TURGOT

A cura di Sabatino Prosperi

 

 

“Quando il potere che fa le leggi s’identifica con quello che le applica, le leggi sono inutili”.

 

 

 

Vita e opere

 

Anne-Robert-Jacques Turgot nasce a Parigi nel 1727 da una nota famiglia aristocratica di origine normanna. Abbandonata la carriera ecclesiastica, intraprende quella amministrativa. Diversi gli incarichi assegnatigli, tra i quali ricordiamo la nomina di Intendent di Limoges (1761), di Ministro della marina, e di controllore generale delle finanze del regno. Nel contempo coltiva con passione e dedizione i suoi molteplici interessi, che vanno dallo studio della storia (dal quale ricava quella che verrà in seguito definita “dottrina del progresso) all’analisi dell’economia. Apprende inoltre le lingue classiche (greco, latino e ebraico) e diverse lingue moderne (tedesco, italiano, inglese e spagnolo).

Si unisce anche al circolo dei philosophes, prendendo parte alla stesura dell’Encyclopédie, per la quale stilerà cinque voci: Etymologie, Existence, Expansibilité, Foire e Fondation (Apparse rispettivamente nei volumi VI e VII).

Entra in contatto con il filosofo scozzese David Hume, al quale scrive lettere memorabili.

Il suo programma politico prevedeva la sensibile riduzione della spesa bellica, l’annullamento delle restrizioni alle importazioni e l’abolizione della ferme géneralé.

Nel settembre del 1774 decreta la libertà di commercio dei grani e delle farine all’interno del regno, abolendo le dogane interne. L’intento del ministro, che si era guadagnato l’ammirazione e la stima del Re Luigi XVI, era quello di stemperare il crescente malcontento popolare, e di incrementare i profitti limitando il potere delle corporazioni, che impedivano lo sviluppo di determinati e fondamentali settori produttivi. Tuttavia, un cattivo raccolto alimenterà lo scontro sociale, che inevitabilmente andrà a sfociare in quella che è chiamata la “guerra delle farine”, sviluppatasi nella regione parigina tra l’aprile e il maggio del 1775.

Degni di nota sono il decreto che abolisce le coorves per la costruzione delle strade, e la creazione di una imposta fondiaria unica, creata appositamente per risanare il bilancio delle finanze statali, da anni in dissesto.

Questa riforma colpiva gli interessi della nobiltà e del clero, cioè i due ceti che detenevano la maggior parte dei terreni (rispettivamente il 47% e il 20% delle terre complessive del regno).

È bene ricordare che all’epoca il sistema fiscale francese era profondamente iniquo: Le imposte venivano riscosse da gruppi di finanzieri che partecipavano ad una vera e propria gara d’appalto, e nobiltà e clero erano de facto esentati dal pagamento.

La loro feroce opposizione costringerà Turgot alle dimissioni, rassegnate nel 1776.

Ritiratosi a vita privata, muore di gotta nel 1781. Tra le sue opere ricordiamo il Quadro filosofico dei progressi successivi dell’intelletto umano (discorso pronunciato alla Sorbona di Parigi per la chiusura della Sorboniques), l’incompiuto Piano di due discorsi sulla storia universale e il fondamentale Formazione e distribuzione delle ricchezze. Proprio quest’ultima ispirerà le riflessioni dell’economista Adam Smith, profondo conoscitore, e debitore, del pensiero di Turgot.

 

 

 

La storia universale

 

 

Turgot pensa la storia come una totalità universale, la cui analisi ci svela la progressiva evoluzione del genere umano. In tutti i campi del reale l’unità degli eventi, gli uni legati agli altri secondo la legge di causa ed effetto, è garantita da Dio, essere onnipotente che pone al centro dell’universo l’uomo, creatura perfettibile che mediante i sensi si relaziona con innumerevoli enti esterni. Ogni singolo è frammento necessario della specie a cui appartiene, e come essa ha la propria infanzia e i propri progressi.

Tutti gli eventi, anche quelli apparentemente negativi, partecipano al movimento che conduce al progresso, il cui apice è la perfezione umana.

Si evince dunque una concezione positiva della storia, che procede per gradi.

Maestro è il bisogno che spinse i primi uomini a cacciare per sopravvivere.

Non avendo fissa dimora, essi si trasferivano da una parte all’altra, senza meta e con il solo scopo di procacciarsi selvaggina. Essendo la natura regolare, gli uomini attraverso l’esperienza riescono a conoscerla e di conseguenza a perfezionare le tecniche, da Turgot chiamate arti, di sfruttamento delle risorse ambientali. Proprio grazie alle arti gli uomini superano gli ostacoli naturali e temporali.

Oltre a quelli cacciatori, esistono anche popoli pastori che addomesticano un considerevole numero di animali. Essi hanno iniziato per primi a conoscere lo spirito di proprietà, e ad abbandonare il nomadismo, stanziandosi in paesi dotati di terreni fertili.

Senza dubbio furono i primi a diventare agricoltori. I popoli cacciatori invece, non avendo animali che fornissero concime, coltivarono solo saltuariamente dei terreni, peraltro di modesta estensione.

Avendo la terra la capacità potenziale di nutrire un maggior numero di persone rispetto a quante ne necessita l’atto della coltivazione, nacquero ove la fertilità era considerevole commerci, attività produttive e dilettevoli ecc.; di qui la divisione sociale del lavoro, l’asservimento del sesso debole e la schiavitù (la donna è asservita all’uomo a causa della sua debolezza fisica. Nelle popolazioni barbare riscontriamo la presenza della poligamia, istituto stabile e preponderante. L’islamismo spinge all’eccesso la poligamia e quindi il dispotismo, ostacolando di fatto il progresso. Per questo Turgot condanna questa religione, esaltando il cristianesimo che insegna ad amare il prossimo, condannando violenza e barbarie. Con l’estensione degli imperi e il diffondersi dei Lumi la monogamia sostituisce questa usanza barbara).

In ultima analisi, l’agricoltura ha reso “gli insediamenti umani più stabili”, (A.R.J. Turgot, Progressi successivi dell’ intelletto umano, tr. it. di Roberto Finzi, Torino 1978, p. 8)  e ha consentito un considerevole miglioramento dell’alimentazione.

Le varie forme di governo sono collegate ai vari stadi della storia. Comune a questi due primi gradi di sviluppo è la monarchia. Sarebbe sbagliato credere che gli uomini si siano dati volontariamente un capo. Piuttosto hanno acconsentito a riconoscerne uno. Maggiore è la grandezza dello stato, maggiore è il dispotismo. Infatti, nelle nazioni di piccole proporzioni non ci può essere dispotismo di alcun tipo, in quanto tutti gli affari pubblici possono essere controllati dai privati. Non vi è né prevaricazione né plebaglia, ed è facile destituire un capo iniquo o incapace, visto che il dispotismo, governando non grazie al consenso ma grazie al potere militare, stimola rivolte.

Mediante i commerci, gli stati stringono reciproche relazioni, influenzandosi a vicenda. Il commercio diviene uno dei tanti veicoli dei lumi, che favoriscono il lento processo storico.

Anche guerre e dispute favoriscono l’incontro tra le culture.

Ammette infatti Turgot che determinati stati sorretti da principi illuminati possono trovarsi in una situazione di progresso maggiore rispetto ad altri stati confinanti. Questi verranno conquistati e civilizzati. Potrebbe però accadere il contrario: i popoli barbari (e con tale termine, usato in antitesti alla società civilizzata e illuminata, Turgot indica una moltitudine di popoli che si trovano ad uno stadio inferiore della storia universale) attirati dalle ricchezze, possono attaccare lo stato illuminato, e piegarlo. Ma ciò non riesce a frenare il processo di perfezionamento dell’uomo. Infatti, i barbari stessi, sotto l’influenza dei lumi, adotteranno la civiltà del vinto.

Dunque, se nel breve periodo il movimento che conduce al progresso sembra ostacolata e frammisto a decadenze, nel lungo periodo le dialettiche interne al sistema conducono inevitabilmente al perfezionamento.

La stato attuale del mondo, caratterizzato da un differente sviluppo delle nazioni, ci mostra i vari i vari stadi, le varie tappe percorse dall’umanità. “L’europa è ancora barbara: ma le sue conoscenze, portate ai popoli più barbari ancora, rappresenta per questi un progresso immenso” (Ivi, p. 23).

Ma quali sono i fattori che portano a differenti sviluppi? Turgot ci dice che “nelle età primitive tutti gli uomini di genio hanno di fronte pressappoco gli stessi ostacoli e le stesse risorse” (Ivi, p. 7).

Determinate condizioni (tra le quali non riscontriamo quelle climatiche), rendono possibile il superamento degli ostacoli e il conseguente utilizzo delle molteplici risorse.

Da qui nascono le inuguaglianze del progresso delle nazioni, che si riflettono sia nelle scienze che nelle arti.

Tutte le scienze nascono da una conoscenza sensoriale. Vista l’infinità degli oggetti di cui si occupano, le discipline scientifiche sono illimitate. Tra queste, la matematica è l’unica che può essere considerata oggettiva, scevra da errori. Nella matematica l’intelletto deduce una serie di proposizioni, che vanno interconnesse. I fenomeni sensoriali studiati dalla fisica invece si analizzano attraverso le categorie di forma e mutamento. Tale studio deve avvalersi necessariamente del metodo induttivo. Infatti sarà proprio dalle molteplici conoscenze particolari che potremo approdare a soddisfacenti e veritieri assiomi.

Discorso diverso per il campo artistico, il quale, pur essendo imitatore della natura, è delimitato.

La delimitazione consente l’individuazione di un limite fisso, di perfezione e armonia, raggiunto dai grandi geni del secolo di Augusto, che fungono da modelli per i posteri.

Ciò che accomuna ogni forma artistica è il suo concorrere alla conservazione della memoria del mondo.

Turgot vede nella poesia l’arte di dipingere per mezzo delle parole. La sua perfezione dipende dal genio della lingua che impiega. Proprio in Grecia, ove fu utilizzata una lingua che riuniva in sé armonia, ricchezza e varietà, vennero prodotti capolavori quali l’Iliade e L’Odissea.

Le lingue, perfezionabili nel tempo, sono “la misura delle idee degli uomini […]. Per esprimere le prime idee bisognò ricorrere a metafore” ( Ivi pag. 14 ) .

Le idee sono linguaggio, segni attraverso cui conosciamo l’esistenza degli enti.

Attraverso le parole noi uniamo idee, le mettiamo in relazione tra loro. In quanto possessori di segni potenzialmente infiniti, l’uomo padroneggia tutte le idee.

Le idee sono la garanzia dell’intelligibilità dell’intero universo, la conferma dell’esistenza di una razionalità in grado di conoscerlo, mossa da stimoli naturali che spingono gli uomini ad automigliorarsi. Questi stimoli sono definiti passioni Turato ne individua due: Quelle delicate, sempre necessarie, e che si sviluppano insieme al processo storico dell’umanità; e quelle violente, anch’esse necessarie poiché riconducono alle passioni delicate, dando loro nuovo e vitale impulso.

 

 

Le riflessioni sulle ricchezze

 

 

Turgot è un attento osservatore degli eventi economici del suo tempo, da cui tenta di ricavare le leggi generali che regolano i rapporti produttivi, il commercio e le modalità di appagamento dei bisogni. Proprio questi ultimi spingono gli uomini a produrre e scambiare merci. Una vera e propria divisione sociale del lavoro, che spinge i soggetti a specializzarsi in una particolare mansione, garantisce una produzione variegata, in grado di sopperire alle eterogenee richieste.

Per facilitare gli scambi si è dato al denaro il ruolo di equivalente di ogni merce. Infatti esso funge sia da misura sia da rappresentazione del valore delle merci.

Ma che cosa determina il valore? Turgot, come tutti gli economisti del suo tempo ( ma nemmeno quelli a noi contemporanei riescono a dare una risposta completa e soddisfacente a questo spinoso quesito ), non conosce esattamente la nozione di valore, o meglio lo percepisce solo come valore d’uso. Nell’agricoltura il valore si manifesta immediatamente come  pur done del la nature, come eccedenza di valori d’uso.

È bene ricordarlo: Turgot, nonostante non sia un esponente della fisiocrazia, dottrina economica affermatasi in Francia attorno al 1750, condivide con questa l’opinione che la terra sia fonte di ogni ricchezza. Infatti Turgot ci segnala che esistono, per il proprietario che non lavora personalmente la terra, ben cinque metodi utili a ricavare un reddito dallo sfruttamento dei terreni: la coltura per mezzo di operai salariati; mediante lo sfruttamento di schiavi; cedendo i fondi in cambio di una rendita; attraverso la mezzadria; affittando i terreni ( quest’ultimo è il più vantaggioso per il proprietario ). Questo modo di produzione e distribuzione è il risultato di un lungo processo di privatizzazione delle terre comuni. Dalla lettura delle opere del francese non possiamo stabilire di preciso in che epoca questo evento viene collocato. Possiamo solo dire che ad un certo punto gli uomini iniziarono a recintare dei terreni, divenendone così proprietari.

La privatizzazione fu inevitabilmente iniqua: i terreni non hanno la stessa fertilità, un uomo forte riesce ad ottenere una porzione di terreno maggiore ecc.

Questa disuguaglianza  portò alla distinzione tra il coltivatore ed il proprietario. Quest’ultimo infatti, con il progresso della società, e l’affermazione di una legislazione in grado di disciplinare i singoli, potè iniziare a “pagare degli uomini per coltivare la sua terra” ( TURGOT Formazione e distribuzione delle ricchezze, tr.it. di Roberto Finzi, Torino 1978 pag.109 ). Ecco dunque la nascita delle classi sociali. Quelle contemporanee a Turgot sono tre: produttrice (gli agricoltori); stipendiata (artigiani e lavoratori), e disponibile (non avendo necessità di procurasi i mezzi di sussistenza, possono essere impiegati nel campo dell’amministrazione pubblica). Tra queste, un ruolo di preminenza spetta di fatto all’agricoltore.

Tale primato non “trae origine da onori o dignità: è un primato dovuto alla necessità naturale”( Ivi, pag. 106 ), in quanto solo la terra è l’unica fonte di ricchezza. I prodotti ricavati con l’agricoltura, nell’atto del libero scambio, consentono al venditore di ricavare valore aggiunto.

Per Turgot, tale plusvalore è visto come pur done de la nature, eccedenza concessaci dalla terra, che permette al proprietario di acquistare la forza-lavoro degli altri membri della società. Ma per quale motivo il lavoro agricolo è l’unico realmente produttivo? Perché è il presupposto, il sostrato che garantisce la possibilità di tutte le altre attività economiche, dal quale ricaviamo ricchezza in abbondanza. La produttività dei terreni aumenta in maniera direttamente proporzionale allo sviluppo tecnico. L’industria è vista come una mera appendice del settore primario, e per questo ci dice Marx, attento lettore degli economisti borghesi: “Laissez faire, laissez aller; illimitata libertà di concorrenza, eliminazione dell’industria di ogni ingerenza statale, dei monopoli ecc. Poiché l’industria non crea niente, non fa che trasformare in altra forma i valori che l’agricoltura le ha fornito, non aggiunge a questi nuovo valore, ma si limita a restituire in altra forma, come equivalente i valori che le sono stati forniti, è naturalmente desiderabile che questo processo di trasformazione proceda senza disturbi e il più a buon mercato possibile; e ciò viene realizzato solo per mezzo della libera concorrenza, abbandonando la produzione capitalistica a se stessa” ( K. MARX Storia dell’economia politica – Teorie sul plusvalore a cura di Giorgio Lunghini, Roma 1993 pag. 20) e ai suoi lauti guadagni.

In una lettera a Hume, Turgot afferma che il “prodotto totale è diviso in due parti: una destinata alla riproduzione[…]. L’altra è il prodotto netto che il coltivatore dà al proprietario”. Per questo i profitti non vanno tassati: essi verranno necessariamente rinvestiti in agricoltura o negli altri rami. Malgrado le loro ineguaglianze le varie attività riescono a mantenersi in equilibrio, e a dare stabilità all’economia. L’autore ne individua cinque: l’acquisto di una proprietà terriera; di imprese industriali o manifatturiere; diventare coltivatore; investire capitale monetario in imprese commerciali; prestare denaro ricavando così un interesse annuale.

Tuttavia, la totalità delle ricchezze sono sempre fornite dalla terra.

Il pensiero economico di Turgot, apparentemente lineare e coerente, è profondamente contraddittorio. Già Marx nella sua “Storia dell’economia politica – Teorie sul plusvalore” ce lo sottolinea. Infatti, se da un lato ha avuto il grande merito di aver concepito il modo di produzione capitalistico come una forma fisiologica e necessaria del processo storico, dall’altro lato ha creduto erroneamente che fosse eterno e naturale, e non ha compreso che il pur done de la nature è semplicemente la parte di lavoro non pagato al lavoro salariato.

Dice Marx: il venditore “vende ciò che non ha comprato. Turgot rappresenta in un primo tempo questa porzione non comprata come  pur done de la nature. Ma vedremo che gli si trasformerà nel plusvalore dei labourers, plusvalore che non è comprato dal propriétaire, ma che questi vende nei prodotti agricoli” (Op. cit. pagg. 22-23 ).

Questa notevole contraddizione non permette a Turgot di dare una risposta precisa alla questione inerente il costo delle merci sul mercato. Sappiamo che proprio nella circolazione il proprietario raccoglie valore aggiunto, ma l’autore deve ancora stabilire quale sia il fattore che determina il prezzo di un dato prodotto. Nella “Formazione e distribuzione delle ricchezze”  afferma che è determinato dalla legge della domanda e dell’offerta. In una lettere recapitata a David Hume aggiungerà però che esiste anche un prezzo fondamentale, pari al costo della sussistenza e della riproduzione della forza lavoro, sotto il quale non si può scendere.

Nonostante ciò Turgot rimane un grandissimo filosofo, che con passione ha accettato le sfide del suo tempo, rimanendo sempre fedele alla causa liberista, malgrado la sconfitta.


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