AMICIZIA E AMORE IN SCHLEGEL



Non c’è nulla di più alto di due amici che vedano riflesso chiaro e perfetto nell’anima dell’altro ciò che hanno di migliore”, scrive Schlegel e, con queste parole, mette in luce come due amici vedano riflesso l’uno nell’altro le loro peculiarità, avvertano i loro limiti e, per ciò stesso, li superino, completandosi reciprocamente. In questo senso, l’amicizia è a un tempo percezione e superamento del limite, per cui in essa v’è critica ironica e anelito all’infinito. Proprio nel confronto con l’altro, tale anelito urta coi limiti, ma nella misura in cui v’è apertura verso l’amico, ecco allora che il segnalamento del limite ne è già anche il superamento, ossia il reciproco completarsi dei due. L’aspirazione all’infinito che caratterizza il poeta è dunque congenitamente socievole: del resto, il Dio del “panteismo dinamico” schlegeliano è spirito concreto, nel senso proto-hegeliano di un crescere insieme integrandosi vicendevolmente attraverso un con-filosofare, un con-poetare e, più genericamente, un con-vivere che potenzia l’universalizzazione di ciascuno. Concrescendo, si introiettano i punti di vista e le personalità altrui: in una tale ottica, non stupisce che i Romantici – e soprattutto Novalis – parlino di “antropofagismo spirituale”, a segnalare come, quanto più la relazione tra due o più individui è forte, tanto più ciascuno di essi tenderà, per così dire, a divorare gli altri e le loro visioni del mondo. Sicché la nostalgia romantica sarà innanzitutto fortissima percezione della propria individualità, ma anche slancio oltre se stessi e apertura ai consenzienti, ossia a coloro che sentono come noi. “Forse potrebbe iniziare una nuova epoca della scienza e delle arti se la sun-filosofia e la sun-poesia diventassero così universali e così individuali da non far più apparire strano e raro che diverse personalità di differente natura ma capaci di completarsi vicendevolmente costruissero opere comuni”: tale pratica, qui teorizzata da Schlegel, si è concretamente realizzata nella rivista Ateneum, scritta unitamente dai Romantici. Ciò illustra il rapporto intercorrente tra poeta e lettore: il poeta è già sempre critico e, in quanto tale, è critico dell’opera propria e aperto a quella altrui, che fa propria; similmente, il lettore s’arricchisce delle opere che legge e che incamera senza restare prigioniero di nessuna di esse, ma anzi, criticandole, le attraversa tutte. È in questo scenario che si innesta la distinzione schlegeliana tra “scrittori analitici” e “scrittori sintetici”: riprendendo la nota distinzione kantiana tra “giudizi analitici a priori” (che sono mere esplicitazioni di ciò che è già contenuto nel soggetto) e “giudizi sintetici a posteriori” (nei quali il predicato aggiunge qualcosa che non è implicito nel soggetto e, così facendo, lo arricchisce), Schlegel etichetta come “analitico” quello scrittore che osserva il lettore quale è, poi fa il suo calcolo e infine appresta le sue macchine per avere su di lui l’effetto voluto. In questo senso, lo scrittore analitico non fa che esplicitare ciò che è già presente nel lettore, scrivendo cioè quel che questi vuole leggere. In questo caso, l’opera si limita a dare al lettore quel che egli già è e già sa (rientra in questa casistica la letteratura di consumo, quella dei best sellers). Trovandosi confermato nel proprio essere, il lettore non può non apprezzare l’opera degli scrittori analitici. Del tutto diverso è il modus operandi dello scrittore sintetico, il quale mira ad arricchire e a coltivare il lettore, cooperando alla sua formazione e aggiungendovi nuovi punti di vista: “lo scrittore sintetico si costituisce e si crea un lettore come deve essere, non se lo pensa morto e passivo, ma vivo e reattivo. Ciò che ha trovato fa sì che si svolga gradualmente dinanzi agli occhi del suo autore o addirittura spinge il lettore a trovare egli stesso quell’invenzione. Lo scritto sintetico non vuole esercitare un effetto determinato, ma entra con lui nella sacra relazione della più intima sun-filosofia o sun-poesia”. Ritornando all’amicizia, essa mira al completamento reciproco e al sostegno dell’individualità: negli anni in cui – grazie soprattutto a Volta e a Renouvier – si stava scoprendo l’elettricità, Schlegel definisce l’arguzia come fenomeno elettrico e sostiene che l’amicizia stessa ha funzione elettrizzante. Così intesa, essa è una relazione che elettrizza i contraenti mediante la “frizione della libera socievolezza”: “elettrizzare l’immaginazione reciproca mediante la frizione della libera socievolezza cosicché la reazione provocata dal più breve contatto, positivo o negativo, possa trarne sfolgoranti scintille, raggi luminosi o colpi detonanti”, questo è l’effetto sortito dall’amicizia. Una persona che viva questo tipo di relazione è contagiosa come lo stato febbrile, che è uno stato di particolare brillantezza e che acuisce l’ingegno. Ecco dove affonda le sue radici l’interesse che i Romantici nutrono per la condizione di malattia: essa è una situazione straordinaria nel senso che è fuori dall’ordinario; perciò, ossia in quanto non normale e sfuggente dalla prosa della quotidianità, essa è poetica e produce un’acuita sensibilità e creatività. Nella Lucinde, così scrive Schlegel a proposito della malattia: “sentivo che la vita della malattia è ricca di misteri e più piena e più profonda della comune salute dei sognanti nottambuli intorno a me”. Il poeta romantico è, agli occhi del borghese, un malato e non uno che pratichi una sortita dall’ordinario. Novalis, recuperando la concezione schlegeliana dell’amicizia, parla diffusamente di assimilazione spirituale e sottolinea come un vero club (termine che rimanda ai club della Rivoluzione Francese) abbia un fine indeterminato: “l’umanità in generale”, ossia il diventare più umani. Proprio questo umanizzarsi costituisce il fine indeterminato dell’amicizia come la intende Novalis, il quale così si esprime: “la società non è che vita comune, un’indivisibile persona pensante e senziente”. Una siffatta descrizione si attaglia perfettamente al Dio perennemente diveniente di cui parla Schlegel e, del resto, ogni uomo è una società in piccolo. E questo contagio spirituale ha effettivamente caratterizzato i nostri autori ai tempi dell’Ateneum, quando la loro attività era un germinare costante di idee che ricorda quello dei dialoghi socratici. Non è un caso che Schlegel fosse solito dire d’essere “una bestia infinitamente socievole e insaziabile d’amicizia” e che “filosofare significa cercare insieme l’onniscienza” propria di Dio. Se questa è l’amicizia, che cos’è l’amore? L’amicizia è – come abbiamo appena visto – integrazione reciproca di due o più individui che concrescono restando però distinti, mentre l’amore va molto più in là nell’integrazione reciproca e si configura anche come una vera e propria – in senso non soltanto metaforico – compenetrazione. A tal proposito, Schlegel accentua la religiosità del suo discorso sottolineando la dimensione mistico/estatica del rapporto amoroso, che viene a configurarsi addirittura come superamento dell’individualità e, anche se solo momentaneamente, del principium individuationis. “L’amicizia è un matrimonio parziale, l’amore è amicizia da tutti i lati e in tutte le direzioni: amicizia universale. La coscienza dei limiti necessari costituisce ciò che di più indispensabile e raro v’è nell’amicizia”: così intesa, l’amicizia è superamento solo relativo dei limiti, giacchè sopravvive una zona franca – potremmo dire un hic sunt leones – nella quale nessuno degli amici osa avventurarsi. Essa viene però meno nel rapporto amoroso, dove cade la riservatezza e subentra una perlustrazione completa dei reciproci territori. Per meglio capire la concezione schlegeliana dell’amore, faremo riferimento alla Lucinde, a questo romanzo autobiografico che Schlegel, una volta divenuto iper-cattolico, ripudierà. Tra amicizia e amore non v’è soluzione di continuità, giacché il secondo è approfondimento della prima: nella Lucinde, si dice significativamente che il protagonista “non amava più solo l’amicizia nei suoi amici, ma gli amici stessi. […] Cercava di far crescere tutti gli splendidi presentimenti e le allusioni presenti nella sua anima. Così il suo spirito veniva arricchito in molteplici rapporti. […] Trovava la piena armonia solo nell’anima di Lucinde”. La relazione che intercorre tra i due rievoca quella di Pigmalione con la statua da lui creata e di cui si innamora a tal punto che gli dei, impietositi, le donano la vita: nel rapporto amoroso, infatti, ciascuno crea il suo partner formandolo. E Schlegel, nel suo romanzo, si spinge oltre, facendo riflessioni sul matrimonio: quasi tutti i matrimoni – egli dice - sono fallimentari e l’essenza di quelli veri sta nel fatto che più persone ne diventino una sola. E Schlegel polemizza aspramente contro il matrimonio combinato, tipico della borghesia, e contro l’impossibilità di divorziare: nella sua critica, egli lascia anche trasparire la possibilità di un matrimonio tra quattro persone. Perché mai ci si dovrebbe opporre a ciò? Se il Romantico è una “persona del desiderio”, allora in quanto tale è già sempre virtualmente aperto ad amare, cosicché l’amore si presenta, rispetto all’amicizia, come ulteriorità più radicale, poiché è – almeno nella prospettiva schlegeliana - un rapporto tra persone di sesso opposto e tale perciò da esprimere l’esigenza di ciascuno dei partners di diventare perfino il sesso opposto, facendo valere il desiderio di totalità. Quanto più la persona con cui si intrattiene il rapporto amoroso è ricca (ontologicamente), tanto più la si desidera, giacché essa appare in grado di estinguere la sete di totalità lasciando vivere il proprio io a quanti sono disposti a sacrificarle il loro. In una tale prospettiva, la monogamia dovrebbe sembrare limitativa a Schlegel, di contro a quello che potremmo definire un “repubblicanesimo erotico” che coinvolge al contempo ben quattro persone. In realtà le cose non stanno in questi termini: quanto più è ricco l’io altrui, tanto più esso impegna e trattiene nella relazione amorosa, cosicché anche la relazione con una sola persona è già una relazione coi molteplici individui che in essa (in quanto sistema di spiriti) vivono. Sicché, quanto più sono geniali gli io che si amano, tanto più sono fedeli l’uno all’altro: l’infedeltà allora è indice della limitatezza di almeno uno dei due contraenti. La relazione amorosa riduce poi la limitatezza dell’individualità empirica, giacché le mie sensazioni scompaiono e cedono il passo ad un massimo di infinita pienezza proprio in virtù del fatto che tra i due di sesso opposto v’è un massimo di differenza (si legge qui, in filigrana, la dottrina platonica dell’androgino): e così gli amanti attraversano insieme i sensi e lo spirito, la distinzione tra maschile e femminile, facendo la più completa delle esperienze. Rigettando l’annientamento della sensibilità prospettato da Kant e da Fichte, Schlegel rivaluta i sensi, concependoli come momento del progressivo squadernarsi dell’infinita pienezza di vita e attestando ancora una volta come il Romantico non si neghi ad alcun tipo di esperienza. La sua è anzi un’inesauribile esplorazione di sensi e di spiriti, con la conseguenza che la ragione e i sensi, anziché escludersi, devono corroborarsi a vicenda, acquisendo ogni forma di vita e passando attraverso la conoscenza di tutte le possibili pieghe dell’io. In quest’ottica, ben si capisce come l’amore sia intrinsecamente connesso alla morte (prendendo ad amare l’altro, il soggetto muore a se stesso per rinascere nell’amato) e come esso comporti sempre nuovi dissensi, poiché l’io oppone una naturale resistenza dalla quale rampolla la rivoluzionarietà del rapporto amoroso. Se infatti l’amore vuole tutto l’altro, ecco che per ciò stesso suscita resistenze nell’io proprio e in quello altrui: per questo motivo, si può dire che gli screzi tra amanti nascano dall’insaziabilità dell’amare, senza la quale non sussiste vero amore. Quest’ultimo è anche una relazione che sostituisce l’un l’altro i due protagonisti alla loro totalità, facendo sì che ciascuno di essi conosca e accetti tutto l’altro. In questa maniera, ci è restituita tutta la nostra varietà raccolta in unità e diventiamo un io autentico. Nel corso della relazione, i due protagonisti cessano di essere quel che erano all’inizio – disiecta membra poetae – e si raccolgono in unità articolata: l’originaria dispersività dell’io è raccolta dai due partners, i quali vedono dall’esterno quella totalità in divenire che altrimenti non riuscirebbero a cogliere. Pertanto i due si consegnano l’un l’altro nella loro pienezza: essi sono l’uno il Pigmalione dell’altro e si soffiano a vicenda la vita. Essere amati è allora essere raccolti, ossia composti: “non l’odio, ma l’amore […] divide gli esseri e plasma il mondo, e solo nella sua luce si può trovare e contemplare, solo nella risposta del suo ‘tu’ con ogni ‘io’ può sentire interamente la sua infinita unità”. Schlegel ribadisce in questi termini il carattere ideale della destinazione cui l’uomo è indirizzato: “nessun singolo uomo può raggiungere la destinazione dell’uomo: quella destinazione si estende all’intera stirpe umana nell’eternità del tempo”. In questa maniera, il panteismo dinamico si traduce in filosofia della storia, tant’è che la storia stessa si configura come progressiva attuazione dell’infinita pienezza di vita, cosicché “un uomo non può mai essere più che un uomo”: essendo irraggiungibile la piena coincidenza dell’esser uomo con l’infinita pienezza, ecco allora che si attua non un’eliminazione, bensì un graduale superamento dei limiti. E dunque l’intera cultura umana è la sede di questa teogonia in fieri.

 


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