Osservazioni sulla tortura

e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630

Pietro Verri

 

1. Introduzione

 

Fra i molti uomini d'ingegno e di cuore, i quali hanno scritto contro la pratica criminale della tortura e contro l'insidioso raggiro de' processi che secretamente si fanno nel carcere, non ve n'è alcuno il quale abbia fatto colpo sull'animo dei giudici; e quindi poco o nessuno effetto hanno essi prodotto. Partono essi per lo più da sublimi principj di legislazione riserbati alla cognizione di alcuni pochi pensatori profondi, e ragionando sorpassano la comune capacità; quindi le menti degli uomini altro non ne concepiscono se non un mormorìo confuso, e se ne sdegnano e rimproverano il genio di novità, la ignoranza della pratica, la vanità di voler fare il bello spirito, onde rifugiandosi alla sempre venerata tradizione de' secoli, anche più fortemente si attaccano ed affezionano alla pratica tramandataci dai maggiori. La verità s'insinua più facilmente quando lo scrittore postosi del pari col suo lettore parte dalle idee comuni, e gradatamente e senza scossa lo fa camminare e innalzarsi a lei, anzi che dall'alto annunziandola con tuoni e lampi, i quali sbigottiscono per un momento, indi lasciano gli uomini perfettamente nello stato di prima.

Sono già più anni, dacché il ribrezzo medesimo che ho per le procedure criminali mi portò a volere esaminate la materia ne' suoi autori, la crudeltà e assurdità de' quali sempre più mi confermò nella opinione di riguardare come una tirannia superflua i tormenti che si danno nel carcere. Allora feci molte annotazioni sul proposito, le quali rimasero oziose. Parimenti già da più anni riflettendo io al fatto, che fece diroccare la casa di un cittadino e piantarvi per pubblico decreto la colonna infame, dubitai da principio se fosse possibile il delitto, per cui vennero condannati molti infelici, indi decisamente fui persuaso essere impossibile e in fisica e in morale che si diano unzioni artefatte maneggevoli impunemente dall'autore, le quali al solo tatto esterno, dopo essere state all'aria aperta sulle pareti delle strade, cagionino la pestilenza, e che possano più uomini collegarsi affine di dare la morte indistintamente a tutta la loro città. Mi venne a caso fra le mani il voluminoso processo manoscritto che riguardava quel fatto, e dall'attenta lettura mi trovo convinto sempre più nella mia opinione. Questo libro è nato dalle osservazioni fatte e sugli autori criminalisti e sul fatto delle unzioni venefiche.

Cerco che il lettore imparziale giudichi se le mie opinioni sieno vere o no. Io mi asterrò dal declamare, almeno me lo propongo; e se la natura mi farà sentir la sua voce talvolta, e la riflessione mia non accorrerà sempre a soffocarla, ne spero perdono: procurerò di reprimerla il più che potrò, giacché non cerco di sedurre né me stesso né il lettore, cerco di camminare placidamente alla verità. Non aspetto gloria alcuna da quest'opera. Ella verte sopra di un fatto ignoto al resto dell'Italia; vi dovrò riferire de' pezzi di processo, e saranno le parole di poveri sgraziati e incolti che non sapevano parlare che il lombardo plebeo; non vi sarà eloquenza o studio di scrivere: cerco unicamente di schiarire un argomento che è importante. Se la ragione farà conoscere che è cosa ingiusta, pericolosissima e crudele l'adoperar le torture, il premio che otterrò mi sarà ben più caro che la gloria di aver fatto un libro, avrò difesa la parte più debole e infelice degli uomini miei fratelli; se non mostrerò chiaramente la barbarie della tortura, quale la sento io, il mio libro sarà da collocarsi fra i moltissimi superflui. In ogni evento, sebbene anche ottenga il mio fine, e che illuminatasi la opinione pubblica venga stabilito un metodo più ragionevole e meno feroce per rintracciare i delitti, allora accaderà del mio libro come dei ponti di legno che si atterrano, innalzata che sia la fabbrica, e come avvenne al sig. marchese Maffei, che distruggendo la scienza cavalleresca e annientandone gli scrittori, annientò pure il suo libro, che ora nessuno più legge perché non esiste l'oggetto per cui era scritto.

La maggior parte de' giudici gradatamente si è incallita agli spasimi delle torture per un principio rispettabile, cioè sacrificando l'orrore dei mali di un uomo solo sospetto reo, in vista del ben generale della intiera società. Coloro che difendono la pratica criminale, lo fanno credendola necessaria alla sicurezza pubblica, e persuasi che qualora si abolisse la severità della tortura sarebbero impuniti i delitti e tolta la strada al giudice di rintracciarli. Io non condanno di vizio chi ragiona così, ma credo che sieno in un errore evidente, e in un errore di cui le conseguenze sono crudeli. Anche i giudici che condannavano ai roghi le streghe e i maghi nel secolo passato, credevano di purgare la terra da' più fieri nemici, eppure immolavano delle vittime al fanatismo e alla pazzia. Furono alcuni benemeriti uomini i quali illuminarono i loro simili, e, scoperta la fallacia che era invalsa ne' secoli precedenti, si astennero da quelle atrocità e un più umano e ragionevole sistema vi fu sostituito. Bramo che con tal esempio nasca almeno la pazienza di esaminar meco se la tortura sia utile e giusta: forse potrò dimostrare che è questa una opinione non più fondata di quello lo fosse la stregheria, sebbene al par di quella abbia per sé la pratica de' tribunali e la veneranda tradizione dell'antichità.

Comincierò dal fatto della colonna infame, poscia passerò a trattare in massima la materia; ma prima conviene dare un'idea della pestilenza che rovinò Milano nel 1630.

 

II. Idea della pestilenza che devastò Milano nel 1630

Il Ripamonti, cattivo ragionatore, buon latinista, cronista inesatto, ma sincero espositore delle cose de' suoi tempi, ha scritta la storia della pestilenza accaduta al tempo appunto in cui viveva, e fa una vivissima compassione la sola idea dell'esterminio, a cui soggiacque la nostra patria in quel tempo. Si tratta niente meno che della distruzione di due terze parti de' cittadini. La crudelissima pestilenza fu delle più spietate che rammemori la storia. Alla distruzione fisica si accoppiarono tutti i più terribili disastri morali. Ogni legame sociale si stracciò; niente era più in salvo, né le sostanze, né la vita, né l'onestà delle mogli; tutto era esposto alla inumanità, e alla rapina di alcuni pessimi uomini, i quali tanto ferocemente operavano nel seno della misera lor patria spirante, come appena un popolo selvaggio farebbe nel paese nemico. I Monati, classe di uomini trascelta per assistere gli ammalati. invadevano le case; trasportavano le robe che vi trovavano; violavano le figlie e le consorti impunemente sotto gli occhi dell'agonizzante padre o marito; obbligavano a redimersi colla somma di danaro che lor piaceva i parenti, colla minaccia di trasportare i figli o le spose, benché sani, al lazzaretto. I giudici tremanti per la propria vita ricusavano ogni ufficio. Varj ladroni, fingendosi Monati, invadevano e saccheggiavano ogni cosa: tale è lo spettacolo che ci viene descritto dal Ripamonti, che pianse siccome egli attesta, più e più volte in vista di sì orrende calamità. Tali erano i costumi, tale era lo spirito che agitò i nostri antenati in quel tempo, che forse troppo incautamente taluni vorrebbero far ritornare coi loro voti.

La storia di questa sciagura conviene cominciarla da un dispaccio, che dalla corte di Madrid venne al marchese Spinola, allora governatore. Il dispaccio era firmato dal re Filippo IV. Rara cosa assai era in que' tempi la venuta di un dispaccio, ed era questo un avvenimento che occupava tutta la città, poiché non si partiva dalla corte un reale rescritto se non per gravissime cagioni. Il dispaccio avvisava il governatore essere stati osservati in Madrid quattro uomini, che avevan portati degli unguenti per recare la pestilenza in quella reale città, essere costoro fuggiti, non sapersi in qual parte si fossero essi rivolti per recarvi le malefiche unzioni; quindi se ne avvisava il governatore, acciocché attentamente vegliasse in difesa anche del Milanese. Hae litterae, dice il Ripamonti, quia majestatis ipsius chirographo subsignatae fuerunt, grande sane momentum inclinandis ad pessima quaeque credenda animis facere potuerunt. [Queste lettere, essendo firmate di propria mano dal re, furono di gran peso sugli animi de' cittadini, già proclivi a credere ogni più nefando delitto]. In que' tempi l'ignoranza delle cose fisiche era assai grande. Taluno avrà pensato allora: è egli possibile il formare una materia che toccandosi dia la pestilenza? Se anche sia possibile, potrà un uomo portarla seco senza caderne vittima? Quattro uomini collegansi per un tale viaggio, e girano il mondo colla pestilenza nelle ampolle per divulgarla! A qual fine? Per quale utilità? Ma i pochi che avranno così pensato, non avranno avuto ardire di palesarlo; l'autorità di un dispaccio, l'opinione popolare erano terribili contrasti che esponevano a troppo grave pericolo l'uomo che avesse annunziata questa verità. Si sparse adunque l'opinione e il sospetto generalmente di queste malefiche unzioni.

Sappiamo dalla storia come fossero allora governati i popoli sotto Filippo IV. La pestilenza della Germania per la Valtellina liberamente entrò nel Milanese, portatavi dalle truppe imperiali che transitarono per innoltrarsi a Mantova, poco dopo la vociferazione del dispaccio. Ma l'opinione comune del popolo volle ostinatamente piuttosto credere essere la vociferata pestilenza un'artificiosa invenzione de' medici per acquistar lucro, anzi che esaminare e chiarire il fatto. Era forse una tal diffidenza l'effetto della lunga serie d'inganni sofferti dalla classe superiore. Inutilmente i medici più istruiti divulgavano le prove degli ammalati che avevano veduti morire di pestilenza, che la plebe sempre li risguardava come autori di una malignamente immaginata diceria. Celebre è il fatto accaduto al venerabile nostro Ludovico Settala, uomo sommo per que' tempi, non tanto per l'erudizione, la coltura, la scienza medica e le cognizioni di storia naturale di cui il nostro museo ebbe fra i contemporanei d'Europa il primato, quanto per la nobiltà e virtù del suo animo, che disinteressatamente e instancabilmente usò dei talenti a beneficio del popolo. Questi mentre cavalcava, siccome allora era costume de' medici, venne attorniato tumultuosamente da una folla di uomini, donnicciuole, fanciulli, ed ogni classe di plebaglia, indi villanissimamente insultato quale principale autore della opinione che nella città vi fosse la pestilenza, che le turbe esclamavano essere unicamente ne' peli della di lui barba: Ita gravissimus optimusque senex, et antistes sapientiae Septalius, qui innumeris pene mortalibus vitam excellentia artis, quique multis etiam liberalitate sua subsidia vitae dederat, ob petulantiam, stoliditatemque multitudinis periculum adiit [In tal guisa l'ottimo vecchio. che aveva salvata la vita ad un gran numero di persone colla perizia dell'arte e col largire il proprio denaro, corse un grave pericolo per la stolidaggine e la petulanza del volgo]. Così il Ripamonti.

Convenne finalmente col crescere della peste e il moltiplicarsi giornalmente il numero de' morti disingannare il popolo, e persuaderlo che il malore purtroppo era nella città, e laddove i discorsi nessun effetto producevano, si dovettero far manifesti sopra gran carri gli ammassi de' cadaveri nudi aventi i bubboni venefici, e così per le strade dell'affollata città girando questo spettacolo portò infine la convinzione negli animi, e forse propagò più estesamente la pestilenza. Allora fu che il popolo furiosamente si rivolse ad ogni eccesso di demenza. Nei disastri pubblici l'umana debolezza inclina sempre a sospettarne cagioni stravaganti anzi che crederli effetti del corso naturale delle leggi fisiche. Veggiamo i contadini attribuir la gragnuola non già alle leggi delle meteore, ma piuttosto alle streghe. Veggiamo i saggi Romani istessi al tempo, in cui erano rozzi, cioè l'anno di Roma 423 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio, attribuire la pestilenza, che gli afflisse a' veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di matrone romane: come Livio lib. VIII, cap. XII, Dec. I: Proditum falso esse venenis absumptos, quorum mors infamem annum pestilentia fecerit [Falsamente si disse che erano morti avvelenati coloro la cui morte invece fu provocata, in quel terribile anno, dalla pestilenza]. Veggiamo in Napoli, pure nel secolo scorso, cioè nel 1656, attribuita la pestilenza agli Spagnuoli o allo stesso viceré per rovinare il popolo con polveri pestifere, e si credette "che per la città andavano girando persone con polveri velenose e che bisognava andar di loro in traccia per isterminarle; così in varie truppe uniti andavan cercando questi sognati avvelenatori, ed avendo incontrati due soldati del torrione del Carmine, affin di attaccar brighe che poi finissero in tumulti, avventaronsi sopra di essi, imputandoli di aver loro trovato addosso la sognata polvere. Al rumore essendo accorsa molta gente, per buona sorte vi capitò ancora un uomo dabbene, il quale con soavi parole e moderati consiglj li persuase che dassero nelle mani della giustizia uomini cotanto scellerati, affine, oltre del supplizio che di lor si sarebbe preso, si potesse da essi sapere l'antidoto al veleno, e con tale industria gli riuscì di salvarli; ma appena saputosi che quei due soldati uno era di nazione Francese e l'altro Portoghese, ed uscita anche voce che cinquanta persone con abiti mentiti andavan spargendo le polveri velenose, si videro maggiori disordini; poiché tutti coloro che andavan vestiti con abiti forastieri, e con scarpe o cappelli o altra cosa differente dal comune uso de' cittadini, correvan rischio della vita. Per acchetar dunque la plebe bisognò far morire sopra la ruota Vittorio Angelucci reo per altro di altri delitti, tenuto costantemente dal volgo per disseminatore di polveri, ma nell'istesso tempo fu presa rigorosa vendetta degl'inventori di questa favola, molti di essi essendosene stati in oscure carceri condotti, cinque di loro in mezzo al mercato sulle forche perderono ignominiosamente la vita, e in cotal guisa furono i rumori quietati": così Giannoneal lib. XXXVII, cap. VII. Non è dunque da meravigliarsi se anche in Milano, in mezzo a tanta e sì crudele sciagura, sotto un così maligno flagello, se ne sospettasse volgarmente la cagione nella rnalignità degli uomini, e si credesse verificato il danno predetto del reale dispaccio e prodotto lo sterminio dalle malefiche unzioni. Simili opinioni, quanto sono più stravaganti, tanto più trovano credenza; perché appunto di uno stravagante effetto se ne crede stravagante la cagione, e più si gode nel trovarne l'origine nella malizia dell'uomo, che si può contenere, anzi che nella implacabile fisica che si sottrae alle umane istituzioni. In quel secolo poi sappiamo quale fosse la coltura degli studj, unicamente rivolti alle parole ed ai delirj della immaginazione. L'opinione quindi delle unzioni malefiche divenne generalmente la trionfante: ogni macchia che apparisse sulle pareti era un corpo di delitto: ogni uomo che inavvedutamente stendesse la mano a toccarle era a furore di popolo strascinato alle carceri, quando non fosse massacrato dalla stessa ferocia volgare. Il Ripamonti riferisce due fatti, dei quali è stato testimonio oculare. Uno, di tre Francesi viaggiatori i quali esaminando la facciata del duomo toccarono il marmo, e furono percossi malamente e strascinati in carcere assai mal conci; l'altro d’un povero vecchio ottuagenario di civile condizione, il quale prima di appoggiarsi alla panca nella chiesa di S. Antonio levò, col passarvi il mantello, la polvere: quell'atto, credutosi una unzione, inferocì il popolo nella casa del Dio di mansuetudine, e presolo pe' pochi capegli e per la barba a pugni, calci ed ogni genere di percosse, non l'abbandonò se non poiché lo rese cadavere. Tale era lo spirito di que' tempi.

La pestilenza andava sempre più mietendo vittime umane, e si andava disputando sulla origine di quella anziché accorrervi al riparo. Gli uni la facevano discendere da una cometa che fu in quell'anno osservata nel mese di giugno truci u1tra solitum etiam facie [d'aspetto più spaventevole ancora dell'usato], come scrive il Ripamonti. Altri ne davano l'origine agli spiriti infernali, e v'era chi attestava d'avere distintamente veduto giungere sulla piazza del duomo un signore strascinato da sei cavalli bianchi in un superbo cocchio, e attorniato da numeroso corteggio. Si osservò che il signore aveva una fisonomia fosca ed infuocata; occhi fiammeggianti, irsute chiome e il labbro superiore minaccioso. Entrato questi nella casa, ivi furono osservati tesori, larve, demonj e seduzioni d'ogni sorta, per adescare gli uomini a prendere il partito diabolico: di tali opinioni se ne può vedere più a lungo la storia nel citato Ripamonti. Fra tai delirj si perdevano i cittadini anche più distinti e gli stessi magistrati; e in vece di tenere con esatti ordini segregati i cittadini gli uni dagli alti, in vece d'intimare a ciascuno di restarsene in casa, destinando uomini probi in quartieri diversi per somministrare quanto occorreva a ciascuna famiglia, rimedio il solo che possa impedire la comunicazione del malore, e rimedio che adoperato da principio avrebbe forse con meno di cento uomini placata la pestilenza; in vece, dico, di tutto ciò. si è comandata con una mal'intesa pietà una processione solenne, nella quale si radunarono tutti i ceti de' cittadini, e trasportando il corpo di S. Carlo per tutte le strade frequentate della città, ed esponendolo sull'altar maggiore del duomo per più giorni alle preghiere dell'affollato popolo, prodigiosamente si comunicò la pestilenza alla città tutta, ove da quel momento si cominciarono a contare sino novecento morti ogni giorno. In una parola, tutta là città immersa nella più luttuosa ignoranza si abbandonò ai più assurdi e atroci delirj, malissimo pensati furono i regolamenti, stranissime le opinioni regnanti, ogni legame sociale venne miseramente disciolto dal furore della superstiziosa credulità; una distruttrice anarchia desolò ogni cosa, per modo che le opinioni flagellarono assai più i miseri nostri maggiori di quello che lo facesse la fisica in quella luttuosissima epoca; si ricorse agli astrologi, agli esorcisti, alla inquisizione, alle torture, tutto diventò preda della pestilenza, della superstizione, del fanatismo e della rapina; cosicché 1a proscritta verità in nessun luogo poté palesarsi. Cento quaranta mila cittadini Milanesi perirono scannati dalla ignoranza.

 

 

III. Come sia nato il processo contro Guglielmo Piazza commissario della sanità

Mentre la pestilenza inferiva più che mai, dopo la processione già detta, la mattina del giorno 21 giugno 1630 una vedova per nome Caterina Troccazzani Rosa, che alloggiava nel corritore che attraversa la Vedra de' cittadini, vide dalla finestra Guglielmo Piazza che dal Carrobio entrò nella contrada, e accostato al muro dalla parte dritta entrando, passò sotto il corritore, indi giunto alla casa di S. Simone, ossia al termine della casa Crivelli che allora aveva una pianta grande di lauro, ritornò indietro. Lo stesso fu osservato da altra donna per nome Ottavia Persici Boni. La prima di queste donne disse nell'esame, che il Piazza "a luogo a luogo tirava con le mani dietro al muro": l'altra dice, che alla muraglia del giardino Crivelli "aveva una carta in mano, sopra la qual mise la mano dritta, che mi pareva che volesse scrivere, e poi vidi che levata la mano dalla carta la fregò sopra la muraglia".

Attestano che ciò accadde alle ore otto, che era giorno fatto, che pioveva. Le due donne sparsero nel vicinato immediatamente il sussurro di aver veduto chi faceva le unzioni malefiche, le quali in processo poi la Troccazzani Rosa disse "aveva veduto colui a fare certi atti attorno alle muraglie, che non mi piacciono niente". La vociferazione immediatamente si divulgò da una bocca all’altra, come risulta dal processo; si ricercò se le muraglie fossero sporche, e si osservò che dall'altezza di un braccio e mezzo da terra vi era del grasso giallo, e ciò singolarmente sotto la porta del Tradati, e vicino all’uscio del barbiere Mora. Si abbruciò paglia al luogo delle unzioni, si scrostò la muraglia, fu tutto il quartiere in iscompiglio.

Prescindasi dalla impossibilità del delitto. Niente è più naturale che il passeggiare vicino al muro allorché piove in una città come la nostra, dove si resta al coperto della pioggia. Un delitto così atroce non si commette di chiaro giorno, nel mente che i vicini dalle finestre possono osservare; niente è più facile che lo sporcare quante muraglie piace col favore della notte. Su di questa vociferazione il giorno seguente si portò il capitano di giustizia sul luogo, esaminò le due nominate donne, e quantunque né esse dicessero di avere osservato che il muro sia rimasto sporco dove il Piazza pose le mani, né i siti ne' quali si era osservato l'unto giallo corrispondessero ai luoghi toccati, si decretò la prigionia del commissario della sanità Guglielmo Piazza.

Se lo sgraziato Guglielmo Piazza avesse commesso un delitto di tanta atrocità, era ben naturale che attento all'effetto che ne poteva nascere e istrutto del rumore di tutto il vicinato del giorno precedente, non meno che della solenne visita che il giorno 22 vi fece ai luoghi pubblici sulla strada il capitano di giustizia, si sarebbe dato a una immediata fuga. Gli sgherri lo trovarono alla porta del presidente della sanità, da cui dipendeva, e lo fecero prigione. Visitossi immediatamente la casa del commissario Piazza, e dal processo risulta che non vi si trovarono né ampolle, né vasi, né unti, né danaro, né cosa alcuna che desse sospetto contro di lui

Appena condotto in carcere Guglielmo Piazza fu immediatamente interrogato dal giudice, e dopo le prime interrogazioni venne a chiedergli se conosceva i deputati della parrocchia, al che rispose che non li conosceva. Interrogato se sapesse che siano stato unte le muraglie, disse che non lo sapeva. Queste due risposte si giudicarono "bugie e inverosimiglianze". Su queste bugie e inverosimiglianze fu posto ai tormenti. L'infelice protestava di aver detta la verità, invocava Dio, invocava S. Carlo, esclamava, urlava dallo spasimo, chiedeva un sorso di acqua per ristoro; finalmente per far cessare lo strazio disse: "Mi facci lasciar giù che dirò quello che so". Fu posto a terra, e allora nuovamente interrogato rispose: "Io non so niente: V. S. mi facci dare un poco d'acqua"; su di che nuovamente fu alzato e tormentato, e dopo una lunghissima tortura nella quale si voleva che nominasse i deputati, egli esclamava sempre: "Ah Signore, ah S. Carlo! se lo sapessi lo direi"; poi disperato dal martirio gridava: "Ammazzatemi, ammazzatemi"; e insistendo il giudice a chiedergli "che si risolva ormai di dire la verità per qual causa neghi di conoscere i deputati della parrocchia, e di sapere che siano state unte le muraglie", rispose quell'infelice: "La verità l'ho detta, io non so niente, se l'avessi saputo l'avria detto; se mi vogliono ammazzare che mi ammazzino": e gemendo e urlando da uomo posto all’agonia persisté sempre nello stesso detto, sinché submissa voce ripeteva di aver detta la verità, e perdute le forze cessò d'esclamare, onde fu calato e riposto in carcere.

Qual'inverosimiglianza vi era mai nelle risposte del disgraziato Guglielmo Piazza? Egli abitava nella contrada di S Bernardino, e non alla Vedra, poteva benissimo ignorare un fatto notorio a quel vicinato. Che obbligo aveva quel povero uomo da saper chi fossero i deputati della parrocchia? Che pericolo correva mai egli, se gli avesse conosciuti, nel dirlo? Che pericolo correva mai se diceva pure di aver saputo che fossero state unte le muraglie alla Vedra?

Venne riferito al senato l'esame fatto e il risultato dei tormenti dati a quell'infelice: decretò il senato che il presidente della sanità e il capitano di giustizia, assistendovi anche il fiscale Tornielli, dovessero nuovamente tormentare il Piazza acri tortura cum ligatura canubis, et interpollatis vicibus, arbitrio etc. [con aspra tortura, con legami di canapa e viti intercalate, ad arbitrio]; ed è da notarsi che vi si aggiunge, abraso prius disto Gulielmo et vestibus curiae induto, propinata etiam, si ita videbitur praefatis praesidi ct capitaneo, potione expurgante [dopo aver provveduto a rasare il capo al sunnominato Guglielmo, a vestirlo con abiti curiali e, se sembrava opportuno al presidente e al capitano predetti, a somministrargli una pozione purgativa]: e ciò perché in quei tempi credevasi che o ne' capelli e peli, ovvero nel vestito, o persino negli intestini tranguggiandolo, potesse avere un amuleto o patto col demonio, onde rasandolo, spogliandolo e purgandolo ne venisse disarmato. Nel 1630 quasi tutta l'Europa era involta in queste tenebre superstiziose.

Fa commovere tutta l'umanità la scena della seconda tortura col canape, che dislocando le mani le faceva ripiegare sul braccio, mentre l'osso dell'omero si dislocava dalla sua cavità. Guglielmo Piazza esclamava, mentre si apparecchiava il nuovo supplizio: "Mi ammazzino che l'avrò a caro, perché la verità l'ho detta"; poi, mentre si cominciava il crudelissimo slogamento delle giunture, diceva: "Che mi ammazzino, che son qui". Poi aumentandosi lo strazio gridava: "Oh Dio mi, sono assassinato, non so niente, e se sapessi qualche cosa non sarei stato sin adesso a dirlo". Continuava e cresceva per gradi il martirio, sempre s'instava e dal presidente della sanità e dal capitano di giustizia, perché rispondesse sui deputati della parrocchia e sulla scienza d'essere state unte le muraglie. Gridava lo sfortunato Guglielmo: "Non so niente! fatemi tagliar la mano, ammazzatemi pure: oh Dio mi, oh Dio mi!". Sempre instavano i giudici, sempre più incrudelivano, ed egli rispondeva esclamando e gridando: "Ah Signore, sono assassinato! Ah Dio mi, son morto!". Fa ribrezzo il seguire questa atroce scena! A replicate istanze replicava sempre lo stesso, protestando di aver detto la verità, e i giudici nuovamente volevano che dicesse la verità; egli rispose: "Che volete che dica?". Se gli avessero suggerito un'immaginaria accusa, egli si sarebbe accusato; ma non poteva avere nemmeno la risorsa d'inventare i nomi di persone che non conosceva. Esclamava; "Oh che assassinamento!". E finalmente dopo una tortura, durante la quale si scrissero sei facciate di processo, persistendo egli anche con voce debole e sommessa a dire: "Non so niente, la verità l'ho detta, ah! che non so niente", dopo un lunghissimo e crudelissimo martirio fu ricondotto in carcere.

 

IV. - Come il commissario Piazza si sia accusato reo delle unzioni pestilenziali, ed abbia accusato Gian Giacomo Mora

Il Ripamonti riferisce una crudelissima circostanza, ed è, che terminata la tortura del Piazza, i giudici ordinassero di ricondurlo in carcere colle ossa slogate, quale era, senza rimetterle a luogo, e che l'orrore di continuare nello spasimo abbia allora cavato di bocca l'accusa a se stesso del Piazza; ma nel processo, che ho nelle mani, di ciò non vedo alcun vestigio. Appare da questo, che fosse promessa al Piazza l'impunità qualora palesasse il delitto e i complici. È assai verosimile che nel carcere istesso si sia persuaso a quest'infelice, che persistendo egli nel negare, ogni giorno sarebbe ricominciato lo spasimo; che il delitto si credeva certo, e altro spediente non esservi per lui fuorché l'accusarsene e nominare i complici, così avrebbe salvata la vita e si sarebbe sottratto alle torture pronte a rinnovarsi ogni giorno. Il Piazza dunque chiese ed ebbe l'impunità, a condizione però che esponesse sinceramente il fatto. Ecco perciò che al terzo esame egli comparve, e accusandosi senza veruna tortura o minaccia d'avere unto le muraglie, pieno di attenzione per compiacere i suoi giudici, cominciò a dire che l'unguento gli era stato dato dal barbiere che abitava sull'angolo della Vedra (ove attualmente sta la colonna infame) che questo unguento era giallo, e gliene diede da tre once circa. Interrogato se col barbiere egli avesse amicizia, rispose: "È amico, signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor sì". Quasi che le confidenze di un misfatto così enorme si facessero a persone appena conoscenti, "amico di buon dì, buon anno". Come poi seguì così orribile concerto? Eccone le precise parole. I1 barbiere di primo slancio disse al Piazza, che passava avanti la bottega "Vi ho poi da dare non so che; io gli dissi, che cosa era? ed egli rispose: è un non so che unto; ed io dissi: verrò poi a torlo; e così da lì a tre dì me lo diede poi". Questo è il principio del romanzo. Va avanti. Dice il Piazza, che allora che gli fece tal proposizione vi erano "tre o quattro persone, ma io adesso non ho memoria chi fossero, però m'informerò da uno che era in mia compagnia chiamato Matteo che fa il fruttarolo e che vende gambari in Carrobio, quale io manderò a dimandare, che lui mi saprà dire chi erano quelli che erano con detto barbiere". Chi mai crederà, che in tal guisa alla presenza di quattro testimonj si formino così atroci congiure! Eppure allora si credette:

I. Che la peste, che si sapeva venuta dalla Valtellina, fosse opera di veleni fabbricati in Milano

II. Che si possano fabbricar veleni, che dopo essere stati all'aria aperta, al solo contatto diano la morte.

III. Che se tai veleni si dessero, possa un uomo impunemente maneggiarli.

IV. Che si possa nel cuore umano formare il desiderio di uccidere gli uomini così a caso.

V. Che un uomo, quando fosse colpevole di tal chimera, resterebbe spensierato dopo la vociferazione di due giorni, e si lascerebbe far prigione.

VI. Che il compositore di tal supposto veleno, in vece di sporcarne da sé le muraglie, cercasse superfluamente de' complici.

VII. Che per trascegliere un complice di tale abbominazione, gettasse l'occhio sopra un uomo appena conosciuto.

VIII. Che questa confidenza si facesse alla presenza di quattro testimonj, e il Piazza ne assumesse l'incarico senza conoscerli, e colla vaga speranza di ottenere un regalo promessogli da un povero barbiere!

Tutte queste otto proposizioni si pongano da una parte della bilancia. Dall’altra parte si ponga un timore vivissimo dello strazio e de' spasmi sofferti, che costringe un innocente a mentire, indi la ragione pesi e decida qual delle due parti contiene più inverosimiglianza. Anche nella Francia in que' tempi fu bruciata 1a marescialla d'Ancre, come strega, per sentenza del parlamento di Parigi: tutta l'Europa era assai più nelle tenebre, di quello che ora vi sia. È da osservare che anche in quest'orribile disordine vi si immischiò il sortilegio, la fattucchieria; e l'infelice Piazza, per trovare la scusa perché non avesse fatto questo racconto, o come diceva allora il giudice, "detta la verità", in prima rispose di attribuirlo a un'acqua che gli diede da bere il barbiere, la qual'acqua perché poi non operasse nel terzo esame, siccome aveva fatto ne' due primi, nessuno lo ricercò.

Su questi fondamenti si passò a far prigione il barbiere Gian-Giacomo Mora; e quello che pure meritava osservazione fu, che lo colsero in sua casa fra la moglie e i figli (in quella casa poi che venne distrutta per piantarvi la colonna infame). Dal primo esame del Mora risulta che eragli stata nota la vociferazione dell'unto fatto nel quartiere il giorno di venerdì 21 giugno; che parimenti eragli nota la prigionia del commissario Piazza, seguita il giorno 22 che fu sabato: e al mercoledì, giorno 26, si sarebbe lasciato cogliere in sua casa se fosse stato reo? Tutto ciò che avvenne all'atto dell'arresto conferma l'innocenza, non meno che la sorpresa di quest’infelice. Egli aveva preparato pel commissario un unguento che fabbricava per preservarsi dal mal contagioso, ugnendosi le tempia e le ascelle; unguento, di cui descrisse poi la ricetta, che in que' tempi si conosceva sotto il nome di "unguento dell'impiccato". Il commissario diede l'ordine al barbiere di prepararglielo, e fu fatto prigione prima che glielo consegnasse. Credette il Mora che la cattura fosse per aver egli fabbricato l'unguento che era di pertinenza degli speziali. Si lagnava di esser legato per un simile motivo: "Se per sorte", (dice egli mentre è arrestato in casa, prima di condurlo prigione) "sono venuti in casa, perché io abbia fatto quell'elettuario e non l'abbia potuto fare, non so che farci, l'ho fatto a fine di bene e per salute de' poveri"; poi allo sbirro diceva: "Non stringete la legatura alla mano, perché non ho fallato"; indi sospirando e battendo un piede, esclamò: "Sia lodato Iddio!".

Nella minutissirna visita fatta alla casa in presenza del Mora egli rese conto de' barattoli d'unguenti, d'elettuarj e d'altre polveri e pillole che gli si ritrovarono in bottega. Poi nel cortile della sua piccola casetta vi si osservò "un fornello con dentro murata una caldaja di rame, nella quale si è trovato dentro dell'acqua torbida, in fondo della quale si è trovato una materia viscosa, gialla e bianca, la quale gettata al muro, fattane la prova, si attaccava" Chi mai crederebbe che un potentissimo veleno, che al toccarlo conduce alla morte, si tenesse in un aperto cortile, in una caldaja visibile a tutti, in una casa dove v'erano più uomini, perché i Mora aveva figlj e moglie, come consta anche dal processo? Le tenere fanciulle e la figlia per la quale risulta che aveva fatto un unguento per i vermi, potevano elleno essere partecipi del secreto? Potevasi lasciare in libertà di ragazzi un veleno che uccide col tatto, riponendolo in una caldaja fissata nel muro del cortile? Dopo che era tanto solenne il processo da sei giorni, era poi egli possibile che il fabbricatore e distributore dell'unto conservasse placidamente quel corpo di delitto alla vista, riposto nel cortile? Nessuno di tai pensieri venne in capo al giudice. Interrogato il Mora cosa contenesse quella caldaja, rispose nell'atto della visita: "L'è smoglio", cioè ranno. Nuovamente poi interrogato nel primo esame, rispose: "Signore, io non so niente, l'hanno fatto far le donne: che ne dimandino conto da loro che lo diranno; e sapeva tanto io che quel smoglio vi fosse, quanto che mi credessi d'esser oggi condotto prigione: e quello è mestiero che fanno le donne, del quale io non mi impedisco". Su di questo proposito interrogata la moglie dello sventurato Mora per nome Chiara Brivia, risponde d'aver fatto il bucato quindici giorni prima, e d'aver lasciato del ranno "nella caldara, quale è là nel cortino".

Questo ranno doveva essere il corpo del delitto. Si esaminarono alcune lavandaje. Margarita Arpizzanelli prima di visitare il ranno propala la sua teoria dicendo al giudice: "Sa V. S. che con il smoglio guasto si fanno degli eccellenti veleni che si posson fare?". Si vede che il fanatismo era al colmo, e che le persone che si esaminavano, a costo d'inventare nuove e sconosciute proprietà, volevano sacrificare una vittima, e credevano di servir Dio e la patria inventando un delitto. Si visita il ranno da questa Arpizzanelli lavandaja, e questa giudica: "Questo smoglio non è puro, ma vi è dentro delle furfanterie, perché il smoglio puro non ha tanto fondo, né di questo colore, perché lo fa bianco, bianco, e non è tacchente come questo, il quale ha brutto colore, ed è tacchente, e sta a fondo, e pare cosa grassa; ma quello del vero smoglio, in movendosi il vaso in che si trova, si move tutto il detto fondo". Presso poco diè lo stesso giudizio l'altra lavandaja Giacomina Endrioni, che disse: "Mi pare che vi sia qualche alterazione, ed il smoglio si vede che quanto più se gli ruga dentro diventa più negro e più infame. Con lo smoglio marzo, cattivo, si fanno di gran porcherie e tossichi". Non credo che verun chimico saprebbe fare un veleno coll'acqua del bucato. In una bottega poi di un barbiere, dove si saranno lavati de' lini sporchi e dalle piaghe e da' cerotti, qual cosa più naturale che il trovarvi un sedimento viscido, grasso, giallo dopo varj giorni d'estate?

Né fu meno funesto il giudizio de' fisici. Il fisico collegiato Achille Carcano concluse con quella opinione: "Io non ho osservato troppo bene che cosa facci lo smoglio, ma dico bene che per rispetto alla ontuosità, che si vede in quest'acqua può essere causata da qualche panno ontuoso lavato in essa, come sarebbe mantili, tovaglie e cose simili; ma perché in fondo di quell'acqua vi ho vista ed osservata la qualità della residenza che vi è, e la quantità in rispetto alla poca acqua, dico e concludo non potere in alcun modo a mio giudizio essere smoglio". Le due lavandaje lo giudicano smoglio "con delle furfanterie" e con qualche "alterazione"; il medico dice che in alcun modo "non è smoglio", e lo asserisce perché a proporzione del sedimento vi è poca acqua, quasi che dopo quindici giorni che stava a cielo scoperto nel mese di giugno non potesse l'acqua essere svaporata per la maggior parte! Fa ribrezzo il vedere con quanta ignoranza e furore si procedesse e dagli esaminatori e dagli esaminati, e quanto offuscato fosse ogni barlume di umanità e di ragione in quelle feroci circostanze. Due altri, cioè il fisico Giambattista Vertua e Vittore Bescapé decisero presso poco come il fisico Carcano, e conclusero di non saper conoscere che composto fosse quello della caldaja.

Su questo giudizio e sulla deposizione del commissario Piazza, che anche al confronto col barbiere Mora sostenne l'accusa datagli, esclamando sempre il Mora e dicendo: "Ah Dio misericordia! non si troverà mai questo", andò progredendo il processo.

Terminato il confronto si pose al secondo esame il Mora. Il Piazza aveva detto di essere stato a casa del Mora, aveva citati Baldassare Litta e Stefano Buzzi come testimonj del fatto. Esaminato il Litta il giorno 29 giugno, "se mai ha visto il Piazza in casa o bottega del Mora", rispose: "Signor no". Esaminato il Buzzi nel giorno istesso, "se sa che tra il Piazza e il barbiere passi alcuna amicizia", rispose: "Può essere che siano amici e che si salutassero, ma questo non lo saprei mai dire a V. S.". Interrogato, "se sa che il detto Piazza sia mai stato in casa o bottega del detto barbiere", rispose: "Non lo saprei mai dire a V. S.". Tali funno le deposizioni de' due testimonj, che il Piazza citò per provare di essere stato a casa del barbiere. Il barbiere negava che fosse mai stato il Piazza a casa di lui. Su questa negativa il barbiere fu posto a crudelissima tortura col canape. Ciò si eseguì il giorno 30 di giugno. Il povero padre di famiglia Gian-Giacomo Mora, uomo corpulento e pingue, a quanto viene descritto nel processo, prima di prestare il giuramento si pose ginocchioni avanti il Crocifisso ed orò, indi baciata la terra si alzò e giurò. Quando cominciarono i tormenti esclamò: "Gesù Maria sia sempre in mia compagnia, son morto". Il tormento cresceva, ed egli esclamava, protestava la sua innocenza e diceva: "Vedete quello che volete che dica che lo dirò". Fa troppo senso all'umanità il seguitare questa scena, che non pare rappresentata da uomini, ma da que' spiriti malefici che c'insegnano essere occupati nel tormentare gli uomini. Per sottrarsi l'infelice Mora promise che avrebbe detta la verità se cessavano i tormenti; si sospesero. Calato al suolo disse: "La verità è che il commissario non ha pratica alcuna meco". Il giudice gli rispose che "questa non è la verità che ha promesso di dire, perciò si risolva a dirla, altrimenti si ritornerà a far levare e stringere". Replicò lo sgraziato Mora: "Faccia V. S. quello che vuole". Si rinnovarono gli strazj, e il Mora urlava "Vergine santissima sia quella che m'ajuta". Sempre se gli cercava la verità dal giudice, egli ripeteva: "Veda quello che vuole che dica, lo dirò". L’eccesso dello spasimo attuale era quello che l'occupava, e finalmente disse il Mora: "Gli ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè di sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al commissario". Con tal espediente fu cessato il tormento, quindi per non essere nuovamente ridotto alle angoscie viene a dire: "Era sterco umano, smojazzo, perché me lo dimandò lui, cioè il commissario per imbrattar le case, e di quella materia che esce dalla bocca dei morti". Vedesi la produzione forzata dalla mente di un miserabile oppresso dallo spasimo. Lo sterco e il ranno non bastavano a dar la morte: egli inventa la saliva degli appestati; poi proseguendo le interrogazioni e le risposte, dice il Mora che ebbe dal commissario Piazza per il peso di una libbra di quella materia della bocca degli appestati e la versò nella caldaja, e che gliela diede per fare quella composizione onde si ammalassero molte pelsone, e avrebbe lavorato il commissario, e col suo elettuario avrebbe guadagnato molto il barbiere. Conclude col dire che questo concerto fu fatto, "trattandosi così tra noi ne discorressimo".

Il Piazza che aveva levata l'impunità non diceva niente di tutto ciò. Anzi diceva di essere stato invitato dal Mora. Come mai raccogliere clandestinamente tanta bava per una libbra? Come raccoglierla senza contrarre la peste? Come riporla nella caldaja, onde la moglie, i teneri incauti figli si appestassero? Come conservarla dopo le solenni procedure, e lasciarsi un simil corpo di delitto? Come sperar guadagno vendendo l'elettuario: mancavano forse ammalati in quel tempo? Non si può concepire un romanzo più tristo e più assurdo. Pure tutto si credeva, purché fosse atroce e conforme alle funeste passioni de que' tempi infelici. Il giorno vegnente, cioè il primo di luglio fu chiamato il Mora all'esame per intendere "se ha cosa alcuna da aggiungere all'esame e confessione sua che fece jeri. dopo che fu omesso da tormentare", ed ei rispose: "Signor no, che non ho cosa da aggiungervi, ed ho più presto cosa da sminuire". Che cosa poi avesse da sminuire lo rispose all'interrogazione: "Quell'unguento che ho detto non ne ho fatto mica, e quello che ho detto, l'ho detto per i tormenti" A tale proposizione fugli minacciato, che se si ritrattava dalla verità detta il giorno avanti. "per averla si verrà contro di lui a tormenti": a ciò rispose il Mora: "Replico che quello che dissi jeri non è vero niente, e lo dissi per i tormenti". Postea dixit: "V. S. mi lasci un poco dire un' Ave Maria, e poi farò quello che il Signore mi inspirerà": postea genibus flexis se posuit ante imaginem Crucifixi depictam, et oravit per spatium unius miserere deinde surrexit, mox rediit ad examen. Et iterato juramento, interrogatus [indi si pose in ginocchio dinanzi all'immagine de Crocefisso e disse un miserere: si alzò e ritornò all'esame. Ripetuto il giuramento, alla domanda]: "che si risolva ormai a dire se l'esame che fece jeri, e il contenuto di esso è vero", respondit "In coscienza mia, non è vero niente". Tunc jussum fuit duci al locum tormentorum [Allora si comandò che fosse condotto al luogo del supplizio], con quel che segue, ed ivi poi legato, mentre si ricominciava la crudele carnificina, esclamò che lo lasciassero, che non gli dessero più "tormenti, che la verità che ho deposto la voglio mantenere"; allora lo slegarono e il ricondussero alla stanza dell'esame, dove nuovamente interpellato, "se è vero come sopra ha detto, che l'esame che fece jeri sia la verità nel modo che in esso si contiene", rispose: "Non è vero niente". Tunc jussum fuit iterum duci ad locum tormentorum etc.: e così con questa alternativa dovette alfine soccombere, e preferire ogni altra cosa alla disperata istanza de’ tormenti. Ratificò il passato esame e si trovò nel caso nuovamente di proseguire il funesto romanzo. Ecco quanto inverosimile sia il racconto. Dice egli adunque che quel Piazza che appena egli conosceva di figura, e col quale anche dal processo risulta che non aveva famigliarità, quel Piazza adunque "la prima volta che trattassimo insieme mi diede il vaso di quella materia, e mi disse così: accomodatemi un vaso con questa materia, con la quale ungendo i catenacci e le muraglie si ammalerà della gente assai, e tutti due guadagneremo". Che verosimiglianza! Se aveva la materia il Piazza in un vaso, perché consegnarla al barbiere acciocché "gli accomodasse un vaso?". Mancavano forse ammalati in quel tempo, mentre morivano 800 cittadini al giorno? Che bisogno di far ammalare la gente? Perché non ungere immediatamente? Non vi è il senso comune. Come poi componeva il barbiere questo mortale unguento? Eccolo. "Si pigliava", prosegue l'infelice Mora, "di tre cose, tanto per una; cioè un terzo della materia che mi dava il commissario, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo dello smoglio un altro terzo; e mischiavo ogni cosa ben bene, né vi entrava altro ingrediente, né bollitura". Lo sterco e l'acqua del bucato non potevano che indebolire l'attività della bava degli appestati.

Tessuto così questo secondo romanzo contradittorio del primo, si richiama all'esame il Piazza, che aveva l'impunità a condizione che avrebbe detta la verità intiera, e interrogato se sapesse di qual materia fosse composto o in qual modo fabbricato l'unguento datogli dal barbiere, rispose di non saperlo. Replicò il giudice, se almeno sapesse che alcuno avesse data al barbiere materia per fabbricare quell'unguento, e rispose il Piazza: "Signor no, che non lo so". Se il Piazza avesse data la bava degli appestati, poiché aveva l'impunità dicendo esattamente il tutto e doveva aspettarsi il supplizio non dicendolo esattamente, come mai avrebbe mutilata la circostanza principale nel tempo in cui il complice supposto, cioè il barbiere Mora, co' tormenti l'avrebbe scoperta? Se dunque non si verifica che il Piazza abbia somministrato la bava, si vede inventata la forzata istoria del Mora. Questo ragionamento poteva pur farlo il giudice; ma sgraziatamente la ragione non ebbe parte veruna in tutta quella sciagura. Il giudice allora disse al Piazza, che dal processo risultava che egli avesse somministrato la bava de' morti al barbiere, e su di ciò nuovamente il giudice l'interrogò così: "Che dica per qual causa nel suo esame e confessione, qual fece per godere l'impunità, non depose questa particolarità, sostanza del delitto, siccome era tenuto di fare?". E a ciò rispose il Piazza: "Della sporchizia cavata dalla bocca dei morti appestati io non l'ho avuta, né portata al barbiere, e del resto che ho confessato, adesso che sono stato interrogato, non me ne sono ricordato, e per questo non l'ho detto". Allora gli venne intimato, che per non aver egli mantenuta la fede di palesare la verità, e per aver "diminuita la sua confessione" non poteva più godere della impunità, a norma ancora della protesta fattagliene da principio. A questa minaccia il Piazza si rivolse subito ad accordare di aver somministrato la bava e di averne data al barbiere, non già una libbra, come disse il povero Gian-Giacomo Mora, ma "così un piattellino in un piatto di terra". Obbligato poi dall'interrogazione a dire come seguisse tutto ciò, eccone la risposta, di cui l'assurdità abbastanza da sé sola si manifesta. Così dunque rispose lo sgraziato Piazza: "Io mi mossi instato e ricercato dal detto barbiere, il quale mi ricercò a così fare con promessa di darmi una quantità di danari, sebbene non la specificò, dicendomi che aveva una persona grande che gli aveva promesso una gran quantità di danaro per far tal cosa, e sebbene fosse ricercato da me a dirmi chi era questa persona grande, non me lo volle dire, ma solamente mi disse di attendere a lavorare ed untare le muraglie e porte, che mi avrebbe dato una quantità di danari". Conviene ricordarsi che il barbiere era un povero uomo, e basta vedere lo spazio che occupava la sua povera casetta. Egli poi era un padre di famiglia con moglie e figli, e non un ozioso e vagabondo, del quale si potesse far scelta per un simile orrore. Sin qui a forza di tormenti e di minacce si è trovato modo di far coincidere i due romanzi, e costringere il contraddicente a confermare la favola di chi aveva parlato prima. Vengono ora in campo da questa risposta due cose affatto nuove. Una si è che il barbiere promettesse "una quantità di danari"; l'altra si è che in questo affare vi entrasse "una persona grande": né l'una né l'altra era stata detta dal Mora. Si pose dunque nuovamente all'esame il Mora. Interrogato se egli avesse promesso una quantità di danari al Piazza, rispose il Mora nel quinto esame del giorno 2 luglio 1630: "Signor no; e dove vuole V. S. che piglimi questa quantità di danari?". Allora gli venne detto dal giudice quanto risultava in processo e sui danari e sulla persona grande, e si redarguì perché dicesse la verità. Rispose il Mora queste parole: "V. S. non vuol già se non la verità, e la verità io l'ho già detta quando sono stato tormentato, e ho detto anche d'avvantaggio"; dal quale fine si vede come l'infelice avrebbe pure ritrattata tutta la funesta favola pronunziata, se non avesse temuto nuovi tormenti: "e ho detto anche d'avvantaggio"! Questo "anche" più chiaramente lo disse allorché ai due di luglio furongli dati i reati, e stabilito il breve termine di due soli giorni per fare le sue difese; sul qual proposito si legge in processo che il protettore de' carcerati disse al notajo così: "Per obbedienza sono stato dal signor presidente, e gli ho parlato; sono anco stato dal Mora, il quale mi ha detto liberamente che non ha fallato, e che quello l'ha detto per i tormenti; e perché io gli ho detto liberamente, che non voleva, né poteva sostenere questo carico di difenderlo, mi ha detto che almeno il sig. presidente sia servito di provvederlo di un difensore, e che non voglia permettere che abbia da morire indifeso": da che si vedono più cose, cioè che il Mora teneva per certo di dover morire, e tutta la ferocia del fanatismo che lo circondava doveva averlo bastantemente persuaso; che, sebbene tenesse per certa la morte, liberamente diceva di avere mentito per i tormenti; e che finalmente il furore era giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante il difendere questa disgraziata vittima, posto che il protettore diceva di non volere, né potere assumersene l'incarico. Il termine poi per le difese venne prorogato.

 

V. Delle opinioni e metodi della procedura criminale in quella occasione

Acciocché poi si possa concepire un'idea precisa e originale del modo di pensare in quel tempo, credo opportuno di trascrivere un esame, che sta nel corpo di quest'orribile processo; veramente serve egli di episodio alla tragedia del Piazza e del Mora; ma siccome originalmente vi si vedono la feroce pazzia, la Superstizione, il delirio, io lo riferirò esattamente, ponendo in margine distintamente le osservazioni che mi si presentano. Ecco l'esame:

Die suprascripto, octavo Julii.

Vocatus ego notarius Gallaratus, dum discedere vellem a loco suprascripto appellato la Cassinazza, juvenis quidam mihi formalia dixit [Il giorno suindicato, 8 luglio: Mentre io, notaio Ga1larati, stavo allontanandomi dal luogo soprascritto, chiamato la Cassinazza, un giovane mi rivolse queste testuali parole] "Io voglio che V. S. mi accetti nella sua squadra, ed io dirò quello che so".

Tunc ei delato juramento etc. [Allora, fattogli prestare giuramento].

Interrogatus de ejus nomine, cognomine, patria [Interrogato del suo nome, cognome, luogo di nascita]

Respondit: "lo mi chiamo Giacinto Maganza, e sono figliuolo di un frate, che si chiama frate Rocco, che di presente si trova in S. Giovanni la Conca, e sono Milanese, e molto conosciuto in porta Ticinese".

Int.: "Che cosa è quello che vuol dire di quello che sa".

Resp. titubando: "Io dirò la verità, è un cameriere, che dà quattro dobble al giorno". - Deinde obmutuit stringendo dentes [Indi tacque, stringendo i denti].

Et institus denuo [Sollecitato nuovamente] a dir l'animo suo, e finire quanto ha cominciato a dire.

Resp. "È il Baruello padrone dell'osteria di S. Paolo in compito"., mox dixit [subito rispose], "è anche parente dell'oste del Gambaro".

Int.: "Che dica come si chiama detto Baruello".

Resp.: "Si chiama Gian-Stefano".

Int.: "Che dica cosa ha fatto detto Baruello".

Resp.: "Ha confessato già, che si è trovato delle biscie e de' veleni nella sua canepa".

Int.: "Dica come sa lui esaminato queste cose".

Resp.: "Il suo cognato mi ha cercato a voler andar a cercare delle biscie con lui".

Int.: "Che dica precisamente che cosa gli disse detto cognato, e dove fu".

Resp.: "Me lo ha detto con occasione che in porta Ticinese mi addimandano "il Romano", così per sopra nome, e mi disse andiamo fuori di porta Ticinese, lì dietro alla Rosa d'oro ad un giardino che ha fatto fare lui, a cercare delle biscie, dei zatti e dei ghezzi ed altri animali, quali li fanno poi mangiare una creatura morta, e come detti animali hanno mangiato quella creatura, hanno le olle sotto terra e fanno gli unguenti e li danno poi a quelli che ungono le porte; perché quell'unguento tira più che non fa la calamita".

Int.: "Dica se lui esaminato ha visto tal unto".

Resp.: "Signor si, che l'ho visto".

Int.: "Dica dove ed a chi ha visto l'unto".

Tunc obmutuit, labia et dentes stringendo [Allora tacque, stringendo le labbra e i denti], et institus [e sollecitato] a rispondere allegramente alla interrogazione fattagli:

Resp.: "Io l'ho visto nella osteria della Rosa d'oro".

Int.: "Dica chi aveva tal unto, e in che vaso era".

Resp.: "L'aveva il Baruello".

Int.: "Dica quando fu che aveva tal unto il Baruello".

Resp.: "Saranno quindici giorni, ed era un mercoledì, se non fallo, e l'aveva il detto Baruello in un'olla grande, e l'aveva sotterrato in mezzo dell'orto nella detta osteria della Rosa d'oro con sopra dell'erba".

Int.: "Dica se lui esaminato ha mai dispensato di quest'unto". |

Resp.: "Se io ne ho dispensato due scattolini mi possa essere tagliato il collo".

Int.: "Dica dove ha dispensato tal unto".

Resp.: "lo l'ho dispensato sopra il Monzasco".

Int.: "Dica in che luogo preciso del Monzasco ha dispensato tal unto".

Resp.: "lo l'ho dispensato sopra le sbarre delle chiese, perché questi villani subito che hanno sentito messa si buttano giù e si appoggiano alle sbarre, e per questo le ungeva".

Int.: "Dica precisamente dove sono le sbarre da lui esaminato unte, come ha detto".

Resp.: "lo ho unto in Barlassina, a Meda ed a Birago, né mi ricordo esser stato in altro luogo".

Int.: "Dica chi ha dato a lui esaminato l'unto".

Resp.: "Me l'ha dato il detto Baruello, e Gerolamo Foresaro in un palpero [papiro, cioè carta] sopra la ripa del fosso di porta Ticinese vicino la casa del detto Foresaro, qual sta vicino al ponte de' Fabbri".

Int.: "Dica che cosa detti Foresè e Baruello dissero a lui esaminato quando gli diedero tal unto".

Resp.: "Quando mi diedero tal unto fu quando io fui se non venuto dal Piemonte, e mi trovarono dietro il fosso di porta Ticinese; il Baruello mi disse: o Romano, che fai? Andiamo a bevere il vin bianco, mi rallegro che ti vedo con buona ciera: e così andai all'osteria (mox dixit [subito si corresse]), all'offelleria delle Sei-dita in porta Ticinese, e pagò il vin bianco e un non so che biscottini, e poi mi disse, vien qua Romano, io voglio che facciamo una burla a uno, e perciò piglia quest'unto, quale mi diede in un palpero, e va all'osteria del Gambaro, e va là di sopra dove è una camerata di gentiluomini; e se dicessero cosa tu vuoi, di' niente, ma che sei andato là per servirli, e poi che gli ungessi con quell'unto e cosi io andai, e gli unsi nella detta osteria del Gambaro, qual erano là, io era dissopra della lobbia a mano sinistra; e m'introdussi 1à a dargli da bevere mostrando di frizzare un poco, cioè per mangiare qualche boccone; e così gli unsi le spalle con quell'unguento, e con mettergli il ferrajuolo gli unsi anco il collaro e il collo con le mani mie, dove credo sono poi morti di tal unto".

Int.: "Dica se sa precisamente che alcuno di quelli che furono unti da lui esaminato, come sopra, siano poi morti, o no".

Resp.: "Credo che saranno morti senz'altro, perché morono solamente a toccargli i panni con detto unto: non so poi a toccargli le carni come ho fatto io".

Int.: "Dica come ha fatto lui esaminato a non morire, toccando questo unto tanto potente, come dice".

Resp.: "El sta alle volte alla buona complessione delle persone".

Quo facto cum hora esset tarda fuit dimissum examen [Ciò fatto, essendo tardi, fu sospeso l'inteuogatorio].

Da questo esame solo ne ricaverà chi legge l'idea precisa della maniera di pensare e procedere in quei disgraziatissirni tempi. Ho creduto bene di riferire fedelmente un esame, acciocché si vedano le cose nella sorgente, e non resti dubbio che mai l'amore del paradosso, il piacere di spargere nuova dottrina, o la vanità di atterrare una opinione comune, mi facciano aggravare le cose oltre l'esatto limite della verità. Il metodo, col quale si procedette allora, fu questo. Si suppose di certo che l'uomo in carcere fosse reo. Si torturò sintanto che fu forzato a dire di essere reo. Si forzò a comporre un romanzo e nominare altri rei; questi si catturarono, e sulla deposizione del primo si posero alla tortura. Sostenevano l'innocenza loro; ma si leggeva ad essi quanto risultava dal precedente esame dell'accusatore, e si persisteva a tormentarli sinché convenissero d'accordo.

Altra prova di pazzia di que' tempi è l'esame lunghissimo fatto il 12 settembre a Gian-Stefano Baruello, il quale ebbe la sentenza di morte dal Senato il giorno 27 agosto (morte, che dopo le tenaglie, il taglio della mano, la rottura delle ossa e l'esposizione vivo sulla ruota per sei ore, terminava coll'essere finalmente scannato), e fu sospesa proponendogli l'impunità se avesse palesato complici e esposto il fatto preciso. Questi dunque tessé una storia lunghissima e sommamente inverosimile, per cui il figlio del castellano di Milano compariva autore di quest'atrocità, affine di vendicarsi di un insulto stato fatto in porta Ticinese, e si voleva che il signor D. Giovanni Padilla figlio del castellano avesse lega col Foresè, Mora, Piazza, Carlo Scrimitore, Michele Tamburino, Giambattista Bonetti, Trentino, Fontana ecc. e varj simili uomini della feccia del popolo. Redarguito poi, come avendo egli il mandato per la uccisione di porta Ticinese, ne facesse spargere in altre porte, e convinto d'inverosimiglianza somma nel suo racconto, ecco cosa si vede che rispondesse esso Gian-Stefano Baruello nel suo esame 12 settembre 1630.

Et cum haec dixisset, et ei replicaretur haec non esse verisimilio, et propterea hortaretur ad dicendam veritatem [Avendo ciò detto ed essendogli stato replicato che le cose da lui dette non erano verosimili, fu esortato a dire la verità]

Resp.: "Uh! uh! uh! Se non la posso dire", extendens collum et toto corpore contremiscens, et dicens [tendendo il collo e scuotendo tutto il corpo]: "V. S. m'ajuti, V. S. m'ajuti".

Ei dicto [Essendogli stato detto]: "Che se io sapessi quello vuol dire potrei anco ajutarlo, che però accenni, che se s'intenderà in che cosa voglia essere ajutato, si ajuterà potendo".

Tunc denuo incepit se torquere, labia aperire, dentes perstringendo, tandem dixit [Allora nuovamente cominciò a torcersi, ad aprire le labbra, a stringere i denti e finalmente disse]: "V. S. mi ajuti; signore, ah Dio mio! ah Dio mio!".

Tunc ei dicto: "Avete forse qualche patto col Diavolo? Non vi dubitate e rinunziate ai patti, e consegnate l'anima vostra a Dio che vi ajuterà".

Tunc genuflexus dixit [Allora inginocchiatosi disse]: "Dite come devo dire, signore".

Et ei dicto: "Che debba dire: io rinunzio ad ogni patto che io abbia fatto col Diavolo, e consegno l'anima mia nelle mani di Dio e della B. Vergine, col pregarli a volermi liberare dallo stato nel quale mi trovo, ed accettarmi per sua creatura".

Quae cum dixisset, et devote et satis ex corde, ut videri potuit, surrexit, et cum loqui vellet, denuo prorupit in notas confusas porrigendo collum, dentibus stringendo volens loqui, nec valens, et tandem dixit [Dette queste cose, devotamente e abbastanza sinceramente, come si poté vedere, si alzò e, volendo parlare, emise dei suoni confusi, sporgendo il collo, stringendo i denti, volendo parlare e non riuscendovi, tuttavia disse]: "Quel prete Francese".

Et cum haec dixisset statim se projecit in terram, et curavit se abscondere in angulo secus bancum, dicens [E, pronunziate queste parole, si gettò immediatamente a terra, tentando di nascondersi in un angolo sotto il banco, e disse]: "Ah Dio mi! ah Dio mi! ajutatemi, non mi abbandonate".

Et ei dicto: "Di che temeva?".

Resp.: "È 1à, è là quel prete Francese con la spada in mano, che mi minaccia, vedetelo là, vedetelo là sopra quella finestra".

Et ei dicto: "Che facesse buon animo, che non vi era alcuno, e che si segnasse e si raccomandasse a Dio, e che di nuovo rinunziasse ai patti che aveva col Diavolo, e si donasse a Dio ed alla Beata Vergine".

Cum haec verba dixissem, dixit iterum [Avendo io detto queste parole, esclamò nuovamente]: "A signore, ei viene, ei viene colla spada nuda in mano": quae omnia quinquies replicavit, et actus fecit quos facere solent obsessi a Daemone, et spumam ex ore sanguinemque e naribus emittebat, semper fremendo et clamando [e ripeté queste parole cinque volte, e fece quegli atti che sono soliti fare gli ossessi dal demonio, emettendo bava dalla bocca e sangue dal naso, sempre tremando ed esclamando]: "Non mi abbandonate, ajuto, ajuto, non mi abbandonate".

Tunc jussum fuit afferri aquam benedictam, et vocari aliquem sacerdotem, quae cum allata fuisset, ea fuit aspersus: cum postea supervenisset sacerdos, eique dicta fuissent omnia suprascripta, sacerdos, benedicto loco et in specie dicta fenestra ubi dicebat dictus Baruellus extare illum praesbiterum cum ense nudo prae rnanibus et minantem, variis exorcismis tamen usus fuit, et auctoritate sibi uti sacerdoti a Deo tributa, omnia pacta cum Daemone innita, irrita et nulla declarasset, immo ea irritasseti et annullasset, interim vero dictus Baruellus stridens dixit [Allora venne ordinato di portare dell'acqua benedetta e di chiamare qualche sacerdote; come arrivò l'acqua, ne fu asperso. Sopraggiunse un sacerdote al quale vennero riferite le cose suddette e il sacerdote, dopo aver benedetto il luogo e in special modo la finestra dove il Baruello diceva essere il prete con la spada in mano e minaccioso, fece vari esorcismi e, con l’autorità concessagli da Dio quale sacerdote, dichiarò annullato ogni patto col Diavolo, anzi lo annullò e lo rese vano; frattanto il detto Baruello urlando disse]: "Scongiurate quello Gola Gibla", contorquendo corpus more obsessorum, et tandem finitis exorcismis sacerdos recessit [contorcendo il corpo al modo degli ossessi e infine, terminati gli esorcismi, il sacerdote se ne andò].

Excitatus pluries ad dicendum, tamen in haec verba prorupit [Più volte invitato a parlare, disse infine con foga]: "Signore, quel prete era un Francese, il quale mi prese per una mano, e levando una bacchettina nera, lunga circa un palmo che teneva sotto la veste, con essa fece un circolo, e poi mise mano a un libro lungo in foglio, come di carta piccola da scrivere, ma era grossa tre dita, e l'aperse, ed io vidi sopra i fogli dei circoli e lettere attorno, e mi disse che era la Clavicola di Salomone, e disse che dovessi dire, come disse queste parole: "Gola Gibla"; e poi disse altre parole ebraiche, aggiungendo che non dovessi uscir fuori del cerchio perché mi sarebbe succeduto male, e in quel punto comparve nello stesso circolo uno vestito da Pantalone, allora detto prete, ecc.". Cade la penna dalle mani, e non si può continuare a trascrivere un tessuto simile di pazzie troppo serie e funeste in que' tempi. Il risultato di un lunghissimo cicalìo di questo disgraziato, che sperava la vita e l'impunità con un romanzo di accuse, fu di far credere autore il cavaliere D. Giovanni di Padilla delle unzioni venefiche, sparse coll'opera di certi Fontana, Mora, Piazza, Vaccarìa, Licchiò, Saracco, Fusaro, un barbirolo di porta Comasina, certo Pedrino daziaro, Magno Bonetti, Baruello, Girolamo Foresaro, Trentino, Vedano e simili infelici della più bassa plebe.

Quanto poi alle vociferazioni pubbliche, alcune attribuivano queste unzioni ai Tedeschi, altre ai Francesi che tentavano di distruggere l'Italia, altre agli Eretici e particolarmente Ginevrini, altre al duca di Savoja, altre, non si sa poi ben come, ad alcuni gentiluomini Milanesi, fatti prigionieri dal papa e rnandati in Milano; altre finalmente al conte Carlo Rasini, a D. Carlo Bossi, più che ad ogni altro si attribuirono al cavaliere di Padilla. Si diceva che per ogni quartiere della città vi fossero due barbieri destinati a fabbricare gli unti, e che più di cento cinquanta persone fossero adoperate a spargere l'unzione. Che varj banchieri pagassero largamente questi emissarj, e fra questi Giambattista Sanguinetti, Gerolamo Turcone e Benedetto Lucino, e che questi sborsassero qualunque somma, senza ritirarne quitanza, a qualunque uomo si presentasse loro in nome del cavaliere Padilla. Sopra simili assurdità, sebbene esaminati minutamente i libri de' negozianti suddetti non si trovasse veruna annotazione nemmeno equivoca, si passò a crudeli torture contro di essi. Il cavaliere Padilla si trovò che nel tempo, in cui si diceva che in Milano avesse formato e diretto questo attentato, egli era a Mortara e altre terre del Piemonte, ove combatteva alla testa della sua compagnia in difesa di questo stato. Merita di essere trascritta la risposta ch'ei fece in processo quando fu costituito reo di queste unzioni. Così egli dice: "Io mi maraviglio molto che il senato sia venuto a risoluzione così grande, vedendosi e trovandosi che questa è una mera impostura e falsità fatta non solo a me, ma alla giustizia istessa". Ed aveva ben ragione di dirlo, perché dalla narrativa istessa del reato appariva la grossolana impostura. "Come", proseguì esso cavaliere, "un uomo di mia qualità, che ho speso la vita in servizio di S. M., in difesa di questo stato, nato da uomini che hanno fatto lo stesso, avevo io da fare, né pensare cosa che a loro e a me portasse tanta nota di infamia? E torno a dire che questo è falso, ed è la più grande impostura che ad uomo sia mai stata fatta." Questa risposta, detta nel calore di un sentimento, è forse il solo tratto nobile che si legga in tutto l'infelice volume che ho esaminato. Il delitto non parla certamente un tal linguaggio, e il cavalier Padilla era sicuramente assai al dissopra del livello de' suoi giudici e del suo tempo.

La serie del delitto contestato al cavaliere di Padilla Si ricava dalla narrazione medesima del reato, e vi si scorge il sugo de’ romanzi forzatamente creati colla tortura: io ne compilerò l'estratto semplicemente, giacché troppo riuscirebbe di tedio l'intiera narrazione, e porrò in margine le osservazioni opportune. Risultò adunque la diceria seguente:

Circa al principio del mese di maggio il cavaliere di Padilla vicino alla chiesa di S. Lorenzo parlò al barbiere Giacomo Mora, ordinandogli che facesse un unto da applicare ai muri e porte onde risultasse la morte delle persone, assicurandolo che danari non ne sarebbero mancati, e non temesse, perché "avrebbe trovato molti compagni". Indi altra volta, pochi giorni dopo, gli diede delle dobble perché ungesse, e vi era presente un gentiluomo, Crivelli; e il trattato fu fatto da certo D. Pietro di Saragozza; indi il barbiere allora fu avvisato che i banchieri Giulio Sanguinetti e Gerolamo Turcone avevano ordine di somministrare tutto il danaro occorrente a chiunque andava da essi in nome di D. Giovanni di Padilla. Carlo Vedano poi maestro di scherma fu il mezzano per indurre Gian-Stefano Baruello a fare di queste unzioni, e condusse il Baruello sulla piazza del castello, ove ritrovavansi Pietro Francesco Fontana, Michele Tamburino, un prete e due altri vestiti alla francese, ove dal cavaliere furongli dati dei danari, perché il Baruello ungesse e facesse parimenti ungere le forbici delle donne da Gerolamo Foresaro, e gli consegnò un vaso di vetro quadrato dicendogli: "Questo è un vaso d'unguento di quello che si fabbrica in Milano, ed ho a centinaia de' gentiluomini che mi fanno questi servizj, e questo vaso non è perfetto"; quindi gli ordinò di prendere de' rospi, delle lucertole ecc., e farle bollire nel vino bianco e mischiare tutto insieme. Poi temendo il Baruello di proprio danno col toccarlo, gli fece vedere il cavaliere a toccarlo senza timore. Poi viene il circolo fatto dal prete e il Pantalone, del quale ho già data notizia. Indi si vuole che il cavaliere dicesse al Baruello di non dubitare, che se la cosa andava a dovere, esso cavaliere sarebbe stato "padrone dl Milano, e voi vi voglio fare dei primi"; soggiungendo di nuovo "che se per sorte fosse pervenuto nelle mani della giustizia, non avrebbe in alcun tempo confessato cosa alcuna". Tale è la serie del fatto deposto contro il figlio del castellano, la quale sebbene smentita da tutte le altre persone esaminate (trattine i tre disgraziati Mora, Piazza e Baruello che alla violenza della tortura sacrificarono ogni verità, servì d base a un vergognosissimo reato.

 

VI. Della insidiosa cavillazione che si usò nel processo verso di alcuni infelici

Soffoco violentemente la natura, e superato il ribrezzo che producono tante atrocità, io trascriverò per intiero l'esame fatto al povero maestro di scherma Carlo Vedano. La scena è crudelissima, la mia mano la strascrive a stento; ma se il raccapriccio che io ne provo gioverà a risparmiare anche una sola vittima, se una sola tortura di meno si darà in grazia dell'orrore che pongo sotto gli occhi, sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e la speranza di ottenerlo mi ricompensa. Ecco l'esame.

1630 die 18 septembris etc.

Eductus e carceribus Carolus Vedanus [18 settembre 1630, ecc. Tradotto dalle carceri Carlo Vedano].

Int.: "Che dica se si è risolto a dir meglio la verità di quello ha sin qui fatto circa le cose che è stato interrogato, e che gli sono state mantenute in faccia da Gio Stefano Baruello".

Resp.: "Illustrissimo signore, non so niente".

Ei dicto: "Che dica la causa perché interrogato se aveva mangiato in casa di Gerolamo cuoco, che fa l'osteria là a S. Sisto di compagnia del Baruello, non contento di dire una volta di no, rispose: "Signor no, signor no, signor no"".

Resp.: "Perché non è la verità".

Ei dicto: "Che per negare una cosa basta dire una volta di no, e che quel replicare signor no, signor no, signor no, mostra il calore con che lo nega, e che per maggior causa lo neghi che perché non sia vero".

Resp.: "Perché non vi sono stato".

Ei dicto: "Che occasione aveva di scaldarsi cosi?".

Resp.: "Perché non vi sono stato, illustrissimo signore".

Ei denuo dicto: "Perché interrogato, se aveva mai mangiato col detto Baruello all'osteria sopra la piazza del castello, rispose: "Signor no, mai, mai, mai""

Risp. "Ma, signore, vi ho mangiato una volta, ma non solo, ma in compagnia di Francesco barbiere figliuolo d'Alfonso, e quando ho risposto: "Signor no, mai, mai, mai' mi sono inteso d'avervi mangiato col Baruello solamente".

Ei dicto: "Prima, che esso non era interrogato se avesse mangiato là col Baruello solo o in compagnia d'altri, ma semplicemente se aveva mangiato con lui alle dette osterie, e però se gli dice che in questo si mostra bugiardo, poiché allora ha negato e adesso confessa; di più se gli dice che si ricerca di saper da lui, perché causa con tanta esagerazione negò di avervi mangiato; né gli bastò di dire di no, che anco vi aggiunse quelle parole "mai, mai, mai"".

Resp.: "Ma, signore, perché io non vi ho mai mangiato, altro che quella volta, ed intesi l'interrogazione di V. S. se aveva mangiato con lui solo; e quanto al secondo, dico che mi sfogava così perché non vi ho mai mangiato".

Ei denuo dicto: "Perché, interrogato se mai ha trattato col Baruello di far servizio al signor D. Giovanni, rispose di no, ed essendogli replicato che ciò gli sarebbe stato mantenuto in faccia, aveva risposto che questo non si sarebbe trovato mai, ed essendogli di nuovo replicato che di già si era trovato, rispose con parole interrotte: "Sarà, uh! uh! uh!"".

Resp.: "Perché non ho mai parlato con lui"

Int.: "Chi è questo lui?".

Resp.: "È il figliuolo del signor castellano".

Ei dicto: "Perché questa mattina, interrogato se si è risoluto a dire la verità meglio di quel che fece jeri sera, ha prorotto in queste parole: "Perché io ne sono innocente di quella cosa che mi imputano", le quali parole, oltreché sono fuori di proposito, non essendo mai stato interrogato sopra imputazione che gli sia stata data, mostrano ancora che esso sappia d'essere imputato di qualche cosa; e pure interrogato che imputazione sia questa, ha detto di non saperlo: onde se gli dice, che oltreché si vuol sapere da lui perché ha detto quella risposta fuori di proposito, si vuol anche sapere che imputazione è quella, che gli vien data".

Resp.: "Io ho detto così perché non ho fallato".

Ei dicto denuo: "Perché, interrogato se quando passò sopra la piazza del castello col detto Baruello videro alcuno, ha risposto prima di no, poi ha soggiunto: "Ma, signore, vi erano della gente, che andavano innanzi e indietro"; e dettogli perché dunque aveva detto "signor no", ha risposto: "Io m'era inteso se aveva veduto dei nostri compagni": soggiungendo: "No, signore, siano per la Vergine santissima, che non ho fallato"; le quali parole ultime, come sono state fuori di proposito, non essendo egli finora stato interrogato di alcun delitto specificatamente, così mettono in necessità il giudice di voler sapere perché le ha dette, e però s'interroga ora perché dica, perché ha detto quelle parole fuori di proposito con tanta esagerazione".

Resp.: "Perché non ho fallato".

Ei dicto: "Che sopra tutte le cose che è stato interrogato adesso si vuole più opportuna risposta, altrimenti si verrà ai tormenti per averla".

Resp.: "Torno a dire che non ho fallato, ed ho tanta fede nella Vergine santissima che mi ajuterà, perché non ho fallato, non ho fallato"

Tunc jussum fuit duci ad locum Eculei, et ibi torturae sujici, adhibita etiam ligatura canubis ad effectum ut opportune respondeat interrogationibus sibi factis, ut supra, et non aliter etc., et semper sine praejudicio confessi et convicti ac aliorum jurium etc.; prout fuit ductus, et ei reiterato juramento veritatis dicendae, prout juravit etc. fuit denuo [Allora fu comandato di condurlo al luogo del cavalletto ed ivi sottoporlo a tortura, usando anche la legatura con la canape affinché rispondesse in modo opportuno alle interrogazioni fattegli, come sopra e non altrimenti, ecc. e sempre senza pregiudizio del diritto del reo confesso e convinto degli altri diritti, ecc.; fu pertanto ivi condotto e, ripetutogli il giuramento di dire la verità, egli giurò ecc. e fu quindi]:

Int.: "A risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni già fattegli, come sopra, altrimenti si farà legare e tormentare".

Resp.: "Perché non ho fallato, illustrissimo signore".

Tunc semper sine praejudicio; ut supra, ad effectum tantum, ut supra, et eo prius vestibus Curiae induto jussum fuit ligari, prout fuit per brachium sinistrum ad funem applicatus, et cum etiam ei fuisset aptata ligatura canubis ad brachium dexferum fuit denuo [Allora, sempre senza pregiudizio, come sopra, agli effetti di quanto sopra, e dopo avergli fatto indossare abiti talari, si comandò che fosse legato, quindi venne sospeso ad una fune per il braccio sinistro, dopo che anche al braccio destro fu adattata una legatura di canape. Indi fu nuovamente]:

Int.: "A risolversi di rispondere a proposito alle interrogazioni dategli, come sopra, che altrimenti si farà stringere".

Resp.: "Non ho fallato, sono cristiano, faccia V. S. illustrissima quello che vuole".

Tunc semper sine praejudicio, ut supra, jussum fuit stringi, et cum stringeretur, fuit denuo [Allora sempre senza pregiudizio, come sopra, fu ordinato che si stringesse e, quando fu stretto, fu nuovamente]:

Int.: "Di risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni dategli".

Resp.: "Ah Vergine santissima, acclamando [gridando], non so niente".

lterum institus ad dicendam veritatem, ut supra [Di nuovo sollecitato a dire la verità, come sopra].

Resp. acclamando [rispose gridando]: "Ah Vergine santissima di S. Celso, non so niente".

Ei dicto: "Che dica la verità, se no si farà stringere più forte: cioè risponda a proposito".

Resp.: "Ah, signore, non ho fatto niente".

Tunc jussum fuit fortuis stringi, et dum stringeretur, fuit pariter [Fu ordinato allora di stringere più forte, e mentre lo si stringeva, gli fu chiesto ancora]:

Int.: "A risolversi a dir la verità a proposito".

Resp. acclamando: "Ah, signore illustrissimo, non so niente:".

Institus ad opportune respondendum, ut supra [Invitato a rispondere a tono, come sopra].

Resp.: "Son qui a torto, non ho fallato, misericordia, Vergine santissima".

Inter.: Iterum ad opportune respondendum, ut supra [Di nuovo invitato a rispondere a tono, come sopra] "che altrimenti si farà stringere più forte".

Resp. acclamando: "Non lo so, illustrissimo signore, non lo so, illustrissimo signore"

Tunc jussum fuit fortius stringi, et dum stringeretur fuit denuo [Fu allora ordinato di stringere più forte, e mentre lo si stringeva gli fu di nuovo].

Int. ad opportune respondendum, ut supra [Intimato di rispondere a tono].

Resp. acclamando: "Ah Vergine santissima, non so niente";

Tunc postergatis manibus et ligatus, fuit in Eculeo elevatus, deinde [Allora, postegli le mani dietro il dorso, fu sollevato sul cavalletto].

Int.:"A risolversi a rispondere opportunamente alle interrogazioni già dategli".

Resp. acclamando: "Ah, illustrissimo signore, non so niente".

Int. ad opportune respondendam, ut supra

Resp.: "Non so niente, non so niente. Che martirj sono questi che si danno ad un cristiano! Non so niente"

Et iterum institus, ut supra.

Resp.: "Non ho fallato".

Tunc ad omnem bonum finem jussum fuit deponi et abradi, prout fuit depositus; et dum abraderetur fuit iterum [Allora, ad ogni buon fine, fu ordinato che fosse messo a terra e che gli fosse rasato il capo; fu quindi deposto e, mentre lo si radeva, fu di nuovo]:

Int. ad opportune respondendam, ut supra

Resp.: "Non so niente, non so niente".

Et cum esset abrasus, fuit denuo in Eculeo elevatus, deinde [E come fu rasato, lo fecero nuovamente salire sul cavalletto, indi]:

Int.: "A risolversi ormai a rispondere a proposito".

Resp. acclamando: "Lasciatemi giù, che dico la verità".

Et dicto: "Che cominci a dirla, che poi si farà lasciar giù".

Resp. acclamando: "Lasciatemi giù che la dico".

Qua promissione attenta fuit in plano depositus, deinde [Ottenuta la promessa, fu deposto a terra indi]:

Int.: "A dir questa verità che ha promesso di dire".

Resp.: "Illustrissimo signore, fatemi slegare un pochettino, che dico la verità".

Ei dicto: "Che cominci a dirla".

Resp.: "Fu il Baruello che mi venne a trovare in porta Ticinese, e mi domandò che andassi con lui per certo formento che era stato rubato, e disse che avressimo chiappato un villano, che aveva lui una cosa da dargli per farlo dormire, ma non vi andassimo". Postea dixit [indi disse]: "No signore, V S. mi faccia slegare un poco, che dico che V S. avrà gusto"

Ei dicto: "Che cominci a dire, che poi si farà slegare".

Resp.: "Ah signore fatemi slegare che sicuramente vi darò gusto, vi darò gusto".

Qua promissione attenta jussum fuit dissolvi, et dissolutus, fuit postea:

Int.: "A dire la verità che ha promesso di dire".

Resp.: "Illustrissimo signore, non so che dire, non so che dire; non si troverà mai che Carlo Vedano abbia fatta veruna infamità"

Institus: "A dire la verità che ha promesso di dire, che altrimenti si farà di nuovo legare e tormentare, senza remissione alcuna".

Resp.: "Se io non ho fatto niente...".

Iterum institus, ut supra.

Resp.: "Signor senatore, vi sono stato a casa di messer Gerolamo a mangiare col Baruello, ma non mi ricordo della sera precisa".

Et cum ulterius vellet progredi jussum fuit denuo ligari per brachium sinistrum ad funem, et per brachium dextrum canubi et cum ita esset ligatus, antequam stringeretur [E, poiché non voleva dire altro, fu comandato di legarlo per il braccio sinistro alla fune e per il braccio destro al canape e, così legato, prima che si stringesse].

Int.: "Ad opportune respondendum, ut supra".

Resp.: "Fermatevi; V. S. aspetti, signor senatore, che voglio dire ogni cosa".

Ei dicto: "Che dunque dica".

Resp.: "Se non so che dire".

Tunc jussum fuit stringi, et dum stringeretur acclamavit: "Aspettate che la voglio dire la verità".

Resp.: "Che cominci a dirla".

Resp.: "Ah signore! se sapessi che cosa dire, direi": et acclamavit: "ah, signor senatore!".

Ei dicto: "Che si vuole che dica la verità".

Resp.: "Ah, signore, se sapessi che cosa dire la direi".

Et etiam institus ad dicendam veritatem, ut supra

Resp. acclamando: "Ah signore, signore, non so niente".

Et jussum fuit fortius stringi, et dum stringeretur, fuit denuo:

Institus: "A risolversi a dire la verità promessa, e di rispondere a proposito".

Resp. acclamando: "Non so niente, signore, signore, non so niente".

Et cum per satis temporis spatium stetisset in tormentis, multunque pati videretur, nec aliud ab eo sperari posset, jussum fuit dissolvi et reconsignari, prout ita factum est [E, poiché era stato alla tortura per un tempo sufficiente ed era evidente che soffriva molto e che d'altra parte non vi era altro da sperare da lui, fu comandato di scioglierlo e di ricondurlo in prigione; ciò che fu fatto]

 

VII. Come terminasse il processo delle unzioni pestifere

Se volessi porre esattamente sott'occhio al lettore la scena degli orrori metodicamente praticati in quella occasione, dovrei trascrivere tutto il processo, dovrei inserire le torture fatte soffrire ai banchieri, ai loro scritturali ed altre civili persone; torture crudelissime, date per obbligarli a confessare, che dal loro banco si dava qualunque somma di danaro a chiunque anche sconosciuto, purché nominasse D. Giovanni di Padilla; e danaro, che si sborsava senza averne alcuna quitanza e senza scriversi partita ne' loro libri: e tutte queste assurde proposizioni emanate dal forzato romanzo, che la insistenza degli spasimi fece concertare fra i miseri Piazza e Mora. Ma anche troppo è feroce il saggio che di sopra ne ho dato, e troppo funesti alla mente ed al cuore sono sì tristi oggetti. Dalla scena orribile che ho descritta si vede l'atroce fanatismo del giudice di circondurre con sottigliezza un povero uomo che non capiva i raggiri criminali, e portarlo alle estreme angosce, d'onde l'infelice si sarebbe sottratto con mille accuse contro se medesimo, se per disgrazia gli si fosse presentato alla mente il modo per calunniarsi. Colla stessa inumanità si prodigò la tortura a molti innocenti: in somma tutto fu una scena d'orrore. È noto il crudele genere di supplizio che soffrirono il barbiere Gian-Giacomo Mora (di cui la casa fu distrutta per alzarvi la colonna infame), Guglielmo Piazza, Gerolamo Migliavacca coltellinajo, che si chiamava il Foresè, Francesco Manzone, Caterina Rozzana e moltissimi altri; questi condotti su di un carro, tenagliati in piú parti, ebbero, strada facendo, tagliata la mano; poi rotte le ossa delle braccia e gambe, s'intralciarono vivi sulle ruote e vi si lasciarono agonizzanti per ben sei ore, al termine delle quali furono perfine dal carnefice scannati, indi bruciati e le ceneri gettate nel fiume. L'iscrizione posta al luogo della casa distrutta del Mora, così dice:

HIC . UBI . HAEC . AREA . PATENS . EST

SURGEBAT . OLIM . TONSTRINA

JO . JACOBI . MORAE

QUI . FACTA . CUM . GULIELMO. PLATEA

PUB . SANIT . COMMISSARIO

ET . CUM . ALIIS . CONJURATIONE

DUM . PESTIS . ATROX . SAEVIRET

LAETIFERIS . UNGUENTIS . HUC . ET . lLLUC . ASPERSIS

PLURES . AD . DIRAM . MORTEM . COMPULIT

HOS . IGITUR . AMBOS . HOSTES . PATRIAE . JUDICATOS

EXCELSO . IN . PLAUSTRO

CANDENTI . PRIUS . VELLIICATOS . FORCIPE

ET . DEXTERA . MULCTATOS . MANU

ROTA . INFRINGI

ROTAQUE . INTEXTOS . POST . HORAS . SEX . JUGULARI

COMBURI . DEINDE

AC . NE . QUID . TAM . SCELESTORUM . HOMINUM

RELIQUI . SIT

PUBLICATIS . BONIS

CINERES . IN . FLUMEN . PROJICI

SENATUS. JUSSIT

CUJUS . REI . MEMORIA . AETERNA . UT . SIT

HANC . DOMUM . SCELERIS . OFFICINAM

SOLO . AEQUARI

AC . NUNQUAM . IMPOSTERUM . REFICI

ET . ERIGI . COLUMNAM

QUAE . VOCETUR . INFAMIS

PROCUL . HINC . PROCUL . ERGO

BONI CIVES

NE . VOS . INFELIX . INFAME . SOLUM

COMACULET

MDCXXX . KAL . AUGUSTI

[Qui dov'è questa piazza / sorgeva un tempo la Barbieria / di Gian Giacomo Mora / il quale congiurato con Guglielmo Piazza / pubblico commissario di sanità e con altri / mentre la peste infieriva più atroce / sparsi qua e là mortiferi unguenti / molti trasse a cruda morte / questi due adunque giudicati / nemici della patria / il senato comandò / che sovra alto carro / martoriati prima con rovente tanaglia / e tronca la mano destra / si frangessero colla ruota / e alla ruota intrecciati / dopo sei ore scannati / poscia abbruciati / e perché nulla resti d'uomini così scellerati / confiscati gli averi / si gettassero le ceneri nel fiume / a memoria perpetua di tale reato / questa casa officina del delitto / il senato medesimo ordinò spianare / e giammai rialzarsi in futuro / ed erigere una colonna / che si appelli infame / lungi adunque lungi da qui / buoni cittadini / che voi l'infelice infame suolo / non contamini / il primo d'agosto MDCXXX.]

Come poi subissero la pena, il canonico Giuseppe Ripamonti, che era vivo in que' tempi, ce lo dice: Confessique isti flagitium, et tormentis omnibus excruciati perseveravere confitentes donec in patibulum agerentur. Hi demum juxta laqueum inter carnificis manus de sua innocentia ad populum ita dixere: mori se libenter ob scelera alia, quae admisissent; caeterum unguendi artem se factitavisse nunquam, nulla sibi veneficia aut incantamenta nota fuisse. Ea sive insania mortalium, sive perversitas, et livor astusque daemonis erat. Sic indicia rerum, et judicum animi magis magisque confundebantur. (Dopo di avere ne' tormenti confessato ogni delitto, di cui erano ricercati, protestavano all'atto di subire la morte di morir rassegnati per espiare i loro peccati avanti Dio, ma di non aver mai saputo l'arte di ungere, né fabbricar veleni, né sortilegi.) Così dice il Ripamonti, che pure sostiene l'opinione comune, cioè che fossero colpevoli.

Le crudeltà usate da più di un giudice in quel disgraziato tempo giunsero a segno, che più di uno fu tormentato tant'oltre da morire fra le torture: il Ripamonti lo dice, e invece d'incolpare la ferocia de' giudici, va al suo solito a trovame la meno ragionevole cagione, cioè che il Demonio li strangolasse. Constitit flagitii reos in tormentis a Daemone fuisse strangulatos [Constatava che alcuni reii del misfatto, sottoposti alla tortura, furono strozzati dal demonio].

Il cardinale Federico Borromeo, nostro illustre arcivescovo in que' tempi, dubitava della verità del delitto, e in una di lui scrittura inserita nel Ripamonti cosi disse: Non potuisse privatis sumptibus haec potenta patrari. Regum, principumque nullus opes authoritatemque comodavit. Ne caput quidem, authorve quispiam unctorum istorum, furiarumque reperitur; et haud parva conjectura vanitatis est, quod sua sponte evanuit scelus, duraturum haud dubio usque in extrema, si vi aliqua consilioque certo niteretur. Media inter haec sententia, mediumque inter ambages dubiae historiae iter. (Non si sarebbe co' danari d’un semplice privato potuto fare una così portentosa cospirazione. Nessun re o principe ne somministrò i mezzi, o vi diè protezione. Non apparve nemmeno chi fosse l'autore o il capo di tali unzioni e furiosi disegni; e non è piccola congettura che fosse un sogno il vedere una tale cospirazione svanita da sé, mentre avrebbe dovuto durare sino al totale esterminio, se eravi una forza, un disegno, un progetto, che dirigessero una tale sciagura. Fra tali dubbietà e incertezze deve la storia farsi la strada.) Né quel solo illuminato cardinale vi fu allora che ne dubitasse, che anzi convien dire che la dubitazione fosse di varj, poiché tanto il Ripamonti che il Somaglia e altri scrittori di que' tempi si estendono a provare la reità dei condannati; cosa che non avrebbero certamente fatta, se non fosse stato bisogno di combattere un'opinione contraria. Anzi lo stesso Ripamonti, che di proposito scrisse la storia di quella pestilenza, per timidità piuttosto che per persuasione sostenne l'opinione degli unti malefici, dolendosi egli del difficile passo in cui si trova di opinare se oltre gl'innocenti, i quali furono di tal delitto incolpati, realmente vi fossero veri spargitori dell’appestata unzione, mostri di natura, obbrobrj della umanità e nemici pubblici; né tanto gli sembra scabroso il passo per la dubbiezza del fatto, quanto perché non trovavasi posto in quella libertà in cui uno scrittore possa spiegare i sentimenti dell'animo suo, "poiché se io dirò (così il Ripamonti) che unzioni malefiche non vi furono, tosto si griderà ch'io sia un empio e manchi di rispetto ai tribunali. L'orgoglio de' nobili e la credulità della plebe hanno già adottata questa opinione, e la difendono come inviolabile, onde cosa inutile e ingrata sarebbe se io volessi oppormivi". Eccone le parole: Caeterum his ita expositis anceps atque difficilis mihi locus oritur exponendi, praeter innoxio istos unctores, et capita honesta quae nihil cogitavere mali et periculum adiere ingens, putemne veros etiam fuisse unctores, monstra naturae, propudia generis humani, vitae communis inimicos, quales etiam isti (cioè alcuno de' quali ha raccontato i casi) nimium injuriosa suspicione destinabantur. Neque eo tantum difficilis ancepsve locus est, quia res etiam ipsa dubia adhuc et incerta, sed quia ne illud quidem liberum solutumque mihi relinquitur quod a scriptore maxime exigitur, ut animi sui sensum de unaquaque re depromat atque explicet. Nam si dicere ego velim unctores fuisse nullos frustra caelestes iras et consilia divina trahi ad fraudes artesque hominum, exclamabunt illico multi historiam esse impiam, meque ipsum impietatis teneri, judiciorumque violatorem. Adeo sedet contraria opinio animis; pariterque et credula suo more plebs, et superba nobilitas cursu in eam vadunt amplexi rumoris hanc auram, quomodo qui aras et focos et sacra tueretur. Adversus hosce capessere pugnam ingratum mihi nunc, inutileque est [Ora mi si fa innanzi un argomento incerto e difficile a svolgere; se oltre questi innocui untori, uomini dabbene, che nulla macchinarono di male, e colsero nonostante pericolo di vita, vi siano stati altresì veri untori, mostri di natura, infamia del genere umano e nemici alla vita comune, siccome con troppo ingiurioso sospetto si andava affermando. E non solo è argomento arduo perché di dubbioso in se stesso; ma altresì perché non mi è conceduta la libertà sì necessaria allo storico di emettere e sviluppare la propria opinione sopra ciascun fatto. Ov'io volessi dire che non vi furono untori, e che indarno si attribuiscono alle frodi ed alle arti degli uomini i decreti della Provvidenza ed i celesti gastighi, molt griderebbero tosto empia la mia storia, e me irreligioso e sprezzatore delle leggi. L'opposta opinione è ora invalsa negli animi: la plebe credula, com'è suo stile, ed i superbi nobili essi pure, seguendo la corrente, sono tenaci in dar fede a questo vago rumore come se avessero a difendere la religione e la patria. Ingrata ed inutile fatica sarebbe per me il combattere siffatta credenza]. Da ciò conoscesi qual fosse la opinione del troppo timido Ripamonti, il quale dice: Quaestio multiplici torsit ambage dubitantes fuerintne venena haec, et aliqua ungendi ars, an vanus absque re ulla timor, qualia saepe in extremis malis deliramenta animos occupare consueverunt [Gli animi ondeggiavano in molte dubbiezze circa la questione se vi furono realmente unti ed un'arte di spargerli, ovvero se fu uno di quei vani timori senza fondamento che spesso fan delirare gli uomini caduti nell'estremo de' mali]; perloché evidentemente si conosce, che malgrado l'infelicità de' tempi vi era nella città nostra un ceto d'uomini che non si lasciarono strascinare dal furore del volgo, e sentirono l'assurdità del supposto delitto e la falsità dell'opinione.

Riepilogando tutto lo sgraziato amrnasso delle cose sin qui riferite, ogni uomo ragionevole conoscerà, che fu immenso il disastro che rovinò in quell'epoca infelicissima i nosti maggiori, e che quest'ammasso crudele di miserie nacque tutto dall’ignoranza e dalla sicurezza ne' loro errori, che formò il carattere de' nostri avi. Somma spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza; somma stolidità nel ricusare la credenza ai fatti, nel ricusare l'esame di un avvenimento cosi interessante; somma superstizione nell'esigere dal cielo un miracolo, acciocché non si accrescesse il male contagioso coll'affollare unitamente il popolo; somma crudeltà e ignoranza nel distruggere gl'innocenti cittadini, lacerarli e tormentarli con infernali dolori per espiare un delitto sognato. Insomma la proscritta verità in nessun conto poté manifestarsi; i latrati della superstizione e l'insolente ignoranza la costrinsero a rimanersene celata. Per tutto il passato secolo si risentì in questo infelicissimo stato la enorme scossa di quella pestilenza. Le campagne mancarono di agricoltori; le arti e i mestieri si annientarono; e fors'anche al giorno d'oggi abbiamo de' terreni incolti, che prima di quell'esterminio fruttavano a coltura. Si avvilì il restante del popolo nella desolazione in cui giacque; poco rimase delle antiche ricchezze, e non si citerà una casa fabbricata per cinquant'anni dopo la pestilenza, che non sia meschina. I nobili s'inselvatichirono; ciascuno vivendo in una società molto angusta di parenti, si risguardò come isolato nella sua patria; e non si rípigliarono i costumi sociali, che erano tanto splendidi e giocondi prima di tale sciagura, se non appena al principio del secolo presente. Tanti malori poté cagionare la superstiziosa ignoranza!

 

VIII. Se la tortura sia un tormento atroce

Non può mettersi in dubbio, che nell'epoca delle supposte unzioni pestilenziali la tortura non sia stata veramente atrocissima Ma si potrebbe anche dire che i tempi sono mutati, e che fu allora un eccesso cagionato dalla estremità de' mali pubblici da non servire di esempio. Io però credo che al giorno d'oggi la pratica criminale sia diretta da quei medesimi libri che si consultavano nel 1630, e appoggiato su questi parmi facile cosa il conoscere, che veramente la tortura è un infernale supplizio.

Col nome di tortura non intendo una pena data a un reo per sentenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co' tormenti. Quaestio est veritatis indagatio per tormentum, seu per torturam; et potest tortura appellari quaestio a quaerendo, quod judex per tormenta inquirit veritatem [L'interrogatorio è l'indagine della verità per mezzo dei tormenti, ovvero della tortura; e la tortura si può chiamare interrogatorio, essendo questo un'inchiesta, poiché il giudice inquisisce la verità per mezzo dei tormenti].

I fautori della tortura cercano calmare il ribrezzo, che ogni cuore sensibile prova colla sola immaginazione del tormento. Poco è il male, dicono essi, che ne soffre il torturato; si tratta di un dolore passaggiero, per cui non accade mai l'opera di medico o cerusico; sono esagerati i dolori che si suppongono. Tale è il primo argomento, col quale si cerca di soffocare il raccapriccio, che alla umanità sveglia la idea della tortura. Pure dai fatti accaduti nel 1630 viene delineato a caratteri di sangue l'orrore di questi tormenti; le leggi, le pratiche sotto le quali viviamo sono le stesse, siccome ho detto, ed altro non manca per ripetere le stesse crudeltà, se non che ritornassero de' giudici simili a quelli d'allora. Si adopera attualmente per tortura la lussazione dell'osso dell'omero; si adopera talvolta il fuoco a' piedi, crudeli operazioni per se stesse, ma nessuna legge limita la crudeltà a questi due modi; i dottori che sono i maestri di questi spasimi, i dottori che si consultano per regola e norma de' giudizj criminali, non prescrivono certamente molta moderazione. Il Bossi Milanese, che tratta della pratica criminale di Milano, al tit. De Torturis, n. 2 dice: "Non chiamerò tortura ogni dolore di corpo: la tortura debb'essere più grave, che se si tagliassero ambe le mani; e soffrir la tortura, egli è patire le estreme angosce dello spasimo... E basta osservare i preparativi e i modi di tormentare per conoscerlo: niente è mite, anzi tutto è crudelissimo; e perciò spesse volte si dà la tortura col fuoco, e quel che dice l'uomo tormentato col fuoco si reputa la verità istessa". (Nec quodlibet tormentum cum dolore corporis dicitur quaestio: hinc est quod gravior est tortura, quam utriusque manus abscissio; et pati torturam est supremas angustias sustinere, ut vidimus et audivimus, et de his tormentis loquitur totus titulas de quaestionibus; sic etiam loquuntur doctores quod maxime patet dum congerunt instrumenta et modos torquendi; quia nihil horum est leve, immo crudelissimun, et ideo etiam igne saepe rei torquentur: igne defatigati, quae dicunt ipsa videtur esse veritas.) Dopo ciò non saprei mai come possa dirsi, che la tortura per sé sia un male da poco. Non nego che un giudice umano potrà temperare la ferocia di questa pratica, ma la legge non è certamente mite, né i dottori maestri lo sono punto. Veggasi con qual crudeltà il Zigler descrive questa inumanissima pratica "Oltre lo stiramento, con candele accese si suole arrostire a fuoco lento il reo in certe parti del corpo; ovvero alle estremità delle dita si conficcano sotto l'unghie de' pezzetti di legno resinoso, indi si appiccica il fuoco a que' pezzetti; ovvero si pongono a cavallo sopra un toro o asino di bronzo vacuo, entro cui si gettano carboni ardenti, e coll'infuocarsi del metallo acerbamente e con incredibili dolori si cruciano." Tali sono i precetti che dà questo dottore, di cui ecco le parole originali: Praeter expansionem, carnifices cutem inquisiti cadentibus luminibus in certis corporis partibus lento igne urunt; vel partes digitorum extimas immissis infra ungues piceis cuniculis, iisque postmodum accensis per adustionem inquisitos excruciant; aut etiam tauro vel asino ex metallis formato, ut incalescenti paullatim per ignes injectos, tandemque per auctum calorem nimium doloribus incredibilibus insidentes urgeant, delinquentes imponunt. Farinaccio istesso parlando de’ suoi tempi asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species. Tale è la natura dell'uomo che superato il ribrezzo de' mali altrui e soffocato il benefico germe della compassione, inferocisce e giubila della propria superiorità nello spettacolo della infelicità altrui; di che ne serve d'esempio anche il furore de' Romani per i gladiatori. Veggasi lo stesso Farinaccio, ove dà il ricordo al giudice di moderarsi ed astenersi dal tormentare il reo colle sue proprie mani; e cita chi vide un pretore, che prendeva il carcerato pe' capelli e gli orecchi, e fortemente lo faceva cozzare contro di una colonna, dicendogli: "ribaldo, confessa"; cosi egli: abstineat etiam judex se ab eo quod aliqui judices facere solent, videlicet a torquendo reos cum propriis manibus... Refert Paris de Puteo se vidisse quemdam potestatem, qui capiebat reum per capillos, vel per aures, dando caput ipsius fortiter ad columnam, dicendo: confitearis et dicas veritatem, ribalde [si astenga il giudice da ciò che alcuni giudici sogliono fare, dal torturare cioè gli imputati con le proprie mani... Paride del Pozzo riferisce d'aver egli stesso visto un giudice che afferrava il reo per i capelli, per le orecchie e, battendogli la testa contro una colonna, diceva: confessa, ribaldo, di’ la verità]. Il celebre Bartolo di se stesso ci significa, come gli accadde di rovinare un giovine robusto uccidendolo colla tortura; quindi ne deduce che non mai si debba imputare al giudice un simile accidente. Hoc incidit mihi, quia dum viderem juvenem robustum, torsi illum et statim fere mortuus est; e con tale indifferenza racconta il fatto atroce quel freddissimo dottore. Dopo ciò convien pure accordare, e sull'esempio delle unzioni pestifere e sulle dottrine de' maestri della tortura, ch'ella è crudele e crudelissima e che se a1 giorno d'oggi la sorte fa che gli esecutori la moderino, non lascia perciò di essere per se medesima atroce e orribile, quale ognuno la crede, e queste atrocità e questi orrori legalmente autorizzati può qualunque uomo nuovamente soffrirli, sintanto che o non sia moderata con nuove leggi la pratica, ovvero non sia abolita. Né gli orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo che si fa patire, spasimo che talvolta ha condotto a morire nel tormento più d'un reo; ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla. Il citato Bossi asserisce, che se un reo confessa invitato dal giudice con promessa che confessandosi reo non gli accaderà male, la confessione è valida e la promessa del giudice non tiene. Il Tabor dice che anche a una donna che allatti si può benissimo dar la tortura, purché non accada diminuzione di alimenti al bambino: Etiam mulieri lactanti torturam aliquando fuisse indictam, cum ea moderatione ne infanti in alimentis aliquid decedat, quam declarationem facile admitto. Per dare poi la tortura a un testimonio, basta che egli sia di estrazione vile perché sia autorizzato il tormento: Vilitas personae est justa causa torquendi testem, e il Claro asserisce che basta vi siano alcuni indizj contro un uomo, e si può metterlo alla tortura; e in materia di tortura e di indizj, non potendosi prescrivere una norma certa, tutto si rimette all'arbitrio del giudice: Sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc, ut torqueri possit... In hoc autem quae dicantur indicia ad torturam sufficientia scire debes, quod in materia judiciorum et torturae propter varietatem negotiorum et personarum, non potest dari certa doctrina, sed remittitur arbitrio judicis. La sola fama basta perché, se il giudice lo vuole, sia un uomo posto alla tortura. Basti un solo orrore per tutti; e questo viene riferito dal celebre Claro Milanese, che è il sommo maestro di questa pratica. "Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi baciarla. accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà affine d'indurla ad accusarsi del delitto, e con tal mezzo un certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi di un omicidio, e la condusse a perdere la testa" Acciocché non si sospetti che quest'orrore contro la religione, la virtú e tutti i più sacri principj dell'uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro: Paris dicit, quod judex potest mulierem ad se adduci facere secreto in camera, et eidem dicere quod vult eam habere in suam, et fingere velle illam deosculari et ei pollicere liberationem; et quod ita factum fuit a quodam regente qui quamdam mulierem blanditiis illis induxit ad consfitendum homicidium, quae postea decapitata fuit.

Non credo di essere acceso da molto entusiasmo, se dico essere la tortura per se medesima una crudelissima cosa, essere orribile la facilità, colla quale può farsi soffrire ad arbitrio di un solo giudice nella solitudine del carcere, ed essere veramente degna della ferocia de' tempi delle passate tenebre la insidiosa morale, alla quale si ammaestrano i giudici da taluno de' più classici autori. Si tratta adunque di una questione seriissima e degna di tutta l'attenzione, e non regge quanto si può dire per diminuirne il ribrezzo o l'importanza.

IX. Se la tortura sia un mezzo per conoscere la verità

Se la inquisizione della verità fra i tormenti è per se medesima feroce, se ella naturalmente funesta la immaginazione di un uomo sensibile, se ogni cuore non pervertito spontaneamente inclinerebbe a proscriverla e detestarla; nondimeno un illuminato cittadino preme e soffoca questo isolato raccapriccio e contrapponendo ai mali, dai quali viene afflitto un uomo sospetto reo, il bene che ne risulta dalla scoperta della verità nei delitti, trova bilanciato a larga mano il male di uno colla tranquillità di mille. Questo debb'essere il sentimento di ciascuno, che, nel distribuire i sensi di umanità, non faccia l'ingiusto riparto di darla tutta per compassionare i cittadini sospetti, e niente per il maggior numero de' cittadini innocenti. Questa è la seconda ragione, alla quale si cerca di appoggiare la tortura da chi ne sostiene al giorno d'oggi l'usanza come benefica ed opportuna, anzi necessaria alla salvezza dello stato.

Ma i sostenitori della tortura con questo ragionamento peccano con una falsa supposizione. Suppongono che i tormenti sieno un mezzo da sapere la verità: il che è appunto lo stato della questione. Converrebbe loro il dimostrare che questo sia un mezzo di avere la verità, e dopo ciò il ragionamento sarebbe appoggiato; ma come lo proveranno? Io credo per lo contrario facile il provare le seguenti proposizioni:

I. Che i tormenti non sono un mezzo di scoprire la verità.

II. Che la legge e la pratica stessa criminale non considerano i tormenti come un mezzo di scoprire la verità.

III. Che quand'anche poi un tal metodo fosse conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto.

Per conoscere che i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità, comincierò dal fatto. Ogni criminalista, per poco che abbia esercitato questo disgraziato metodo, mi assicurerà che non di raro accade, che de' rei robusti e determinati soffrono i tormenti senza mai aprir bocca, decisi a morire di spasimo piuttosto che accusare se medesimi. In questi casi, che non sono né rari né immaginati, il tormento è inutile a scoprire la verità. Molte altre volte il tormentato si confessa reo del delitto; ma tutti gli orrori, che ho di sopra fatti conoscere e disterrati dalle tenebre del carcere ove giacquero da più d'un secolo, non provan eglino abbastanza che quei molti infelici si dichiararono rei di un delitto impossibile e assurdo, e che conseguentemente il tormento strappò loro di bocca un seguito di menzogne, non mai la verità? Gli autori sono pieni di esempi di altri infelici, che per forza di spasimo accusarono se stessi di un delitto, del quale erano innocenti. Veggasi lo stesso Claro, il quale riferisce come al suo tempo molti per la tortura si confessarono rei dell'omicidio d'un nobile e furono condannati a morte, sebbene poi alcuni anni dopo sia comparso il supposto ucciso, che attestò non essere mai stato insultato da' condannati. Veggasi il Muratori ne' suoi Annali d’Italia, ove parlando della morte del Delfino così dice: "Ne fu imputato il conte Sebastiano Montecuccoli suo coppiere, onorato gentiluomo di Modena, a cui di complessione dilicatissima... colla forza d'incredibili tormenti fu estorta la falsa confessione della morte procurata a quel principe ad istigazione di Antonio de Leva e dell'imperatore stesso, perloché venne poi condannato l'innocente cavaliere ad una orribile morte". Il fatto dunque ci convince che i tormenti non sono un mezzo per rintracciare la verità, perché alcune volte niente producono, altre volte producono la menzogna.

Al fatto poi decisamente corrisponde la ragione. Quale è il sentimento che nasce nell'uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento è il desiderio che il dolore cessi. Più sarà violento lo strazio, tanto più sarà violento il desiderio e l'impazienza di essere al fine. Quale è il mezzo, col quale un uomo torturato può accelerare il termine dello spasimo? Coll'asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato. Ma è egli la verità che il torturato abbia commesso il delitto? Se la verità è nota, inutilmente lo tormentiamo; se la verità è dubbia, forse il torturato è innocente: e il torturato innocente è spinto egualrnente come il reo ad accusare se stesso del delitto. Dunque i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità, ma bensì un mezzo che spinge l'uomo ad accusarsi reo di un delitto, lo abbia egli, ovvero non lo abbia commesso. Questo ragionamento non ha cosa alcuna che gli manchi per essere una perfetta dimostrazione.

Sulla faccia di un uomo abbandonato allo stato suo natura delle sensazioni si può facilmente conoscere la serenità della innocenza, ovvero il turbamento del rimorso. La placida sicurezza, la voce tranquilla, la facilità di sciogliere le obbiezioni nell'esame possono far ravvisare talvolta l'uomo innocente; e così il cupo turbamento, il tono alterato della voce, la stravaganza, l'inviluppo delle risposte possono dar sospetto della reità. Ma entrambi sieno posti, un reo e un innocente fra gli spasimi, fra le estreme convulsioni della tortura; queste dilicate differenze si eclissano; la smania, la disperazione, l'orrore si dipingono egualmente su di ambi i volti, gemono egualmente, e in vece di distinguere la verità, se ne confondono crudelmente tutte le apparenze.

Un assassino di strada avvezzo a una vita dura e selvaggia, robusto di corpo e incallito agli orrori resta sospeso alla torura, e con animo deciso sempre rivolge in mente l'estremo supplizio che si procura cedendo al dolore attuale; riflette che la sofferenza di quello spasimo gli procurerà la vita, e che cedendo all'impazienza va ad un patibolo; dotato di vigorosi muscoli, tace e delude la tortura. Un povero cittadino avvezzo a una vita più molle, che non si è addomesticato agli orrori, per un sospetto viene posto alla tortura; la fibra sensibile tutta si scuote, un fremito violentissimo lo invade al semplice apparecchio: si eviti il male imminente, questo pesa insopportabilmente, e si protragga il male a distanza maggiore; questo è quello che gli suggerisce l'angoscia estrema in cui si trova avvolto, e si accusa di un non commesso delitto. Tali sono e debbono essere gli effetti dello spasimo sopra i due diversi uomini. Pare con ciò concludentemente dimostrato, che la tortura non è un mezzo per iscoprire la verità, ma è un invito ad accusarsi reo egualmente il reo che l'innocente; onde è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla.

 

X. Se le leggi e la pratica criminale risguardino la tortura come un mezzo per avere la verità

Ho stabilito di provare in secondo luogo che le leggi e la pratica istessa de' criminalisti non considerano la tortura come un mezzo per distinguere la verità. Ciò si conosce facilmente osservando, che non trovasi prescritto alcun metodo o regolamento nel Codice Teodosiano, e nessuno parimenti nel Codice Giustinianeo per applicare ai tormenti i sospetti rei. In que' sterminati ammassi di leggi e prescrizioni, ove si sminuzzano le minime differenze de' casi e civili e criminali, niente si prescrive per la tortura. Se la legge adunque avesse risguardati questi tormenti come un mezzo per iscoprire la verità, non se ne sarebbe fatta una omissione in ambo i Codici del modo, de’ casi, e delle riserve, colle quali si dovesse adoperare. Concludo adunque dal silenzio stesso del corpo delle leggi, che la legge non considera la tortura come un mezzo per rintracciare la verità. Se poi il solo argomento negativo non sembrasse bastante a dimostrar questa verità, veggasi la legge I § 25 ff. de quaestionibus, ove ben lontano lo spirito delle leggi romane dal riguardare la tortura come un mezzo da rinvenire la verità, anzi vi si legge: "La tortura è un mezzo assai incerto e pericoloso per ricercare la verità, poiché molti colla robustezza e la pazienza superano il torrnento e in nessun modo parlano; altri insofferenti mentiscono mille volte, anzi che resistere al dolore". Quaestio res est fragilis et periculosa, et quae ventatem fallat. Nam plerique patientia, sive duritia tormentorum illa tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit; alii tanta sunt impatientia, ut quodvis mentiri, quam pati tormento velint. Così si esprime positivamente il Digesto, e tale era l'opinione de' Romani nostri legislatori e maestri, i quali conoscevano l'uso della tortura sopra gli schiavi, siccome vedremo poi. Dunque la legge non risguarda la tortura come un mezzo per la scoperta della verità

Io però ho asserito di più che non solamente la legge, ma nemmeno la pratica criminale considera la tortura per un mezzo d'avere la verità. Pare questo un paradosso, eppure io credo di poterlo evidentemente dimostrare.

Primieramente, se i dottori risguardassero la tortura con un mezzo per iscoprire la verità nei delitti, non escluderebbe se medesimi dall'essere torturati, poiché è tale l'interesse dell’umana società che i delitti si scoprano, che nessuno può essere sottratto dai mezzi di scoprirli; in quella guisa che nessuno sottratto de' dottori dalla pena di morte, esiglio ecc., ogni qualvolta co' suoi delitti l'abbia meritata. Io perdonerò se ciascun cerchi di rialzare il proprio mestiero, e non mi farà maraviglia che il Wesembeccio dica che i dottori sono per dignità eguali ai nobili e decurioni, e per meriti eguali ai militari: Doctores nobilibus et decurionibus dignitate, militibus autem meritis aequiparantur; ma non sarebbe perdonabile alcuno, che osasse dare alla propria facoltà una impunità nei delitti. Se adunque i nobili e i dottori sono privilegiati per la tortura, segno è che non viene essa dai criminalisti considerata come un mezzo per avere 1a verità.

Secondariamente, se i dottori considerassero la tortura come un mezzo per avere la verità, prescriverebbero di attenervisi e considerare per certo quello che un tormentato dice fra i tormenti. La pratica però ordina che ciò non sia attendibile, se l'uomo qualche tempo dopo e in luogo lontano da ogni apparecchio di tortura non ratifica l'accusa fatta a se medesimo, acciocché non rimanga sospetto che la violenza dello spasimo abbia indotto il torturato ad accusarsi indebitamente. Dunque la pratica stessa criminale non risguarda lo strazio della tortura come un mezzo pe