LA TRAGEDIA DELLA VITA


 

 

Come si presenta, allora, questa volontà di vivere che sentiamo agitarsi in noi e nell’altro da noi? Questa vita è MISERIA, DOLORE e SOFFERENZA; questo aspetto profondamente pessimistico ha fatto la vera fortuna di Schopenhauer.

Il dolore infinito che attanaglia il mondo e che scaturisce dalla miseria essenziale della vita non può essere un accidente senza scopo: ciò non avrebbe alcun senso.

Quando si è giovani, si è nei confronti della vita come uno spettatore di fronte a un sipario abbassato che aspetta con impazienza e speranza lo spettacolo: ma lo spettacolo della vita tradisce sempre tutte le attese. La sua è come una violenza operata sui bambini.

La cosa migliore da fare è considerare questo mondo come una penitenza, come una prigione, un carcere. Si dice spesso “La mia vita è una galera”, ma questo tipo di affermazione riguarda sempre una situazione circoscritta, accidentale, con la sua durata definita e le sue cause. Appena questa situazione finisce, ecco che la vita ci sembra di nuovo degna d’esser vissuta. Invece, la concezione di Schopenhauer è molto più radicale, perché considera la vita una prigione permanente, in cui «il fatto immediato è sempre, per noi, il bisogno» e «volere, sforzarsi, è come una sete inestinguibile».

Ogni volere, infatti, ha alla sua base un bisogno, un desiderio o una mancanza. Il dolore è CONGENITO alla volontà: volere qualcosa significa volerlo perché ci manca. Soffrire e soffrire per la mancanza di qualcosa sono la stessa cosa. La vera beatitudine, in fondo, non è altro se non l’assenza di ogni bisogno.

Finchè siamo volontà, soffriamo. La volontà, in tutto ciò che vuole, vuole se stessa, la sua conservazione, il suo benessere; è un “volere il volere”, un volere senza scopo e senza fine. Lo scopo, in realtà, c’è, è il perpetuarsi della volontà stessa. I vari scopi che la volontà si pone sono apparenti: sono volti non a soddisfarla, a farla cessare, bensì a mantenerla in vita.

I bisogni rimandano a sempre nuovi bisogni in una catena infinita la cui chiave è la perenne insoddisfazione. «Nel nostro volere in generale sta la nostra disgrazia». Cosa vogliamo, poco importa: il nostro volere non ha mai soddisfazione, altrimenti porrebbe fine a se stesso.

Non cessiamo mai di volere, e la vita è eterno soffrire.

«Noi ci illudiamo continuamente che l’oggetto voluto possa porre fine alla nostra volontà. Invece, l’oggetto voluto assume, appena conseguito, un’altra forma e sotto di essa si ripresenta. Esso è il vero demonio che sempre sotto nuove forme ci stuzzica».

La volontà anela incessantemente a essere appagata, ma nulla la appaga: prima ancora di volere questo o quello, essa vuole il suo stesso anelito a essere appagata. Essa si riproduce all’infinito come “volontà di”. Ciò segnala il carattere illusorio e predatorio dell’aspettativa. Il raggiungere qualcosa di desiderato coincide con l’accorgersi che esso non valeva la pena di tanto sforzo: il valore prospettato è sempre infinitamente maggiore di quello effettivo. Noi viviamo sempre aspettando qualcosa di più, di meglio, e il presente è sempre accolto come un qualcosa di provvisorio, un nulla, un mezzo per un futuro migliore. Il presente è o l’insoddisfazione del bisogno ancora da soddisfare o quella del bisogno appena soddisfatto. Onde i più, quando si guardano indietro, si accorgono di aver sempre vissuto provvisoriamente, e quella somma di tanti presenti insoddisfatti è la loro vita. Accecati dalla speranza, corrono senza avvedersene nelle braccia della morte.

Speranza, aspettativa e illusione sono un meccanismo ineliminabile della volontà, astuzia con cui essa si autoalimenta all’infinito come produttrice di illusioni. Essa è bisogno e vuole solo prolungarsi come tale, per questo crea sempre e solo illusioni. Ma questo esser bisogno è proprio il carattere tormentoso dell’esistenza e il principale motore dell’egoismo.

L’egoistica affermazione della volontà che ciascuno di noi è si scandisce in tre processi:

 

1.     NUTRIZIONE (soddisfazione della fame)

2.     RIPRODUZIONE, che si radicalizza in un DESIDERIO DI FAMA E IMMORTALITÀ

3.     DESIDERIO DI ALLONTANARE LA MORTE

 

Per l’egoismo morale, il titolo di “Io” spetta solo a me: il volere è il MIO VOLERE. Mentre io sono costantemente e insistentemente presente a me stesso, gli altri sono lontani, sbiaditi, opachi. Non ci sono che io, esisto io soltanto. E’ un egoismo naturale, universalmente necessario che coincide con la mia stessa volontà. Io coincido con le mie gioie e sono insensibile ai sentimenti altrui.

Ne deriva un delirio ONTOLOGICO: ogni io si percepisce come centro del mondo, come unica realtà, quindi i vari Io non possono che entrare in concorrenza gli uni con gli altri. Ciascuno reagisce con violenza ai tentativi di limitazione degli altri; ciascuna considera la propria morte come FINE DEL MONDO.

«Quest’egoismo diventa l’erinni, la guerra di tutti contro tutti».

La storia ci racconta solo guerre fra individui, e le paci sono solo delle tregue. L’individuo non fa solo una lotta metafisica con bisogno e noia, ma anche reale contro gli altri.

La lotta metafisica inerisce costitutivamente al nostro essere ed è quella che l’Io combatte con la volontà, o meglio, la volontà con se stessa. La volontà non è mai in quiete, in pace con se stessa: è in perenne insoddisfazione. E’ in perenne rifiuto,  in guerra permanente col proprio bisogno che è però ineliminabile. Ogni singola volizione è una battaglia con il bisogno che la attanaglia. La volontà è quindi sempre sul piede di guerra con se stessa prima ancora che con gli altri concorrenti. E’ una specie di continua nevrosi, da noi spesso descritta con termini militari; si dice spesso “lasciatemi in pace” , “non c’è pace”.

E’ un conflitto congenito, innato, connaturato all’Io stesso, non certo imposto dal contingente: è primario, non secondario. Tutta quella lunga serie di prospettive filosofiche che teorizzano la pace dei sensi, la calma olimpica, l’ascesi, ecc…vanno squalificate perché illusorie e inutili. Sono destinate a restare solo teoriche, “volontà di non essere più volontà”, il che è assurdo. La pace interiore è preclusa all’uomo stante ciò che esso è, stante la sua natura.

Non esistono, ci si chiede , dei momenti di tregua, di rilassatezza, di pace? Si, ma sono occupati dalla NOIA, contro la quale la lotta è anche più tormentosa. La noia si può anche vedere negli animali domestici; ma è enorme nei ricchi che vivono nel lusso più sfrenato ma che si annoiano proprio perché hanno già tutto.

« La vita nomade, il grado più infimo della civiltà, ricorre nelle società ricche come turismo; la prima è causata dal bisogno, la seconda dalla noia».

La vita si pone da subito come un compito, perché bisogna guadagnarsela; ma, in seguito, soddisfatto il bisogno, subentra il peso della noia. Lo sfarzo e il lusso dei gran balli, le donne, i costumi, i gioielli, ecc. sono solo rimedi escogitati contro la noia. La vita stessa del gran mondo è continua lotta contro la noia. I poveri, al contrario, combattono contro il bisogno.

Insomma, la vita, sotto tutti gli aspetti, è MISERIA.

La noia è vita al rallentatore, è caduta di tensione della volontà quando vengono meno bisogni e desideri. Ma allora viene meno la volontà di vivere, è negata? Nient’affatto: la noia è insoddisfazione della propria situazione, quindi è sempre uno stato di bisogno. L’annoiato deve per forza inventarsi dei bisogni nuovi: lusso, balli, divertimenti, ecc. Cosa si sforza di ottenere? Egli rimpiange l’intensità del volere, rimpiange l’intensità di quella vita di perenne bisogno. La volontà rivuole se stessa: la soddisfazione è sentita come un impaccio, quindi ci si trova subito dei diversivi. Ci troviamo di fronte a una volontà SVOGLIATA, che vuole sempre di più per la noia che l’attanaglia; è una volontà meno vistosa ma non meno vischiosa di quella autentica.

Nessuna soddisfazione di bisogni è veramente tale; la noia va a costituire uno dei due poli della vita umana (l’altro è il bisogno).

Una tipica figura di annoiato è Trimalcione nel Satiricon di Petronio, che mangia, mangia, e poi vomita per poi poter di nuovo mangiare.

L’uomo annoiato non vuole più nulla perché ha già tutto; ma per “nulla” si intende questa o quella cosa. Egli vuole tutto, ma il Tutto che ha sempre voluto e di fronte al quale quello che ora possiede gli sembra insignificante. Nella noia si manifesta in modo chiaro l’INCOLMABILE VORACITÀ del bisogno della vita. La noia non è mai esperienza buona. Lungi dall’uccidere il desiderio, la soddisfazione la fa risorgere invelenita sotto-forma di noia, che è desiderio travestito.

La volontà annoiata si spinge sempre in avanti; la sua è una fuga da se stessa, non dalla noia. La noia non è tedium vitae, è semmai desiderio di un’altra vita, di tante altre vite, di tutte le vite.

La noia è strettamente legata alla Sehensucht, cioè lo STRUGGIMENTO INDETERMINATO, un desiderare il desiderare stesso. La volontà di vivere è già sempre annoiata radicalmente perché desidera tutto, è desiderio indeterminato impossibilitato a soddisfarlo; la noia fa palesare l’insoddisfazione di ogni soddisfazione di un bisogno.

I Romantici non hanno fatto altro che rivisitare il desiderio platonico dell’INFINITO, che sottolinea l’anima infinita umana; è un desiderio che nulla di terreno è capace di soddisfare. L’animale, soddisfatto il bisogno, si acquieta; non così l’uomo, perennemente inquieto perché alla ricerca dell’infinito.

Schopenhauer obietta che non serve “scomodare” il divino o l’infinito: è la volontà stessa che spiega “sulla terra” questo incolmabile desiderare, essendo perennemente insoddisfatta. Tutta la tradizione platonica viene dunque liquidata.

 «L’insaziabilità della volontà individuale, per cui ogni soddisfacimento genera un nuovo desiderio, sortisce un  tendere mai soddisfatto che va all’infinito». La nostra volontà è costante desiderare senza mai trovare soddisfazione.

La noia è segno di un potenziamento della volontà, di un suo onnivoro volere: il suo è un voler nulla che è un voler tutto.

Il dolere è positivo in quanto realtà prima e originaria; la felicità è secondaria, è negazione di ciò che è già di per sé ontologicamente precedente.

Ogni soddisfazione è propriamente sempre e soltanto negativa e mai di per sé positiva. Non è mai di per sé originaria, viene sempre dopo il bisogno che è pertanto stato primigenio. La felicità sarà sempre e solo soddisfazione di bisogno, negazione di esso; essa modifica, negandolo, uno stato positivo anteriore. Noi, quindi,  non siamo mai immediatamente felici, ma radicalmente bisognosi.

Non soltanto viene dopo, ma la felicità è sempre minore: la soddisfazione non toglie mai del tutto il bisogno, lo annulla solo in minima parte. Essa è diminuzione di uno STATO PERMANENTE.

La soddisfazione è sempre inadeguata, non è mai quella voluta. L’INSODDISFAZIONE SI PROTRAE AD OLTRANZA, è INELIMINABILE. La FELICITÀ è UN MIRAGGIO, anche se si presenta, non ce ne accorgiamo, siamo già proiettati oltre.

L’esempio classico è quello della salute: quando c’è, non ce ne accorgiamo nemmeno, ci sembra meramente normale. Solo nella malattia comprendiamo il suo vero valore.

In realtà, lo stesso rimpianto per il passato è sempre infondato perché lo stesso passato viene idealizzato: poteva essere e non è stato, ma,in realtà, sicuramente non sarebbe comunque mai stato anche se allora avessi voluto che fosse.

Si arriva al porto sempre da naufraghi, quindi cosa importa l’essere stati felici o meno?

Per i Padri della Chiesa, il LEGNO DELLA CROCE è traghetto sicuro verso la salvezza, conduce in salvo attraverso le peripezie. Ma, per Schopenhauer, ciò è mera ILLUSIONE: il  viaggio stesso è sempre un fallimento, la sua buona riuscita è illusione.

L’illusione è prodotto primario della FANTASIA, una forma della conoscenza, che così palesa chiaramente il suo essere al servizio della volontà. La conoscenza razionale sembra essere un’evoluzione, un raffinamento della fantasia operato per meglio volere. La vita è mantenuta in movimento solo dal bisogno e dall’illusione.

«Noi ci illudiamo continuamente che l’oggetto voluto possa porre fine alla nostra volontà».

L’illusione è strumento intrinseco della volontà sofisticata con cui essa è in grado di rinnovarsi all’infinito.

La volontà elegge un oggetto a proprio fine e se ne fa motivare SPERANDO che la soddisfi. Gli oggetti sperati impegnano la volontà a concentrarsi solo su di essi, ed essa si fissa in  modo maniacale. L’uomo arriva  a credere che tutta la felicità dipenda dall’avere un dato oggetto.

«Avviene così che, accecati dalla speranza, gli uomini corrono senza accorgersi fra le braccia della morte».

Il desiderio è concreto desiderio di questo o quello nella misura in cui si convince che questo o quello lo accontenteranno. Così si manifesta il più sottile  asservimento del conoscere al volere: dove c’è il volere, c’è illusione.

“L’illusione è dura a morire”, si dice: non solo, dice Schopenhauer, essa è immortale: non si può vivere senza illusioni. Nella volontà dell’uomo volontà e illusione sono inestricabilmente e congenitamente connesse. La conoscenza si fa infatti fantasia e illusione; pensare a una vita senza illusioni dà le vertigini. L’intera nostra esistenza è materiata di fantasie narcisistiche e del continuo sognare realtà diverse. Fra volontà e illusione vi è più che complicità: l’illusione è momento costitutivo della volontà. In senso lato, la fantasia stimola la volontà: la stimola l’illusione che quella data cosa la soddisferà.

La fabbrica delle illusioni è come una variante, una modifica della volontà, che si fa desiderio, fantasia, vagheggiamento.

L’illusione è indispensabile alla sopravvivenza della volontà, è intrinseca a essa, è sua funzione parimenti immortale. La felicità sta proprio nell’illudersi, nel pregustare, nell’aspettativa della soddisfazione, che è sempre insoddisfacente.

L’illusione per un verso eccita, stimola la volontà, per l’altro la calma, la frena; comunque agisca, funge sempre da ricostituente perché ricostituisce la volontà di desiderio in desiderio. Non per niente i mistici combattono da sempre la cosiddetta “delectatio morosa”, la fantasticheria, che travia l’animo, lo introduce in un circolo vizioso senza fine.

Ciò non riguarda la vita privata soltanto: tutta la storia umana è piena di illusioni collettive quali le metafisiche, le religioni e le grandi ideologie.

La religione è congenita all’umanità, perché congenito è il bisogno dell’uomo di costruirsi prospettive di salvezza: è un’esigenza ineliminabile, impossibile da estirpare, come vorrebbero Illuminismo e Marxismo.

Ma la pregustazione, naturalmente, ha il suo converso nella delusione, tanto più aspra quanto più grande era l’illusione. La delusione, però, non vince l’illusione, anzi, la rinfocola: “Se oggi non sono soddisfatto, forse domani andrà meglio”. La sirena dell’illusione attrae per forza la volontà, che vuole illudersi, perché volendo se stessa vuole anche gli allettamenti. “L’uomo ordinario, anche se vede risultar vani i suoi 100 desideri, escogita il 101°”.

Schopenhauer, quindi, non demistifica questo o quell’aspetto della vita, ma la vita stessa: è un’impostura nel piccolo e nel grande, non mantiene mai le promesse, o, se lo fa, è solo per mostrare quanto vane fossero, di che miraggi si trattasse.

«Il presente è una piccola nube scura che il vento spinge su una superficie soleggiata».

Il campo in cui la fantasia si manifesta nella più assoluta pienezza è la vita sessuale e, in seguito, quella amorosa. Qui l’illusione opera veri miracoli per conto della volontà di vivere, che è, in tal caso, volontà di riprodursi, di essere immortali. L’istinto sessuale, illusoriamente, sembra essere al servizio dell’individuo, in realtà è al servizio della specie. Nella volontà di vivere degli individui si manifesta già sempre quella della specie, che è presente in loro e li dirige, poiché sono mortali.

La soddisfazione sessuale sembra essere solo dell’individuo, ma essa è minima: l’unico suo scopo è la conservazione della specie. Il fugace piacere non può certo compensare oneri come la paternità, l’educazione, il mantenimento della prole, ecc. La mia volontà, insomma, non è mai solo mia. Io obbedisco alla voce sovrana della natura, alla volontà della specie.

Ogni innamorato è vittima dell’inganno, del sogno fasullo di piacere insufflato in lui dalla specie. L’interesse della specie alletta l’individuo con una promessa di massima felicità, rappresentata dalle celebrazioni delle gioie amorose. L’obiettivo individuale massimo sembra infatti essere la vita amorosa, e di fronte a questo tutti gli altri bisogni primari sono nulla: si arriva addirittura a rischiare la vita a causa sua. L’innamoramento produce nell’amante una specie di delirio, un istupidimento, una follia, un’estasi che porta all’oblio di sé e dei propri interessi individuali.

La visione che hanno di sé gli innamorati li porta a considerarsi migliori di quelli che sono: questo perché ciascuno cerca di celare i propri difetti, ma anche perché entrambi sono in effetti migliorati dalla passione e, per un attimo, appaiono meno egoisti nel momento di massimo egoismo.

L’innamoramento rende più facili i sacrifici: tutto diviene facile, non costa nulla. Esso è un’estasi, uno star fuori da ciò che naturalmente si è. Gli innamorati si vedono diversi anche perché ciascuno vede l’altro migliore di quello che è.

L’innamoramento, paradossalmente, produce una cecità lungimirante: nel momento in cui ci  trasfigura, ci fa vedere qualcosa che ha ancora da venire, e in questo senso ci rende lungimiranti: ma non sappiamo a cosa tenda questo trasfigurare, per questo siamo ciechi, e anche perché è sempre tutto un’illusione. Si tende sempre a deificare l’amato, a idealizzarlo, ad assolutizzarne le qualità.

Ma tutto ciò, è evidente, non si fonda sulla realtà della persona amata, in genere tale perché la si conosce pochissimo. Il colpo di fulmine è accecamento e veggenza: accecamento perché non ci fa vedere quello che siamo, veggenza perché ci fa sperare di ottenere qualcosa.

Schopenhauer constata come la letteratura di tutti i tempi sia pervasa dall’amore, maschera dell’istinto sessuale. L’istinto sessuale non conosce differenze di ceto: amici e parenti parteggiano per l’unione fra gli amanti, sperando che il lieto fine coincida con la felicità. Gli amanti si illudono che la felicità cancelli il loro sacrificare se stessi come individui. Il matrimonio combinato è rifiutato dalla volontà della specie, che cancella ogni pretesa di tutelare interessi individuali.

L’innamorato non teme di apparire comico, ridicolo, e, soprattutto, dimentica la famiglia, gli affari, tutto, insomma: è come se trovasse un sacco di tempo libero per l’amore e se l’opinione degli altri, in genere vincolante, non contasse più nulla.

Il colpo di fulmine porta a cancellare i difetti dell’altro e i tratti di incompatibilità con se stessi: è come se si cercasse volutamente l’inganno. L’innamorato non cerca se stesso ma il “terzo”, cioè il nascituro.

Da qui deriva il celebre binomio AMORE/ODIO: se la somma felicità è negata, ecco che scatta l’odio verso chi la nega. L’amore è infatti anche crudeltà, sofferenza: del resto, presso gli antichi, Cupido era raffigurato come un demonietto crudele e dispettoso dotato di armi “mortali” e sovrano di uomini e divinità.

Il risveglio è sempre triste e traumatico: l’altro ci appare come realmente è e si svela tutto l’inganno a cui si è stati sottoposti.

Ecco perché i matrimoni per amore sono sempre fallimentari.Una lotta dell’individuo con la specie si manifesta, invece, nei matrimoni di convenienza: in essi può nascere una profonda amicizia derivata da profonda congenialità.

Riassumendo, cosa emerge dal quadro complessivo? Cos’è la vita? Un continuo divenire senza essere, un continuo desiderare senza soddisfazione, un continuo addivenire del bisogno, un’aspirazione vana, una speranza infranta. Soltanto per eufemismo definiamo la vita essere quando è un continuo passare da bisogno a bisogno, o meglio, da bisogno a soddisfazione mai tale. L’Io è sempre volente, sempre in transito, mai essere.

Per essere, perfetto e infinito, si intende infatti ciò che non abbisogna di nulla, non è né passato, né futuro. Non è passato perché non gli manca nulla di ciò che è stato, ma nemmeno futuro perché ha già tutto e non avrà mai nulla di maggiore e diverso.

La condizione del vero essere è la vera beatitudine; non è il caso del nostro mondo, dove la volontà è permanente bisogno, continuo divenire che si riproduce e si autoalimenta. Il divenire non porta mai a nulla, resta sempre tale, non ha mai fine, gira a vuoto. Ecco allora palesarsi la vita in tutta la vanità del suo tendere: è un disinganno, una disillusione. Fuggiamo continuamente in avanti senza mai muoverci di un pollice: più che un sogno, questo è un incubo, è ossessiva coazione a ripetere, nevrosi cosmica, ripetizione senza senso di un non senso.

Chi vede passare davanti a sé due o tre generazioni di uomini è come chi assiste a una rappresentazione ripetuta più volte di saltimbanchi e ciarlatani in una baracca durante una fiera: lo spettacolo va bene solo per chi vi assiste una volta, non per chi vi assiste più volte. Il primo è il punto di vista comune, ingenuo e irriflessivo, il secondo è quello critico-filosofico. La coazione a ripetere è assurda, senza scopo: o forse l’unico scopo è la sofferenza, il suo permanere, il suo incessante riprodursi. Ma se questo è lo scopo, allora la vita è insensata.

 

 


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