LA NEGAZIONE DELLA VOLONTA'


 

 

L’ultima parte del pensiero di Schopenhauer riguarda la negazione della volontà e la compassione. La COMPASSIONE è puro disinteresse, va distinta dalla commiserazione, che è mero atto verbale senza reale coinvolgimento:«si commisera stando fermi dove si è». La compassione comporta, invece, un atto concreto volto non al mio bene, ma a quello degli altri, è un atto di puro disinteresse. Questa concezione va contro tutto quel filone di pensiero che parte da Machiavelli, fino ad arrivare ai Moralisti francesi e agli Illuministi, secondo cui la compassione è solo una versione estremamente raffinata di amor proprio che vede negli altri tanti possibili Io: la compassione si converte in immedesimazione.

La Rochefoucauld diceva: «È bene che io aiuti qualcuno affinché un giorno qualcun altro aiuti me», e anche «La pietà è un sentire i propri mali nei mali altrui».

Un problema assai spinoso è quello della cosiddetta NOLUNTAS, cioè la NEGAZIONE DELLA VOLONTÀ: molti presentano il pensiero di Schopenhauer come “una storia che inizia male ma si conclude bene”. In realtà, chiedersi se esista un’alternativa al mondo è scorretto perché comporterebbe l’idea che io possa evadere da esso, e questo Schopenhauer certo non lo pensa.
Noi ci troviamo a volte di fronte a manifestazioni di incontestabile disinteresse, nel campo dell’arte come dell’etica; vi è come un ventaglio di tali comportamenti che vanno da un minimo a un massimo. Come esiste una progressiva perversione della volontà di vivere, un peggioramento, così vi è un’opposta scala gerarchica di volontà sempre più onesta, disinteressata, che rifiuta l’ingiustizia, lo sfruttamento altrui, la scortesia, al cui culmine si pone la rinuncia al volere. L’ascesi, il digiuno, la non-violenza, la castità, la povertà, ecc. sono tutti fatti rarissimi che però Schopenhauer non si sente di ignorare.
Nei “Parerga e Paralipomena”, Schopenhauer presenta una versione del suo pensiero facilitatata e divulgativa, a cui si rifanno i manuali di Storia della Filosofia nel presentare quella specie di prospettiva ottimistica finale. In essi sembra esservi l’idea che si possa negare la volontà e che noi siamo in grado di farlo.

Ma cosa vuol dire “negazione della volontà”? Forse io posso volere di non volere? Schopenhauer ci ha ampiamente spiegato che la volontà, in quanto volontà di vivere, finchè vuole, vuole. Quindi, l’introduzione del tema della rinuncia comporterebbe una contraddizione insostenibile, sancirebbe l’annullamento di tutto il suo pensiero e la manifestazione di una sorta di miracolo, di un “deus ex machina”. Se l’Io è volontà di vivere, non può al contempo essere volere di non volere, cioè negazione di sé. La rinuncia non può pertanto essere atto volontario, dunque nemmeno l’ascetismo, la povertà, ecc. lo sono: e non sono neanche imperativi morali alla maniera kantiana (“devi, quindi puoi”). Il processo comporta un azzeramento INVOLONTARIO della volontà attuato dalla conoscenza, ma non la normale conoscenza, bensì quella particolare conoscenza dell’arte e delle idee. Essa, infatti, non offre più motivi d’azione alla volontà, che non ha più ragion d’essere e viene meno; questo, però, solo per quanto riguarda la volontà di vivere consapevole, la volontà come cieco istinto non è certo annullata. Il conoscere ri-converte in sé e spegne la volontà.

Anche il più sublime asceta ha pur sempre un corpo, quindi conserva la volontà, se pur in forma molto ridotta, come si può osservare nel suo corpo scarnificato e deperito.

La pura conoscenza è conoscenza delle idee, che è anche conoscenza del tutto: le idee, infatti, non sono poste l’una vicino all’altra o in successione , ma ognuna è anche l’altra, per cui esse formano un’unità articolata e dinamica, un uno-tutto. Non è tanto, dunque, la conoscenza che annulla la volontà, quanto piuttosto la volontà stessa che diventa conoscenza e si auto-annulla.

«Noi abbiamo due modi di conoscenza diversi, anzi, in reciproca contraddizione: uno secondo il principio di individuazione, che ci mostra gli altri enti come totalmente diversi da noi, per cui verso di essi non possiamo che provare indifferenza o invidia. L’altro modo è quello che ci mostra tutti gli esseri identici al nostro Io, sicchè il loro aspetto suscita in noi gioia e amore. Dimostrabile è solo il I modo, il II è come un fatto posto fuori dal mondo, misterioso, e costituisce il punto più difficile della mia dottrina. In alcuni predomina il I modo di conoscere, in altri il II: perché questo?». Il carattere non può mai cambiare, semmai può essere annullato dalla conoscenza, un particolare tipo di conoscenza irrazionale che non può trovare espressione in parole, ma solo in azioni della vita.

«Poiché l’auto-superamento della volontà dipende dal conoscere e ogni puro conoscere è indipendente dalla volontà, così anche quella negazione della volontà non può essere frutto della deliberazione, bensì procede dai più intimi nessi del conoscere e del volere, e perciò si produce improvvisamente come piombando dall’esterno».

Questa citazione fa chiarezza: la negazione del volere non dipende da me, dalla mia buona volontà, ma da questi “INTIMI NESSI” fra conoscere e volere, i quali non sono altro che l’OBIETTIVAZIONE ADEGUATA e quella INADEGUATA. La negazione avviene, ed è un fatto incontrovertibile, ma è una possibilità che mi è data, per così dire, “sola gratia”. È certo che non è la nostra volontà che vuole disattivarsi, bensì essa si trova disattivata eventualmente dall’insorgere di una conoscenza che la quieta. Un conoscere superiore la depotenzia, la spegne: si può ipotizzare che nei vari aspetti di una volontà buona ci si trovi in presenza di questa geniale intuizione, di una conoscenza che sa risolvere in sé la volontà. È una conoscenza dell’universale SOLIDARIETÀ del tutto, in quanto obiettivazione adeguata, ma anche dell’universale VANITÀ del tutto, in quanto obiettivazione inadeguata.

Vengono progressivamente meno i motivi fino a che l’intuizione si sostituisce interamente alla volontà di vivere, risolvendola in sé, eliminandola perciò del tutto.

Nel carattere buono è in varia misura operante tale illuminazione, tale conoscenza superiore.Un individuo buono opera, a tratti, non più come l’individuo empirico ma come puro soggetto del conoscere, analogamente a quanto avviene nel caso dell’artista. Quello che l’opera d’arte produce solo allorché la si incontri e momentaneamente, nel carattere buono è in varia misura operante già da sempre.

La volontà come cosa in sé assoluta si individua come carattere intelleggibile, che può essere buono, e questo avviene in pochissimi individui, o cattivo, nella maggioranza dei casi, perciò la volontà si individua a tratti anche come sovraindividuale intuizione delle idee.

Tali congetture non comportano contraddizione con il resto del pensiero di Schopenhauer, in forza della libertà assoluta della volontà come cosa in sé assoluta, che, come detto, è del tutto arbitraria. Essa può obiettivarsi adeguatamente o inadeguatamente e può “fare la spola” tra le due obiettivazioni, può far trapelare le due obiettivazioni l’una attraverso l’altra. Può voler essere conoscere e perciò cessare di sussistere come volontà e in questo non c’è contraddizione.

Questa interferenza tra le due obiettivazioni, questa irruzione dell’obiettivazione adeguata in quella inadeguata, questa memoria che nella seconda ogni tanto si manifesta della prima può spiegare il raro fenomeno della volontà buona. Può anche spiegare casi di radicale conversione e totale mutamento del carattere.

Se si ipotizza una qualche presenza del soggetto puro del conoscere nell’individuo empirico, soggetto del volere e del conoscere, è possibile spiegare perché, in rari casi, si verifichi un annullamento della folle e autodistruttiva volontà di vivere e di quella conoscenza che è solo sua schiava.

Pur con tutte le precisazioni fatte all’inizio, forse con questo Schopenhauer vuole offrirci un tenue barlume di speranza che, se pur minimo, può aiutarci a non precipitare del tutto nella disperazione di fronte alla tragedia della nostra vita e all’assurdità di questo nostro mondo.

 

 


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