatezza trova espressione nelle convenzioni borghesi, ossia in quelle mortificanti costrizioni ad un’esistenza impropria e tale da farle detestare da Schelgel. Quest’ultimo arriva a sostenere che “ogni utilità e attività è infernale e demoniaca”, giacché impedisce all’uomo di evadere dalle angustie del “solo qualcosa” che di volta in volta egli è. Per queste ragioni, Schlegel si sente legittimato a stendere un elogio dell’ozio, ovvero di quella che egli definisce come “divina arte” e a cui dedica un intero capitolo della Lucinde: al giorno d’oggi, l’ozio è condannato senza mezzi termini e ciò perché la borghesia è salita al potere, introducendo la sua concezione della vita come frenetica attività lavorativa incompatibile con l’oziare. Nell’antichità però ad essere condannato era non l’ozio, bensì il lavoro, che Virgilio nelle Georgiche etichetta come improbus labor. In sintonia con questa condanna, è quanto dice Senofonte: “il lavoro requisisce tutto il tempo e non lascia perciò tempo alcuno per la politica e per gli amici”. Da ciò si evince come la condizione d’eccellenza fosse per i Greci quella della scolh, per i Latini quella dell’otium (contrapposto al negotium), ovvero di quello che noi chiamiamo “ozio” e che ai loro tempi era reso possibile demandando il lavoro ad altri, soprattutto agli schiavi. Un ozio però non fine a se stesso, ma concepito come tempo libero da dedicare agli studi e alla cultura. Ancora Aristotele, quando tratteggia la divinità, la immagina come un filosofo a tempo pieno, ossia come oziosa e non impegnata dal lavoro, ma anzi tale da poter filosofare senza intermittenze. Questo quadro resta pressoché immutato dall’avvento del cristianesimo: la classe sacerdotale è infatti una classe di oziosi, ossia di gente che non è tenuta a lavorare. E la riforma benedettina, che pure introduce una rivalutazione del lavoro, resta un episodio marginale, com’è del resto provato dal fatto che nei monasteri il lavoro sussista in forma di penitenza e di castigo. Su questa scia, nel suo Commento alla Politica Tommaso definisce “viles artifices” i lavoratori. Anche la nobiltà feudale è consacrata all’ozio e non è eccessivo affermare che la cultura medievale ignori la concezione – tipicamente moderna – del lavoro come realizzazione dell’uomo. La valutazione positiva del lavoro coincide con l’avvento dell’Illuminismo ed è connessa all’utilitarismo: in questa nuova cornice culturale, oziose risultano quelle attività meramente contemplative (la religione e la metafisica) che sono incapaci di agire praticamente. Un caso sui generis sono le arti, le quali non vengono liquidate come inutili giacché esse ristorano il lavoratore e migliorano la qualità dell’esistenza abbellendola. Alla demonizzazione dell’ozio come padre di tutti i vizi, corrisponde dunque la moderna valutazione positiva del lavoro, che ben si inquadra nella polemica borghese diretta contro l’aristocrazia parassitaria: agli occhi dei borghesi, l’ozio aristocratico incarna tutti i vizi possibili. La valorizzazione del lavoro incontra la sua prima forma di elogio in Saint Simon (1760-1820), che negli anni 10-20 dell’Ottocento tematizza la concezione dell’uomo produttore e statuisce una dicotomia tra “produttori” (lavoratori attivi, creatori di sé e del collettivo benessere) - categoria in cui rientrano tanto i lavoratori salariati quanto gli industriali, i commercianti, gli scienziati, i contadini e gli artisti – e “fannulloni”, ossia gli oziosi, i nobili feudali, il monarca e la sua corte, i metafisici, il clero: tutti questi, che sono membri della classe dei fannulloni, appartengono secondo Saint Simon ad un ceto storicamente superato, poiché oggigiorno – dopo essere passati per lo stadio teologico e per quello metafisico – siamo giunti a quello positivo, in cui trionfa l’autoregolazione dell’industria e sono abolite la religione, la metafisica e perfino la politica. Sicché lo stadio positivo segna la transizione dallo Stato parassitario anti-industriale alla società produttiva e manageriale che si autoregolamenta in forza delle utili relazioni che si stringono fra le sue varie componenti. Nel 1819, Saint Simon attacca i fannulloni attraverso una favola sull’ozio: in essa, egli si domanda che cosa accadrebbe se la Francia perdesse all’improvviso i suoi cinquanta migliori chimici, ingegneri, banchieri e fisici. La risposta che egli fornisce è che, se ciò accadesse, il Paese diverrebbe immediatamente un corpo senz’anima e retrocederebbe rispetto alle altre nazioni concorrenti. Dopo di che, Saint Simon si domanda che cosa accadrebbe invece se la Francia perdesse all’improvviso la corte, il clero, i metafisici: la risposta è che ciò non avrebbe incidenza alcuna sulla vita politica e sociale del Paese. Da quest’arguta favola, che costò un processo a Saint Simon, affiora una nuova immagine dell’uomo, produttore frenetico e nemico dell’ozio e di chi lo pratica, ovvero di chi consuma senza produrre: “i vigliacchi del futuro sono gli oziosi”, arriva a dire Sant Simon. Si tratta di un mutamento epocale che ci mostra come il Romanticismo, che è elogio dell’ozio in polemica anti-illuministica, risulti alla fine perdente e sia superato da quella concezione borghese del mondo che ancor oggi è rimasta in piedi. Che la condanna dell’ozio sia ancor oggi viva più che mai è testimoniato da una ricca serie di detti comuni del tipo “è un gran lavoratore”, “è tutto casa e lavoro”, “una vita consacrata al lavoro”, “chi non lavora non mangia”. L’ozio che Schlegel predica è tale rispetto alle attività nelle quali i borghesi dissipano il loro io e il loro tempo: stornando da sé le lusinghe dell’economia e dell’utile che intrappolano l’uomo nelle ragnatele della borghesia, Schlegel esorta all’ozio, poiché oziando si riposa dal finito e ciò subito si traduce in nostalgia dell’infinito: “il riposo è solo indisturbata nostalgia” e “solo nello struggimento troviamo riposo”. Infatti, il disimpegno dal mondo produttivo implica tensione verso l’infinito: e tale tensione, possibile solo riposandosi e congedandosi dagli scopi finiti, è l’unico autentico progresso di cui l’uomo sia capace, poiché quel relativo progresso che lo sposta da questo a quello degli scopi finiti è solo apparente, in quanto perpetua la sua stagnazione all’interno del finito. Il finto progresso messo in moto dalla borghesia è un grande agitarsi senza che nulla muti. Il solo progresso reale è allora quello che, distogliendo dal finito, indirizza verso l’infinito: “assoluta progressività = tensione verso l’infinito”. Si riaffaccia qui il tema della nostalgia e dello struggimento, di quello che in tedesco si chiama Sehnsucht (termine composto da suchen, “cercare”, e da sehnen, “sforzarsi verso”), inteso come una tendenza permanente alla pari dell’eros platonico. L’uomo progredisce, e dunque evade dal finito muovendo verso l’infinito, nella misura in cui si universalizza, ovvero nella misura in cui “attraverso uno sviluppo infinito, uno sviluppo uniforme in tutte le direzioni”, acquista una cultura infinita la quale, configurandosi come “la più profonda, incessante e quasi ingorda partecipazione di ogni forma di vita”, “amplia ogni particolare sentire a sentire universale, infinito e si palesa come una manifestazione di una prodiga pienezza”. Questa è allora una cultura progressiva, il cui spirito è l’universalità ed è tale perché non è se non il dispiegarsi nell’uomo della “infinita pienezza di vita che l’infinito stesso è e che nell’uomo colto prende progressivamente a svilupparsi”. Ecco allora che il ristretto orizzonte dell’io finito è rotto e l’io, coltivandosi, da mediocre pretendente all’esistenza è trasformato in uno di quegli “individui che contengono in sé interi sistemi di individui” e il cui intimo è “un mondo di mondi”, vale a dire quell’io che si coltiva e che è in via di progressiva infinitizzazione. Il termine con cui i Romantici designano la cultura è Bildung, il cui etimo è Bild, che – al pari dell’eidoV greco - significa tanto “immagine” quanto “forma”: pertanto Bilden, al riflessivo, vorrà dire “coltivarsi” e “darsi forma”, e Bildungsroman è appunto il “romanzo di formazione”, nel quale si narrano le vicende attraverso le quali il protagonista si forma. Tale è l’uomo di cui parla Schlegel, il quale allude a una cultura infinita e manifestante una prodiga pienezza di vita, ossia di Dio. Sicché l’uomo colto contiene in sé interi sistemi di individui, è mondo di mondi, non è mai solo se stesso: la sua formazione tende alla onniformità e, per ciò, egli si sforza costantemente di diventare quell’infinita pienezza di vita che è l’io stesso. Proprio in ciò risiede il “panteismo dinamico” di cui alcuni studiosi hanno parlato in riferimento a Schlegel: panteismo, nel senso che tutto è Dio e che Dio si risolve nella totalità dell’esistente; ma è un panteismo “dinamico”, nel senso che il Dio di cui parla Schlegel, l’infinito, è infinita pienezza di vita, ossia è inteso alla maniera platonica e neoplatonica come infinita pienezza d’essere, come omnitudo realitatis. Come si ricorderà, l’Uno plotiniano e procliano includeva in sé ogni forma e modo d’essere e – per dirla con Cusano – complicava in sé ogni possibile essere: era dunque la totalità attualizzante d’ogni perfezione d’essere (ens perfectissimum). Questa infinita sovrabbondanza d’essere esiste come tale al di qua di ogni ente finito di cui è il principio in forza della propria sovrabbondanza d’essere: è così ricco d’essere che può parteciparlo diventando il molteplice mondo finito. Questa concezione, anche se accusata d’esserlo, non è panteistica, poiché la molteplicità degli esseri è sì la causa che li è diventati, ma quest’ultima resta anche quel che è al di qua del suo parteciparsi, cosicché permane la distinzione tra finito e infinito, tra mondo e Uno. Schlegel mutua dai Neoplatonici il concetto di infinito come infinita pienezza di vita, ma si distanzia da Plotino e da Proco nella misura in cui lo concepisce solo in potenza: l’infinito, come infinita pienezza d’essere, è allora tale solo e sempre a livello potenziale, giacché da sempre gli è congenito il limitarsi divenendo la molteplicità degli enti finiti del nostro mondo. Lungi dall’essere attualissima perfezione, esso si risolve in potenziale perfezione d’ogni modo e forma d’essere. Mentre nella prospettiva neoplatonica esiste un “prima” solo logico che separa l’Uno e il suo parteciparsi, per Schelegel invece l’Uno produce temporalmente prima d’essere quella attualissima perfezione: è tale perfezione solo in potenza, giacché è già sempre tradotto nella molteplicità dei suoi prodotti, è cioè un’infinita pienezza di vita in divenire. Il suo incessante produrre è il suo tradurre in atto la sua potenzialità. Mentre i Neoplatonici distinguono tra l’Uno e il  mondo che ne deriva e dicono “l’Uno e il suo produrre”, in Schlegel viene a cadere tale distinzione ed egli può dire “l’Uno è il suo produrre”, è l’infinita pienezza di vita tutta coincidente col suo produrre. In quest’ottica, Dio non è, ma diventa. E il suo produrre è il suo essere, che è un diventare: sicché l’intero mondo non è se non Dio in cerca di se stesso. Ben si capisce, a partire da quest’incessante ricerca che Dio fa di se stesso, come quello schlegeliano sia un panteismo “dinamico” e, per così dire, irrequieto, in cui l’infinito coincide senza residui col suo produrre: è dinamico perché è in cerca di sé e mai si trova in alcuna delle sue produzioni. Superandole le une dopo le altre, esso è sforzo sempre reiterato di diventare se stesso attraverso le sue produzioni. In siffatta prospettiva, viene meno la trascendenza della causa e quello di Schlegel, se raffrontato all’Uno dei Neoplatonici risolventesi in infinita pienezza d’essere, è un Dio diminuito e in fieri. “Deus est in se, fit in creaturis”, dicono i Neoplatonici: in Schlegel, resta valida solo la seconda parte della frase – “Deus fit in creaturis” -, poiché Dio è, a suo avviso, soltanto nelle e attraverso le creature. Con questo scenario immanentista, perdiamo la trascendenza, ma – come nota Hegel stesso - riusciamo a dare un senso alla creazione: infatti, una prospettiva squisitamente trascendente non riesce a render ragione del perché, un ente perfettissimo quale è Dio, debba creare un doppione così impreciso e fallace come il nostro mondo. L’inevitabile rischio che si produce dal modello trascendente è quello di privare di senso il nostro mondo, concepito come copia pallida e scadente del mondo originario: la creazione stessa finisce per risolversi in una caduta dalla perfezione all’imperfezione. Tutto cambia con la prospettiva immanentistica fatta valere da Schlegel: se infatti il mondo – e più precisamente questo mondo – è la sede del divenire di Dio, allora la sofferenza di quaggiù è la sofferenza di un parto, nella fattispecie del parto di Dio; ne segue che questo mondo, anziché essere svalutato, riceve un senso profondo. Nonostante la viva ammirazione per Fichte, Schlegel propugna un punto di vista filosofico che non è quello della filosofia trascendentale, concependo il mondo come il prodotto di un principio e non dell’immaginazione trascendentale/produttiva fichteana. L’uomo colto – il poeta – è quello in cui l’infinita pienezza potenziale prende coscienza di sé: è cioè quello in cui Dio diventa cosciente di sé ed è a questo proposito che Schlegel, pur avendo fatto proprio un punto di vista non trascendentale, recupera alcuni spunti fichteani. La coscienza dell’uomo colto – egli dice – è caratterizzata da infinita pienezza di vita che, sempre e di nuovo limitandosi, si sforza senza tregua di sorpassare quei limiti e di dispiegare la propria infinita coscienza. L’infinita pienezza di vita crea le cose, le quali però restano quel che sono: nell’uomo colto, invece, accade che possa verificarsi un passaggio dall’essere mero pretendente all’esistenza ad individuo che racchiude in sé altri individui e altri mondi. La sua cultura deve essere sforzo di proteiformità, assumendo in sé, diventandoli, una pluralità di io. Questo sforzo è quella tensione all’infinito che caratterizza l’uomo colto che si sforza di vivere una pluralità di vite: in lui si squaderna l’infinita pienezza del divino, che diventa consapevole di sé. La coscienza dell’uomo colto è, per sua definizione, una coscienza nostalgica e ironica: e proprio questo è lo sforzo che non solo la caratterizza, ma la costituisce. Si capisce allora perché, nel lessico schlegeliano, termini come “cultura”, “infinito”, “Dio” e “umanità” finiscano per essere sinonimi, cosicché Schlegel può affermare “non dissipare fede e amore nel mondo della politica, ma specifica ciò che c’è di più intimo nella sacra ignea corrente della cultura eterna”. La “sacra ignea corrente” non è che la vita divina di chi ozia e non si dedica alla politica, ma sacrifica di volta in volta le vite che vive. La cultura così intesa è il sommo bene ed è, per ciò, altresì l’unico dovere dell’uomo: “sommo bene e solo utile è la cultura [Bildung]”. E a tal proposito, egli parla di un “puro e superiore egoismo”, quello dell’ozio che, disprezzando ogni altra utilità, attende solo, come vocazione suprema, all’educazione e allo sviluppo di se stesso. “Suprema virtù è praticare la propria individualità come fine ultimo”, scrive Schlegel: il puro e superiore egoismo è allora quello di Dio diveniente nell’uomo che si coltiva con la cultura e che con essa si sacrifica per gli altri. Gli uomini hanno dunque il diritto ad essere egoisti, ma a condizione che conoscano il loro vero io: il che è possibile solo a patto di averne uno. Bisogna cioè essere non una semplice cosa, bensì vita infinitamente piena in divenire: tale è per l’appunto Dio. Chi ha un tale io e lo riconosce, ha il sacro diritto di essere egoista, poiché il suo egoismo è divino, nel senso che è al servizio di Dio. E hanno un io – nota Schlegel – quanti sono dotati di una coscienza poetica e ad essa danno seguito: “trasferirsi arbitrariamente ora in questa ora in quella sfera come in un altro mondo non solo con la ragione o con l’intelletto, ma con tutta l’anima […]. Uno spirito che contenga in sé come una pluralità di spiriti […], nel cui intimo l’universo […] si è dispiegato ed è pervenuto alla sua maturità”. Nella prospettiva schlegeliana, essere qualcuno significa pertanto essere un io divino, il contrario di ogni chiusura in se stessi: si tratta anzi di un’apertura all’infinito, di una trasformazione del proprio io in universo intero. Si annuncia in questi termini una nuova forma di cosmopolitismo, differente rispetto a quella predicata dagli Illuministi: “il desiderio rivoluzionario di realizzare il regno di Dio è il punto elastico della cultura progressiva e il principio della storia moderna. Ciò che in essa non ha relazione col regno di Dio ha un valore secondario”. Il desiderio rivoluzionario (e qui il riferimento è anche alla Rivoluzione Francese) di realizzare il regno di Dio è proprio dell’uomo colto, che fa propria una “insurrezione permanente” contro ogni limite. Schlegel arriverà a descrivere la cultura occidentale come caratterizzata dal progressivo avvento del regno di Dio, coincidente con la piena umanità, alla luce dell’assunto che “se tu pensi un finito sollevato all’infinito, tu pensi un uomo”. Sicché l’uomo è tale nella misura in cui è sulla via di quell’infinitizzazione che coincide con l’avvento del regno di Dio. “Spirito finito senza spirito infinito è nulla. Ma lo spirito infinito non è affatto semplicemente dato. Dio è un compito degli spiriti. Essi devono farlo. Dio non è, bensì diventa nel mondo”, scrive Schlegel e parla di “desiderio rivoluzionario di realizzare il regno di Dio” per indicare la nostalgia dell’infinito. La natura rivoluzionaria del desiderio è tale perché è rivoluzionaria rispetto alle tendenze dell’epoca e anche in riferimento all’esistenza del singolo: il regno di Dio si realizzerà compiutamente soltanto quando si avrà un’ininterrotta catena di rivoluzioni che si susseguono senza sosta. Ma come si configura l’esperienza che l’io fa del divino? O, in altri termini, come fa l’infinito a divenire nel finito? Tale progressione dall’infinito al finito – spiega Schlegel – si manifesta come onnivora e proliferante crescita culturale in tutte le direzioni, come il proliferare e l’intrecciarsi di nuovi scorci e punti di vista, nessi e relazioni insospettate che, spostando sempre più in avanti l’orizzonte dell’io, lo rendono sterminato: si tratta di un “prodigioso baccanare spirituale” che si prospetta come “partecipazione a tutte le forme di vita, massiccio offrirsi di tutte le forze ancora sopite”. Di questa esperienza vertiginosa ed entusiastica, una pallida immagine può forse offrircela “l’onnipotenza delle forze latenti di un adolescente”, ossia quell’esplosione incontenibile di vita che caratterizza l’età dell’adolescenza e che è, per alcuni versi, anche simile a un grande albero la cui vita si espande dalle radici sino a creare una corona fittamente intrecciata. È esperienza estatica e vertiginosa, tale per cui chi la esperisce si sente sottratto a se stesso, rapito alla propria finitezza in un divenire che, inglobandolo, lo trascende. In questi termini, lo spirito dell’uomo è il Proteo di se stesso: è una sorta di vortice che tutto afferra e al cui centro sta l’infinita pienezza della libertà creatrice. Per chiarire questi concetti, Schlegel adotta un linguaggio profetico e chiliastico: egli non nasconde e anzi segnala sempre più marcatamente che l’infinitizzazione in fieri dell’uomo corrisponde a un suo divinizzarsi; è Dio che diventa Dio mediante la cultura dell’uomo: “diventare Dio, essere uomo, coltivarsi, sono espressioni equivalenti”. “In questa grande persona dell’umanità, Dio si è fatto uomo”: così intesa, l’umanità è la sede del farsi di Dio nell’umanità stessa. Siamo cioè dinanzi a un Dio che solo progressivamente realizza, esplicandola, la propria infinitezza e lo fa prendendo possesso dell’uomo come sede più alta per il suo manifestarsi. Ciò accade in virtù del fatto che “ogni individuo infinito è Dio”. Quello che Schlegel chiama “l’uomo totale”, in via di infinitizzazione, è l’uomo abitato da un demone o da un genio, giacché è in lui che Dio si esperisce e si sa come tale. Si tratterà allora di un’esperienza che è al contempo estatica (nel senso letterale dello “star fuori di sé”) perché pone fuori dalla normale quotidianità, in una fuga dal finito verso l’infinito, ed entusiastica, cioè tale per cui il divino è presente e si manifesta. Gli uomini potenziati sono tali in virtù del divino entusiasmo da cui sono mossi.

 


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