LA POESIA IN SCHLEGEL



È su queste basi che Schlegel introduce il suo concetto di poesia: dove l’infinito irrompe e si espande nello spirito e nell’esperienza umana, diventando il motore dell’agire umano che permette il passaggio dalla grettezza del finito e del mondano a puro e disinteressato tendere all’infinito, attraverso il dedicarsi a quell’ozio che è l’occuparsi della propria Bildung, lì troviamo la poesia nel senso lato del termine: “il mite riflesso della divinità nell’uomo è la vera anima, la scintilla che accende ogni poesia”. In un altro passo, così si esprime Schlegel: “l’unico principio della poesia è l’entusiasmo”, in cui si attua l’unione fra l’umano e il divino. Altrove questa poesia lato sensu è precisata in riferimento alla prosa: “la poesia vuole solo tendere verso l’infinito e disprezza utilità e cultura profane”. Sicché c’è poesia ovunque sia rinvenibile l’impronta dell’infinito e dunque ovunque si viva per e dell’infinito. La poesia, così intesa, è la dimensione divina presente nel finito: essa – che è assoluto, alto, divino – è opposta alla prosa – che è finito, limitato, basso, pedestre, gretto -, in una lotta dell’infinito contro il finito, del divino contro il solo umano. L’uomo potenziato trova in sé l’Assoluto: e tale esperienza si configura dapprima come desiderio, nostalgia, aspirazione, e l’eterna nostalgia è l’inizio del manifestarsi della presenza dell’infinito. La poesia vuole solo tendere all’infinito e, per ciò, disprezza la cultura profana, la quale è l’opposto della vera religione. Ma questo sentimento della nostalgia va inteso nella valenza pascaliana e rousseauiana, come superiore forma di conoscenza (Rousseau parlava di amor di sé e di pietà, Pascal del cuore). Il sentimento dell’infinito è allora il secondo manifestarsi della coscienza dell’infinito stesso, un primo sentirlo e saperlo come scopo del proprio agire. Così delineato, il sentimento non ha nulla a che vedere col sentimentalismo, ovvero con una superficiale emotività piattamente commuovente e lacrimosa: se il sentimentalismo è “pieno di quei familiari generosi sentimenti nei quali uomini senza carattere si sentono così felici e grati”, il sentimento è al contrario la primigenia coscienza dell’infinito nell’uomo. Il sentire non è che infinita pienezza in potenza non ancora dispiegata e, proprio per ciò, è ancora soltanto desiderio di sé: e poiché il dispiegarsi è sempre relativo, il desiderio non verrà mai meno e sarà anzi il pungolo che stimolerà sempre e di nuovo l’uomo a formarsi. In particolare, quel desiderio dell’uomo è il desiderarsi di Dio nell’uomo e, pertanto, anche il trovarsi di Dio nell’uomo. Il sentimentale di cui parla Schlegel è amore che si mostra come desiderio e silenziosa malinconia: amore è Dio che si dà e si offre, cosicché “per il vero poeta, tutto questo, per quanto la sua anima lo possa cordialmente abbracciare, è solo accenno a ciò che è più alto e infinito, geroglifico dell’unico eterno amore e della sacra pienezza di vita della natura creatrice” (Dialogo sulla poesia). Ogni poeta e le sue realizzazioni, oltre che sede del venire di Dio, sono segno e allusione al più ampio e incessante divenire di Dio di cui quel poeta è, per così dire, solo un aspetto, un accenno, un geroglifico. L’infinita pienezza si manifesta nell’uomo come caos - “regno di Dio = caos = poesia” – e, a rigor di termini, il regno stesso di Dio è poesia, e viceversa. L’infinitizazzione è allora il caos al posto dell’ordine, lo smisurato al posto del misurato, l’infinito al posto del finito. E poetica sarà quell’esistenza che, traendo ispirazione dall’infinito e mirando ad esso, “fa valere il suo indiscutibile diritto alla confusione, vale a dire ripudia ogni restrittivo ordine costituito”. Pertanto opporre il caos all’ordine equivale a opporre la poesia alla non-poesia e, dunque, il Romanticismo sta alla base di certo anarchismo nascente nell’Ottocento: la poesia di una vita esaltata all’infinito è opposta alla trivialità di un’esistenza ridotta al finito e alla prosa, rispetto alla quale deve porsi in maniera critica e rivoluzionaria. “Questo è infatti il principio d’ogni poesia: annullare il corso e le leggi della ragione ragionante e trasferirsi di nuovo nel caos originario della natura umana”, quel caos che Dio stesso è. Si capisce allora perché “nessuno scopo è più alto dell’annientare, distanziandosene, ciò che chiamiamo ordine e del rivendicare il proprio diritto a una stimolante confusione”: secondo Schlegel, infatti, la confusione così intesa stimola per il fatto stesso che è in divenire, trasporta chi ad essa si abbandona, non è mai quiete riposante. Da qui nasce il disprezzo per quell’ordine che irreggimenta l’esistenza al servizio di un’utilità soltanto empirica e che ne svilisce ogni slancio ultraterreno. È l’ideale di una vita trasformata in poesia dalla dirompente e caotizzante presenza dell’infinito: questa rivoluzione contro l’ordine deve diventare, nella prospettiva schlegeliana, una “insurrezione permanente”, giacché la divinizzazione e la formazione dell’individuo in spirito che abbia in sé una pluralità di spiriti è tale nella misura in cui non si limita a nessuno dei tanti spiriti che via via diventa, ma tutti li abbraccia progredendo incessantemente dall’uno all’altro. Ogni aspetto, ogni parte dell’infinita pienezza è limitata e finita e, per ciò, deve di volta in volta essere riconosciuta come tale e dunque superata, foss’anche ciò che maggiormente amiamo, al fine di evitare che l’indugiare in essa arresti la nostra progressione all’infinito: “dobbiamo sollevarci anche al di sopra di ciò che amiamo ed essere in grado di annientare nel pensiero ciò che adoriamo, altrimenti ci manca il senso dell’universo”, ovvero non sentiamo l’irruzione dell’universo in noi. È qui enunciato come indispensabile un esercizio critico che si configura come sacrificio del finito a vantaggio dell’infinito: è quello che Schlegel definisce come una continua “autoparodia”, che è la pratica di sistematica auto-ironia condotta dal poeta e volta a evidenziare i limiti del poeta stesso, la parzialità dei diversi modi d’essere che, nel suo formarsi, egli va via via assumendo. “Il senso segreto del sacrificio è l’annientamento del finito perché è finito”: con ciò, Schlegel intende dire che bisogna evitare che ciò che è solo qualcosa venga indebitamente assolutizzato e dunque vissuto dogmaticamente come un alcunché di ultimo e di definitivo. “Ironia è quello stato d’animo che sovrasta a tutto e che si solleva infinitamente su tutto ciò che è limitato: perfino sulla propria arte, virtù o genialità”: così tratteggiata, l’ironia si presenta come un esercizio di scetticismo nei propri stessi confronti e un tale assiduo intervento dell’ironia restituisce al suo ruolo di mero momento all’interno di una più ampia totalità ogni pretesa ma infondata assolutezza. Da ciò segue che l’ironia è la più libera di tutte le licenze, poiché con essa ci si pone al di sopra e oltre se stessi. Ma al tempo stesso è anche la più legittima licenza, perché incondizionatamente necessaria e indispensabile affinché la progressione all’infinito non si interrompa. “Così intesa, l’ironia è un’autentica prassi rivoluzionaria che produce una serie continua di rivoluzioni interiori”: si tratta di un contraddittorio permanente in forza del quale ogni nuovo spirito viene puntualmente confutato nella sua pretesa assolutezza e ridimensionato nella sua limitatezza, cosicché, anziché arrestare la progressione, è spunto affinché essa proceda. “Chi ha una predilezione per l’Assoluto e non può farne a meno, non ha altra via d’uscita che quella di contraddirsi continuamente e di connettere gli estremi opposti”, rileva Schlegel, cosicché la cultura è “sintesi antitetica sino all’ironia”. Un uomo la cui cultura sia universale e formata, ha un’interiorità configurantesi come continua concatenazione delle più straordinarie rivoluzioni, a rendere possibili le quali è la presenza incessante dell’ironia. “Ironia è chiara coscienza dell’eterna agilità del caos infinitamente pieno”: la coscienza poetica è – fichteanamente – sintesi di una tesi e di un’antitesi: la sintesi è la coscienza metafisico/ironica (desiderio dell’infinito e critica del limite), ossia è tensione all’infinito; la tesi è l’infinita pienezza divina, il caos pieno. Da ultimo, l’antitesi è data dalle forme di vita e di cultura di volta in volta limitate che la tesi assume e in cui si limita: in altri termini, è l’entusiasmo che produce questo o quello spirito in cui la pienezza divina va sempre limitandosi. L’ironia è allora superamento e annientamento del limite, dove a costituire il limite sono le forme che l’uomo via via assume, giacché egli è di volta in volta un sacrificio e un annientamento di sé ma funzionale al realizzarsi della vita divina (è dunque un annientamento apparente, perché ripristina la vita divina). “L’apparenza dell’autoannientamento è manifestazione della libertà incondizionata, dell’autocreazione”: l’autoannientamento è l’ironia, ma è apparente perché manifesta l’autocreazione (il divenire di Dio): sicché l’ironia è lo strumento di cui Dio, nell’uomo, si avvale per far riemergere sempre e di nuovo la sua vita dal limite in cui apparentemente s’era sopita. L’infinita pienezza diventa qualcosa ma con l’autoironia sorpassa il limite e riprende la sua corsa all’infinito: siamo allora in presenza di un nichilismo relativo, che nega sì la vita bassa e prosaica, ma lo fa in vista del liberarsi di una nuova e più alta forma di vita poetica; è, per usare le parole di Schlegel, una “continua alternanza di autocreazione e di autoannientamento” e ciò comporta risvolti liberal-democratici nel pensiero del giovane romantico: l’ironista è infatti tutto fuorché un assolutista, è anzi un essere aperto in tutte le direzioni. Cercheremo ora di fare il punto sul concetto di ironia, effettuando una vera e propria ricognizione storica: da un lato, v’è l’ironia come tecnica oratoria (così ce la presentano Cicerone e Quintiliano) consistente nel dire una cosa lasciandone intendere un’altra. In questo senso, l’oratore simula di sostenere una cosa che crede falsa, mentre in realtà ne dice un’altra che crede vera. Così, se in una stanza orribile e decadente un tale dicesse “questa stanza è elegante e confortevole”, egli simulerebbe di dire il falso e in realtà starebbe dicendo il vero. Dall’altro lato, con Socrate invale un nuovo significato del termine “ironia”: il filosofo simula l’ignoranza dell’opinione per portare alla luce nei suoi interlocutori la verità del sapere. Queste due forme di ironia, che abbiamo succintamente delineato, hanno in comune l’abbandono del vero al suo contrario e ciò in funzione dell’affermazione di quel vero che momentaneamente è stato abbandonato. In comune hanno cioè il partire da un punto di vista superiore, muovendo dal quale (e abbandonandolo temporaneamente) criticano il punto di vista inferiore: così intesa, l’ironia è sempre critica del falso e tale da implicare però il possesso del vero. In altri termini, essa è possibile a partire da un punto di vista superiore rispetto a quello sul quale si ironizza. Il secondo punto in comune tra queste due concezioni è il momento faceto: l’ironia è infatti una critica che mette in luce l’aspetto comico di ciò su cui si ironizza. Ad essere criticata è infatti l’indebita serietà del punto di vista inferiore, il quale si presenta indebitamente come vero: allora l’ironia smaschera la pretesa serietà come mera seriosità di chi crede d’essere dove in realtà non è. Da queste due concezioni Schlegel mutua sia il momento critico sia quello faceto: se ne distingue però nella misura in cui l’ironia come egli la intende non è rivolta a terzi che debbono essere convinti dell’errore delle loro posizioni. Al contrario, l’ironia di cui parla Schlegel è sempre autoironia di chi da un punto di vista superiore si rende consapevole dei propri limiti, di chi dunque non coincide mai in toto con ciò che di volta in volta è, ma è anzi in grado sempre e di nuovo di prendere le distanze da ciò che via via diventa, esibendone a se stesso il limite e la pretesa di assolutezza. Ciò accade perché un tal soggetto, che fa autoironia, è dotato di un punto di vista superiore: l’infinita pienezza in divenire. Il soggetto ironizzante, infatti, è l’infinita pienezza in divenire che di volta in volta, limitandosi, diventa qualcosa di cui subito avverte e critica la limitatezza. Sicché la coscienza di un tale soggetto è caratterizzata da un continuo autotrascendimento, un perenne andare oltre se stesso: ecco perché la coscienza dell’uomo romantico, nel suo sforzo continuato, è nostalgico/ironico e, dunque, lucidamente critica e trascendentale (nel senso di riflettente sulle proprie stesse condizioni d’essere). Pertanto il Romantico non può mai prendersi troppo sul serio, non è mai serioso, né mai coincide del tutto con se stesso: egli segnalerà sempre, e lo farà con un sorriso e con un motto di spirito, di non essere mai soltanto quel che sembra essere. In quest’accezione, il sorriso dell’ironista romantico è tanto di commiserazione quanto di superiorità: di commiserazione, giacché dal punto di vista superiore egli commisera la propria attuale e fattuale limitatezza; di superiorità, poiché egli divina profeticamente l’infinita pienezza d’essere di cui egli è il progressivo divenire. L’atteggiamento del romantico è allora disincantato e disinteressato, ma mai nichilista nel senso forte e negativo del termine: infatti il distacco che lo contraddistingue concerne solo quel che via via si è nella propria limitatezza e non l’infinita pienezza d’essere. Significativamente, in un frammento Schlegel mette in evidenza la superiorità del punto di vista proprio di chi ironizza: “ironia è lo stato d’animo che sovrintende a tutto (“sovrintendere” in tedesco è Übersehen, ovvero “vedere dall’alto”) e che si solleva infinitamente al di sopra di tutto ciò che è condizionato”. Del resto, Schlegel rileva anche come se non sappiamo praticare l’ironia, ciò accade perché ci manca il “senso del cosmo”, ossia il senso della totalità al di là del suo limitarsi. Il limite di cui egli parla, lungi dal togliere di mezzo l’infinito, lo blocca soltanto per un istante, fino a che l’ironia non abbia provveduto a superare l’ostacolo. Come sacrificio, essa richiede la rinuncia alla pretesa della definitività: sua caratteristica sarà allora il sortire una specie di fluidificazione dello spirito romantico, un progressivo incremento della sua agilità. Essendo lo spirito romantico eminentemente sforzo volto a superare il limite, il ricorso all’ironia finisce per tradursi in una sempre più radicale critica dei limiti futuri, nel senso che un limite non fa in tempo a porsi che subito lo spirito è ironicamente al di là di esso. In questa prospettiva, l’ironia diventa una critica di ogni possibile limite e, dunque, non fa che accelerare, fluidificandolo, il processo di Bildung del Romantico: tale esperienza si velocizza sempre più e, in forza di ciò, l’infinitizzazione del soggetto finito diventa quasi visibile. Questo punto è espresso da Schlegel in riferimento alla categoria dell’arguzia: lo spirito romantico, nel suo esercizio d’ironia, si presenta infatti come spirito altamente arguto. Il termine schlegeliano è Witz, che corrisponde allo spagnolo agudeza e all’italiano arguzia: su questo concetto avevano soffermato l’attenzione soprattutto i teorici dell’ars combinatoria – in particolare Raimondo Lullo – e, memore di ciò, Schlegel, in una lettera del febbraio 1796, definisce l’arguzia come capacità combinatoria tale da saper cogliere fulmineamente le connessioni tra le idee: “acume, arguzia, ars combinatoria, critica, arte inventiva: sono tutt’uno”. Ciò detto, egli nota che “l’intelletto riflettente è spirito meccanico; l’arguzia è spirito chimico”: vuol dire che mentre l’intelletto risale dagli effetti alle cause e lo fa in modo meccanico, l’arguzia è intuizione chimica, sintetizza e combina, è “divinazione profetica”, è un colpo d’occhio che vede tutt’insieme ciò che l’intelletto ricompone progressivamente e a fatica. “L’arguzia combinatoria è veramente profetica”, conclude Schlegel: in quanto tale, essa riesce a vedere lontano e “la cosa principale è il presentimento della totalità cui conduce l’arguzia”. Altrove, egli parla dell’arguzia come elasticità ed elettricità: essa è dunque l’esito cui perviene lo spirito romantico praticando l’ironia; ed è qui in nuce lo  spunto di quella critica di dilettantismo che Hegel e Kierkegaard muoveranno ai Romantici. Certo è che il reiterato esercizio dell’ironia, acutizzando la coscienza del Romantico, la infinitizza sempre più, rendendo facilmente rimuovibile il limite. Quel che avviene in un individuo siffatto è una vera e propria teogonia, un divenire di Dio, che peraltro è destinato a rimanere soltanto ideale: l’ironia è “limpido caos in agilità”, vale a dire l’incontenibile divenire di Dio nell’uomo. Nell’atto stesso con cui dà vita alle sue manifestazioni, l’uomo romantico non si arresta in nessuna di esse, ma tutte le supera librandosi al di sopra. Sicché da un lato stanno le invenzioni dell’entusiasmo, che inventa nuovi modi d’essere e in essi si limita; dall’altro, sta l’ironia, che riafferma la libertà dell’infinita pienezza di contro ad ogni limite. Ma proprio il suo essere tale fa sì che l’infinito sia sempre solo in divenire, mai attuato: non è cioè mai infinita pienezza in atto, è piuttosto perenne autolimitazione. Sull’onda di ciò Schlegel afferma che “Dio è un compito degli spiriti” e che diventa nel mondo solo mediante essi: può cioè solo essere creato e non è che l’individuo nella sua massima potenza. L’umanità è dunque il processo che manifesta Dio e che dunque permette all’uomo di emanciparsi dal finito; “libero è l’uomo allorché produce e rende visibile Dio e, in tal modo, diventa immortale”: questa è un’autentica rivendicazione di libertà dalla tirannia del limite, ossia è una progressiva conquista di libertà dal possibile predominio dispotico di una parte sul tutto. La costituzione di un tale uomo può allora dirsi pienamente repubblicana: così dicendo, Schlegel si sta facendo promotore di un liberalismo repubblicano, per cui “liberale è chi da tutti i lati e in tutte le direzioni è di per sé libero e opera in tutta la sua umanità, chi partecipa ad ogni forma di vita senza lasciarsi traviare da ristrettezze di vedute all’odio e al disprezzo” (l’unico disprezzo consentito è quello verso il finito). Da tutto ciò si capisce meglio come Schlegel prometta sì l’immortalità, ma non quella individuale, bensì quella dell’infinito in fieri di cui siamo costituiti. In quanto individui, ci è garantita l’eterna giovinezza: l’esistenza che sia progressione assoluta è un coltivarsi all’eterna giovinezza e lo è per la sua stessa natura di divenire incessante (non può mai fossilizzarsi nel “questo” o “quello” che progressivamente diventa), un perenne andare oltre. L’umanità, che diventa repubblicana e liberale, mantiene sempre intatta la sua giovinezza: nessuno dei suoi membri è, per così dire, un sopravissuto di epoche precedenti. Lo spirito di una tale coscienza è infatti mobilissimo, è sempre in sintonia con quello che Hegel definiva come “Spirito del tempo”: la sua esperienza “resta eternamente nuova”, rinnovandosi perpetuamente proprio perché è poetica. In tale ottica, non v’è il rischio d’essere superati dai tempi. Il progressismo di Schlegel ha tra i suoi seguaci i Futuristi, ma da essi si distingue perchè mantiene la riflessione critica propria dell’ironia, senza mai cadere, ad esempio, nell’esaltazione della velocità.

 


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