GERSHOM SCHOLEM







Gershom Scholem, nacque a Berlino nel 1897 da una famiglia della borghesia ebraica originaria della Slesia, una di quelle famiglie, la maggioranza allora in Germania, che avevano scelto la strada della completa assimilazione nella società tedesca. Era il più piccolo di quattro fratelli, ognuno dei quali ha una scelta autonoma e indipendente rispetto alla propria condizione di ebreo: Gershom prese la via della ricerca delle proprie radici e del sionismo. "Nei primi anni del Novecento", spiega lo stesso Scholem, "solo una minoranza della gioventù ebraica aderì a movimento sionista, la grande maggioranza era assimilazionista e scelse l’autoinganno — cioè: la totale germanizzazione degli ebrei. Un’altra esigua minoranza - che includeva mio fratello Werner - si unì al campo rivoluzionario." (Consigli in Rassegna mensile d’Israel, 1982:193). Il fratello maggiore divenne un nazionalista di destra, un altro condusse la propria vita al di fuori di qualsiasi coinvolgimento politico, mentre il terzo, Werner, optò per la rivoluzione. La vita di Scholem è permeata da una continua ricerca di se stesso, della propria identità ebraica. Egli cominciò dal primo interesse per la storia che avvenne quando aveva tredici anni, in prossimità della maggiorità religiosa, quello fu il primo impulso all’ebraismo, paradossalmente non ricevuto dalla religione o dalla scuola ebraica. L’insegnante Moses Barol, bibliotecario nell’Istituto per la scienza dell’ebraismo, fu il primo a mostrargli i tre grossi tomi dell’edizione popolare della storia degli ebrei di Heinrich Graetz, incontestabilmente una delle principali opere della storiografia ebraica dalla cui lettura crebbe in lui il desiderio di imparare l’ebraico e, contemporaneamente alla lettura di testi ebraici antichi cominciò nel 1911 a leggere letteratura sionistica tra cui Teodor herzl, Max Nordau e Nathan Birnbaum. Fra il 1912 e il 1917, Scholem aderì al circolo "Jung Juda", in cui confluivano, all’insegna della presa di coscienza sempre più approfondita del proprio ebraismo, sia i rampolli delle famiglie assimilate, sia i giovani originari dell’Europa orientale, discendenti di quei famosi Ost Juden che tanta importanza ebbero nella definizione dell’identità ebraica dell’epoca. Essi erano depositari di un ebraismo rimasto integro, in cui l’identità etnica e quella ebraica erano ancora fuse insieme, come era stato nell’Europa occidentale, sin dai tempi dell’illuminismo ebraico che aveva aperto la via all’assimilazione e al cambiamento dell’identità ebraica, che, da appartenenza a una nazione, con lingua, cultura e tradizioni proprie, era diventata semplice adesione a una confessione. Le sedute erano rivolte a parlare di libri di interesse ebraico, oppure alla lettura di poesie dei grandi narratori ebrei orientali, nell’originale jiddisch o in traduzione tedesca, e spesso si svolgevano in un caffè della stazione, dove Scholem incontrò per la prima volta il personaggio che divenne in seguito il suo migliore amico, Walter Benjamin. Egli fu uno dei fondamentali punti di riferimento nella vita di Scholem; i due si confrontavano in quel mondo in crisi, che gli ha sempre più uniti nella loro intesa spirituale che è rimasta scritta nella storia. Sholem è autore di una biografia di Benjamin, pubblicata nel 1975, Walter Benjamin, Storia di un’amicizia, che vuole essere l’intervento di un testimone fedele e riesce ad essere, anche nonostante le zone volutamente trascurate del Benjamin, che Scholem comprendeva di meno, un’opera di alto valore letterario. Scholem diventò allora, nonostante il contrasto con la famiglia, uno dei membri più attivi dei movimenti giovanili sionisti ma contemporaneamente scelse la via dell’approfondimento del proprio ebraismo: nel 1913 frequentò lezioni di Talmud, nonostante che prima della prima guerra mondiale la ricca comunità ebraica di Berlino si rifiutasse di permetterne l’insegnamento. L’emozione più grande nella vita di Scholem come ricorda lui stesso fu quando imparò a leggere la prima pagina del Talmud nell’originale e, più tardi, sentì la spiegazione dei primi versetti della Genesi data da Rashi, il più grande di tutti i talmudisti ebrei. Alla fine del 1913 egli si aggregò ad una nuova associazione giovanile, "Agudath Israel"; fondata nel 1911, essa era un’organizzazione dell’ortodossia in concorrenza con il sionismo, la quale tuttavia allora non aveva preso ancora la direzione rigorosamente clericale e antisionistica in cui si sarebbe avviata in seguito. La tesi del suo programma - "assolvere ai compiti di tutta la comunità ebraica nello spirito della Torah" - fu un’intimazione ortodossa del "Programma di Basilea" del sionismo formulato nel 1897, per la soluzione della questione ebraica - identificandola con la questione della creazione, in Palestina, di una dimora assicurata dal diritto pubblico. Comunque tale adesione era stimolante perché permetteva a Scholem di seguire un vivace programma di corsi intensivi di studio delle fonti ebraiche, periodo dopo il quale si dissociò. Non è un caso che la generazione postassimilatoria sionista, per rispondere alle annacquature dell’ebraismo tedesco assimilazionista, recuperi e metta in primo piano la Kabbalà e il chassidismo attraverso - tanto per citare due grossi nomi -Martin Buber che diffuse con la sua rivista Der Jude migliaia di sostenitori, e attraverso il filosofo Franz Rosenzweig che con la sua Stella della redenzione diede una singolare ed interessante visione della teologia ebraica e entusiasmò i giovani sionisti dell’epoca. In Scholem si alternavano all’adesione sionistica lo studio delle origini ebraiche, una complementarità tra i due interessi che risiedeva in un'unica passione, la ricerca della propria identità ebraica. Sion era il suo simbolo, che collegava la sua origine e il suo scopo utopico in un senso piuttosto religioso che geografico e Scholem non si orientò verso il sionismo perché la creazione di uno Stato israeliano, principale scopo del movimento sembrasse un fine urgente e del tutto evidente, per molte persone che aderivano al movimento non era determinante il suo aspetto puramente politico, con i relativi argomenti di diritto internazionale. Invece avevano una forte influenza tendenze volte alla riflessione degli ebrei su di sé, sulla loro storia e una possibile rinascita di natura spirituale e culturale, ma anche e soprattutto sociale. Se esisteva una qualche prospettiva di un rinnovamento essenziale in cui l’ebraismo realizzasse il suo intrinseco potenziale, ciò sarebbe potuto accadere solo là dove l’ebreo avesse incontrato se stesso, il suo popolo e le sue radici. Interveniva l’atteggiamento relativo alla tradizione religiosa con una funzione spiccatamente dialettica, perché il conflitto tra lo sforzo di assicurare la continuazione, la rinascita della forma tradizionale dell’ebraismo da un lato, e dall’altro la ribellione cosciente proprio a questa tradizione, ingenerava preliminarmente una dialettica centrale, ineludibile per il sionismo: "C’era qualcosa di atmosferico, che penetrava nell’ambiente; qualcosa di cosciente, in cui si intrecciavano dialetticamente il desiderio di rinunciare a se stessi e al tempo stesso quello della dignità umana e fedeltà a se stessi, c’era qualcosa di una rottura cosciente con la tradizione ebraica di cui erano ancora sparsi in giro, i pezzi più diversi e spesso singolari" (Scholem, 1988:25). In quel periodo Martin Buber con la sua storia della religione come esperienza Erlebnis e amplificazione dell’interiorità, con le sue disquisizioni sullo spirito dell’Oriente, il suo pensiero dialogico dell’Io-Tu, con il sionismo appassionato e romanticheggiante, affascinava l’intera gioventù sionista riscuotendo una vastissima eco da Berlino anche in Francia e in Italia. Buber avvicinò Scholem alla "casa del popolo ebraico" creata da giovani berlinesi che nutrivano un forte interesse ebraico e sociale; essi erano sionisti che - sotto l’influsso delle idee dei populisti russi convinti della necessità di "andare al popolo" - volevano intraprendere il loro lavoro, da cui si ripromettevano reciproco aiuto e alimento. Quell’adesione non durò a lungo, per Scholem, a causa di contrasti con il leader Siegfried Lehmann, che si compiaceva di interpretare le interpretazioni buberiane del chassidismo senza sapere nulla della storia dell’ebraismo. Buber in un primo momento impressionò profondamente Scholem, che in seguito ne rimase deluso in parecchie occasioni. I contrasti, infatti, con Martin Buber lo hanno visto contro per certi aspetti già nel 1915, quando uscì sulla "Judische Rundschau" un articolo intitolato Noi e la guerra, che sosteneva un perfetto "buberismo" e culminava con la frase: "Avvenne così che noi partissimo per la guerra, non già sebbene noi fossimo ebrei, ma perché eravamo sionisti" (Scholem, 1988:80). Scholem rispose protestando violentemente contro la rivista che esaltava la guerra, che i sionisti per lui non dovevano incitare. Nonostante le critiche, Sholem descrive Buber come il primo pensatore ebreo che abbia visto nel misticismo una forza basilare dell’ebraismo e una tendenza in esso al rinnovamento. Contemporaneamente allo studio della Torà viveva in Scholem un grande interesse per la matematica specialmente per la teoria dei numeri, l’algebra e la teoria delle funzioni e questo, come disse lui, creò un conflitto tra le sue due anime, quella matematica e quella ebraica. Ma la direzione della sua vita era già determinata inequivocabilmente, poiché "mi ero proposto di, legare la mia esistenza alla costruzione di una nuova esistenza ebraica nel paese d’Israele" (Scholem, 1988:66). Il sionismo si incarnava nel suo interesse per la Kabbalà, il misticismo ebraico, che aveva le radici nella sua anima, nel grande bisogno di comprendere il mistero della storia ebraica, attraverso la lettura di Graetz sulla "Storia degli ebrei", la lotta del popolo ebraico rivolta a mantenere viva, pur tra le avversità, la purezza della fede monoteista e il suo slancio etico che l’autore presentò in termini vivi e drammatici. Riferendosi allo Zohar, il testo fondamentale della Kabbalà, Scholem spiega che Graetz lo considerò il "libro delle menzogne" e lo stesso, nei confronti dei cabalisti usò una serie di epiteti dispregiativi, in consonanza con il suo temperamento polemico, mentre proprio in quest’opera Scholem aveva trovato, sin dalle prime fasi del suo precoce interesse per le fonti ebraiche, qualcosa di nascosto che lo attirava. La Kabbalà rappresentava per Scholem l’elemento vivificante dell’ebraismo, il quid che gli aveva consentito di sopravvivere spiritualmente nonostante le condizioni artificiose della vita diasporica, dando una propria risposta ai problemi via via posti dalla storia, sulla scia delle istanze di adeguamento ai parametri tedeschi, che nella sostanza più intima rispondevano ad uno spirito protestante, che doveva "depurare" l’ebraismo da tutte le sue espressioni peculiari. Da qui prendeva origine l’idea del "monoteismo etico" (Scholem, 1998:12) come caratteristica essenziale per la definizione della religione ebraica, una volta che le aspirazioni alla dimensione nazionale si erano rilevate illusorie o piuttosto, come avrebbe notato Scholem, erano state censurate in nome dell’adeguamento al concetto germanico di nazionalità, secondo il quale era impossibile ammettere nello stato tedesco gli appartenenti a una nazione autonoma, come era stata quella ebraica prima dell’emancipazione. Il sionismo così diventò il principale ostacolo all’integrazione in seno al mondo tedesco e, come tale dovette essere combattuto tenacemente dalla borghesia ebraica. Da qui la polemica contro la Wissenschaft des Judentums, di cui Scholem faceva parte, che dal canto suo aveva contribuito in misura notevole sia al formarsi della nuova identità ebraico-tedesca, sia alla sua fossilizzazione anacronistica, che Scholem ha più volte messo in luce con accenti fortemente polemici. Riconsiderare le origini dell’ebraismo attraverso i documenti letterari e storici di tutta la diaspora adattandoli in una chiave moderna, ai problemi dell’assimilazione, come tentativo illusorio di adeguarsi ai parametri culturali, che comunque, non erano adatti a comprendere la specificità ebraica, era una vera e propria "miopia culturale" (Scholem, 1998:11). Scholem descriveva questo fenomeno brutale come "Autoinganno"; l’incapacità di giudicare tutto ciò che concernesse se stessi, che caratterizzava la maggior parte degli ebrei, fu uno degli aspetti più importanti e tristi dei rapporti fra i tedeschi e gli ebrei. Scholem viveva questo conflitto culturale emerso dalle due realtà, quella ebraica e quella tedesca spesso in contrasto, come un "dramma" (Turner, 1986:49). La sovrapposizione, l’inter-referenzialità tra le due culture generava un conflitto determinato dalla volontà di allontanare un mondo per recuperarne un altro. Scholem riuscì a superare la rottura emersa dal rifiuto di porre le proprie armi simboliche, in mani tedesche tra cui, sistemi rituali, sempre più invasive della vita ebraica, perché egli intravedeva proprio in questo "dramma" l’origine di una trasformazione generata dal potere della comunicazione mediante simboli recuperati attraverso lo studio della Kabbalà. Quello che i padri fondatori della Wissenschaft consideravano irrilevante, rispetto alla concezione dell’ebraismo che si proponevano di valorizzare, diventa centrale per Scholem: egli si poneva all’opera con maggiore consapevolezza della complessità implicita nel concetto di obiettività scientifica che non è possibile isolare artificiosamente dall’elemento ideologico, sotteso a ogni operazione culturale del tipo di quella messa in atto in qualsiasi rilettura dell’ebraismo. La conoscenza di una verità non era quella dei suoi predecessori che vedevano nell’ebraismo un avvicinamento a una "decorosa sepoltura", come disse Getthold Weil ad una conferenza tenuta all’istituto Leo Baeck di Londra, Scholem, seppure fedele alla Wissenschaft ma per certi aspetti critico, era animato da uno spirito di ricerca che prendeva le mosse dal significato che assumeva per lui la dialettica, come dinamica vitale che si rileva all’occhio attento a cogliere il valore dei particolari, attraverso "la Kabbalà come corpus simbolicum che si traduce in forme temporali che celano attraverso apparenze nebulose e transeunti un nucleo di verità" (Consigli in Rassegna mensile d’Israel, 1982:2069). Egli aveva cominciato a scandagliare le fonti del patrimonio ebraico, giungendo alla mistica, l’esame spassionato delle fonti condotto con il massimo rigore filologico, l’ideale di ricerca che ha perseguito in tutta la sua lunga carriera da studioso, lo muoveva la convinzione che, riportare i fatti alla luce nella loro obbiettività fosse il primo passo per giungere alla verità. L’ansia che emerge dalla rottura del passato si fa continua con la prospettiva del futuro. Non a caso ricercare un significato profondo nelle parole della Torà, servendosi della numerologia, racchiude il simbolo espresso da un "ponte di passaggio" tra passato e futuro, per arrivare alla conoscenza e chiarezza di un futuro che diventa identità. Scholem, in un documento estremamente significativo del suo iter intellettuale in una lettera del 1937 a Zalman Schockenche, oltre a rilevare le vere intenzioni che lo avevano spinto allo studio della Kabbalà, fa intravedere anche la ragione profonda della sua adesione alla forma della Wissenschaft in nome di una sostanza del tutto diversa. Scrivendo infatti della Kabbalà come del quid in cui si era realizzata nell’ebraismo l’Aufhebung del mito e del panteismo (elementi misconosciuti dai razionalisti ebrei di tutti i tempi e dai contemporanei e in particolare, "in nome del monoteismo puro"), Scholem parla simbolicamente della "chiave" per entrare nella sfera della mistica. Questa chiave forse perduta o forse trascurata è, secondo Scholem, lo strumento per penetrare nella vita nascosta dei simboli, forzando la muraglia della storia che li circonda. "Il corpus delle cose - dice Scholem - non ha alcun bisogno di una chiave; bisogna solo penetrare (forare) il muro di nebbia della storia che lo circonda" (Scholem in Consigli, 1982:193). La storia è "nebbia" che verosimilmente si rivela nella sua essenza, ma è anche il rivestimento che necessariamente prende la sostanza per emergere dalla vita segreta al mondo fenomenico. La Kabbalà è il metodo basato sull’interpretazione perpetuamente orientata al rinnovamento di una parola divina in sé inafferrabile per l’uomo, è una sorta di noumeno, che pur essendo differente dal rivestimento fenomenico, non ne può prescindere e pertanto si rivela proprio attraverso il nascondimento e grazie ad esso. L’esplicita attività politica forte nella sua convinzione lo ha reso più sensibile di fronte all’obbiettivo della sua vita, quello finalmente di giungere in Israele, realizzato nel 1923, dove trovò a Gerusalemme un posto di lavoro come professore di matematica all’Istituto di formazione degli insegnanti. Diventò un forte sostenitore del movimento di sinistra dei pionieri halutzim e fece parte del Brit Shalom, l’organizzazione che si batté fin dagli anni venti per il dialogo tra arabi ed ebrei. All’inizio di quegli anni, Israele rappresentava un culmine del movimento sionistico, lì vivevano meno di centomila ebrei eppure c’era una grande spinta, uno slancio di questa gioventù che si era data alla causa del sionismo, possedendo una coscienza storica nella quale era concentrata la dialettica di continuità e di rivolta. Scholem spiega che nessuno avrebbe potuto rinnegare la storia del popolo d’Israele, ma la patria era una realtà concreta per fissare le proprie radici. Quelle di Scholem si basavano sulla realizzazione di un progetto per la fondazione dell’università per gli Studi ebraici che ebbe luogo alla fine del 1924, con a seguito l’apertura nel 1925 dell’università ebraica. Si cercavano scienziati che potessero adornare una facoltà intesa all’indagine di tutti gli aspetti dell’ebraismo e della sua storia: Scholem fu proprio uno di quelli ad essere scelti per insegnare la Kabbalà. Da qui escono i primi studi dell’autore: Bibliliographia Kabbalistica nel 1927 e Capitoli nella storia della letteratura cabbalistica nel 1930. Dopo la guerra appare nel 1949 Le grandi correnti della mistica ebraica nel 1957 Shabbetai Zevì, nel 1960 La Kabbalà e il suo simbolismo, Judaica nel 1963. Questi lavori consistono nell’aver attribuito un autonomo valore storico alla Kabbalà, liberandola dal pesante giudizio del positivismo ebraico ottocentesco, che la considerava come un’ingombrante faragine di stranezze e di aberrazioni. Vale la pena sottolineare come la mistica dia luogo ad una letteratura particolarmente restia a sottomettersi a periodizzazioni scientifiche. Ci troviamo di fronte a un genere letterario in cui l’autore preferisce spesso l’anonimia oppure ricorre alla pseudoepigrafia, attribuendo il proprio scritto a qualche personaggio dell’antichità. Oggi noi possiamo avvalerci della lucida ricostruzione logico-scientifica di Scholem, che costituisce una solida base per ogni ulteriore studio. Egli tuttavia dovette affrontare l’ostilità dei circoli tradizionali e dell’ortodossia rabbinica per riportare chiarezza scientifica nelle paternità e nelle datazioni, sconfessando numerose attribuzioni sancite da una consuetudine secolare e abbassando molte date. Scholem pone il suo approccio storiografico allo studio del misticismo ebraico in diretto contrasto con quello della scuola ottocentesca della Wissenschaft des Judentums (scienza del giudaismo). L'analisi del giudaismo da parte di questo movimento ha, agli occhi di Scholem, due gravi carenze: (1) studia il giudaismo come un oggetto morto posto su un vetrino di microscopio anziché come un organismo vivente e (2) non tiene in considerazione il "fondamento" stesso del giudaismo, le forze irrazionali che vivificano la religione. Per Scholem le componenti mitiche e mistiche sono altrettanto importanti che quelle razionali. Tuttavia egli non vuole seguire le orme di chi ha abbracciato la mistica ma non la storia degli Ebrei. In particolare è in disaccordo con Martin Buber a cui rimprovera la personalizzazione dei concetti cabalistici e l'ignoranza della storia, della lingua e della patria ancestrale del popolo ebraico. Nella Weltanschauung di Scholem l'indagine del misticismo ebraico non può prescindere dal contesto storico. Partendo da una sorta di Gegengeschichte nitzschiana egli arriva ad includere nella storia "pubblica" molti degli aspetti meno "normativi" del giudaismo. Quest'impeto di conferire legittimità all'irrazionale deriva, come quello della Wissenschaft, più o meno direttamente da Buber. Tuttavia le vedute "contro-storiche" (gegengeschichtlich) di Scholem comportano il concetto di tradizione come forte legame tra gli Ebrei di ieri e gli Ebrei di oggi (adesione al sionismo). Specificamente Scholem concepisce la storia ebraica come formata grosso modo da tre stadi:
1) Durante il periodo biblico il monoteismo lotta contro il mito senza riuscire a sopraffarlo completamente.
2) Nel periodo talmudico parte delle "istituzioni" - per es. nozione del potere magico dell'adempimento dei sacramenti - viene eliminata a favore di un concetto più puro della trascendenza divina.
3) Nel periodo medievale, posti di fronte all'impossibilità di conciliare il Dio astratto della filosofia greca col Dio personale della Bibbia, i pensatori ebrei come Mosè Maimonide, nel loro tentativo di eliminare i residui del mito, snaturano la figura del Dio vivente. È a partire da quest'epoca che si sviluppa il misticismo inteso come sforzo teso a ritrovare l'essenza del Dio dei padri.
La nozione dei tre stadi, con le sue interrelazioni tra irrazionale e razionale, porta Scholem a formulare tesi assai controverse. Secondo la sua opinione è dalla Qabbalah luriana medievale che si sviluppò il movimento messianico cinquecentesco del sabbatianesimo. Per neutralizzare il sabbatianesimo, come sintesi hegeliana, sarebbe sorto il Chassidismo. Molti che aderivano al Chassidismo perché vi vedevano una congregazione ortodossa accolsero come uno scandalo l'idea che la loro comunità avesse un rapporto così stretto con un movimento "ereticale". Similmente Scholem ipotizzò come fonte della Qabbalah duecentesca un ipotetico gnosticismo ebraico anteriore a quello cristiano. L'approccio storiografico di Scholem implicava anche una teoria linguistica. Diversamente da Buber egli credeva nella capacità del linguaggio di evocare realtà sovrannaturali. E, in contrasto con Benjamin, poneva l'ebraico in posizione privilegiata in quanto unica lingua in grado di adombrare la verità divina. Scholem immaginava i cabalisti come interpreti di una rivelazione linguistica preesistente.




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