GIANNI VATTIMO

A cura di Diego Fusaro



POESIA E ONTOLOGIA

1. Poesia e ontologia fu scritto nel 1967 e poi riedito nel 1985, in un clima culturale ben diverso da quello attuale e con obbiettivi polemici, quali il neo-marxismo e lo strutturalismo, che hanno ormai perso quasi totalmente la loro rilevanza. Benché la situazione – nota lo stesso Vattimo nella prefazione alla seconda edizione - dal punto di vista del dibattito dell’estetica, della critica e della poetica sia molto mutata, il libro non ha perso d’attualità nella sua tesi centrale: “la rivendicazione della portata ontologica dell’arte e della poesia”(p.5). Il libro non si limita, infatti, a proporre una teoria estetica, ma applica all’estetica una ben più ampia posizione teorica in merito a problemi capitali della filosofia, quali il senso della verità e dell’essere. Verità ed essere, e loro relative semantizzazioni, fanno da sfondo a tutto il discorso di Vattimo, rendendolo immune dallo scolorire delle mode e del tempo.
Occorre qui, in via preliminare, abbozzare la posizione di Vattimo su verità ed essere. La verità, nella tradizione metafisica, è stata sempre intesa come il rispecchiamento di un dato, l’adeguazione alla presenzialità dell’essere: da una parte l’essere nella sua già data, già completa presenza, e dall’altra il pensiero che tenta di rispecchiarlo, e che tuttavia in questo rispecchiamento non aggiunge nulla all’essere. Vattimo, raccogliendo suggestioni heideggeriane, nicciane e gadameriane, intende la verità come evento, come “l’aprirsi di orizzonti storici entro cui gli enti vengono all’essere”(p.123); e, come tale, essa deve accadere e “non è nulla al di fuori o al di sopra di tale accadere”(p.123). La verità è, in latri termini, la posizione di un mondo, di un orizzonte di significati entro cui si può dare vita, storia, cultura, sviluppo: le verità coincide, niccianamente, con le condizioni di affermazione della volontà di potenza, come dispiegamento di senso e di mondo. L’essere, anch’esso, avrà struttura eventuale, e non già presenziale: esso è il declinarsi delle sue incarnazioni, cioè delle epoche, dei mondi in cui, ad un tempo, si propone e si ritrae dando vita e alimento agli enti che popolano questi mondi; ma esso non è nulla al di fuori di questo suo declinarsi, esso non è il permanente al di sotto delle sue incarnazioni di mondo, poiché l’essere è sempre essere dell’ente, di ciò che entro un mondo viene ad essere. Chiariamo che il termine mondo non indica la totalità del dato, ma l’orizzonte, l’ordine di apertura di una prospettiva sotto la quale si raccolgono gli enti e i loro rinvii significativi. Entro un mondo gli enti hanno l’essere, e l’essere si dà, si mostra pur ritraendosi, sempre e solo nel mondo: l’essere può manifestarsi in altri mondi, ma mai al di fuori dell’accadere della mondità. E’ significativo, a questo proposito, che Vattimo giudichi il principio “nulla si crea e nulla si distrugge” come espressione della vecchia metafisica: l’essere infatti si stratifica e aumenta, nella misura in cui accade ad esso di mostrarsi in nuovi e diversi mondi, e questo suo contenuto che si mostra non era già altrove, in precedenza, ma si costituisce in assoluta novità.
Fatte queste precisazioni introduttive possiamo passare ad affrontare il corpo del testo. Il filo argomentativo del discorso di Vattimo si chiarisce se immaginiamo che esso risponda a quattro domande poste da altrettanti lettori: un filosofo, un artista, un critico e un comune fruitore d’arte. Il filosofo domanderà: in che senso la poesia ha che fare con l’ontologia? L’artista: che cos’è il fare artistico? Il critico: come devo leggere, inteprertare, spiegare un’opera d’arte? Il fruitore, infine: in che consiste la fruizione artistica? La risposta che sarà data al filosofo è quella decisiva e che deciderà della plausibilità delle risposte date agli altri. Per questa ragione ci pare conveniente rimandarla alla fine, benché essa sia operante sia all’inizio che alla fine. Per ora basti dire questo: la poesia è ontologia perché è aperta all’essere, perché il suo radicamento non è limitato alla coscienza dell’uomo ma a qualcosa che la trascende, l’essere appunto. Problema sarà definire i caratteri di questa apertura all’essere e dell’essere stesso.

2. Il fare artistico
Prima di determinare la posizione e il significato del fare artistico Vattimo analizza il fenomeno del proliferare delle poetiche nel 900: esse non sono precettistiche stilistiche, ma hanno piuttosto di mira proprio la determinazione di quel significato dell’arte che stiamo carcando; le poetiche del novecento, d'altronde, hanno uno spiccato carattere ontologico: considerano l’arte come il luogo in cui la verità è raggiunta o istituita; ed hanno anche un significato epistemologico: intendono determinare la condizione disciplinare e le pretese che l’arte può rivendicare entro lo spazio della cultura e, più ampiamente, della vita. Perché gli artisti sentono il bisogno, quasi al punto di soffocare il loro fare artistico, di munirsi di un apparato epistemologico che li protegga e li giustifichi? Una prima spiegazione potrebbe essere che l’artista, mutato il rapporto con il proprio pubblico nella società industriale e di massa, e avendo perso un contatto immediato con i committenti, tenta di recuperare una propria visibilità rivendicando il diritto alla sua esistenza; una seconda spiegazione potrebbe essere che l’artista, trovandosi di fronte all’impellenza, quasi ossessione, di produrre un‘opera originale, non veda altro mezzo che la fondazione di un linguaggio completamente nuovo che non si rifaccia a nessuna tradizione precedente, un linguaggio che per dirsi tale ha bisogno di un quadro teorico-epistemologico di natura, daccapo, giustificativa. Vattimo vuole andare al di là di queste spiegazioni che, a suo parere, non colgono l’aspetto decisivo e muove da una considerazione elementare: le opere d’arte contemporanea, per essere fruite, hanno bisogno di un cappello critico che le introduca e le spieghi: il linguaggio dell’arte necessita della mediazione del linguaggio-parola, non è più autosufficiente: le poetiche aprono proprio quell’ambito di comprensibilità che dischiude l’intelligibilità del linguaggio dell’opera d’arte e colma la sua insufficienza comunicativa. Sorge un’altra domanda: perché il linguaggio dell’arte deve essere supportato dal linguaggio-parola? La risposta a questa domanda ci porterebbe direttamente alla discussione sulla fruizione artistica; per quel che fin qui interessa occorre notare che l’artista, nel 900, è portato a farsi epistemologo di se stesso: il fare artistico sembra così legarsi alla giustificazione di se stesso.
Veniamo ora alla determinazione più diretta del fare artistico, il quale ha che fare con la novità, con il bello, con la verità e con l’essere. La trama concettuale in cui si iscrivono queste quattro parole è decisiva. Cominciamo dalla prima. In riferimento alla teoria della formatività del suo maestro Luigi Pareyson, Vattimo sostiene che l’opera d’arte è sì nuova, ma non è un fatto arbitrario: essa possiede infatti una legalità rigorosa. C’è, in altri termini, una legge che decide della struttura dell’opera e che la trascende: tale legge però non può precedere il farsi dell’opera, pena il venir meno la novità dell’opera. Ecco che fa la comparsa la categoria del formare, cioè un fare che nel suo farsi inventa la regola, la legge, del suo fare. La novità dell’opera è salvaguardata dal fatto che la legge è istituita dall’opera stessa; accanto a questa novità, che quindi ben lungi dall’arbitrarietà, sta la legalità dell’opera, carattere indispensabile per dare senso al giudizio estetico e alla categoria del bello.
L’opera sarà, infatti, giudicata proprio in riferimento alla legge che porta con sé: se è ciò che la sua legge impone che sia, essa sarà giudicata bella. La bellezza è quindi la riuscita, la conformità dell’opera alla legge.
I concetti di novità come istituzione di una nuova legge e di bellezza come riuscita, rinviano entrambi al radicamento ontologico dell’opera d’arte. L’opera d’arte, in quanto istituente una nuove legge, sarà atto fondativo di un mondo, sempre da intercedersi, non come totalità del dato, ma come orizzonte di senso entro cui gli enti sono ordinati ed hanno significato: ed è proprio la legge istituita a garantire la legalità del nuovo mondo. La novità dell’opera diventa così l’originarietà di un nuovo mondo, che non ha nulla alle sue spalle perché è a partire da esso che si costituiscono tutte le relazioni, a cominciare da quelle linguistiche tra segno e significato. Se la legge è la struttura di legalità del nuovo mondo, l’opera d’arte che è conforme alla legge, rappresenta il primo ente di questo mondo: la relazione di conformità e di bellezza non è di esaurimento, ma di avvio di una generazione di enti che prenderanno senso del mondo appena istituito.
Quanto alla relazione tra opera e verità, con Heidegger Vattimo propone che l’opera d’arte sia la messa in opera della verità, ma non nel senso che essa manifesti o rispecchi la verità: se così fosse continueremmo ad “assumere la verità come conformità ad un dato che può garantire la validità della conoscenza e delle manifestazioni della verità proprio in quanto è dato una volta per tutte, stabilito, sottratto all’eventualita”(p.123). La verità va pensata, invece, come evento: “è l’aprirsi degli orizzonti storici entro cui gli enti vengono all’essere”; essa non è nulla al di fuori del suo accadere come prospettiva di mondo. Per cui l’opera d’arte mette in opera la verità, in quanto è nel mondo da essa fondato che la verità si mostra: il rapporto tra opera e verità non è quindi estrinseco, perché la verità non è se non il suo accadere secondo prospettive di mondo aperte.
La verità potrebbe sembrare, in questa prospettiva, la semplice formalità legislativa e di mondo istituita dall’opera e la fedeltà ad essa: non bisogna però dimenticare il radicamento ontologico dell’opera d’arte, collocata, secondo una metafora heideggeriana, nel Riss(scissura) tra Welt(mondo) e Erde(terra). Il mondo è il sistema di orizzonte degli enti; la terra è “la riserva permenente di questi significati, la base ontologica del fatto che l’opera non si lascia esaurire da nessuna informazione”. (p.124). L’opera d’arte istituisce un mondo e, come tale, dà inizio alla storia delle sue inesauribili interpretazioni, delle sue abitazioni, secondo un senso che sarò chiarito tra poco: per rendere ragione di questa inesauribilità dobbiamo ammettendo che il mondo dell’opera si radichi nella terra, in uno sfondo ontologico che lo precede; ci si potrebbe a questo punto domandare: che cos’è questo sfondo ontologico, questa terra, se non quell’essere già dato, già posto, della vecchia tradizione metafisica? In realtà quello sfondo ontologico è “una riserva di significati”, la pura possibilità del loro essere esibiti in un mondo: in quello sfondo ontologico le cose non stanno, se non nella loro disposizionalità ad esser nel mondo, unico luogo in cui propriamente stanno. L’essere, conviene ribadirlo, non è la presenza posizionale del dato, visibile da diversi mondi-orizzonti, ma è solo i suoi mondi, orizzonti di illuminazione entro i quali gli enti ricevono l’essere; l’apertura di una nuova prospettiva di mondo, evento in cui consiste il fare artistico, non è un evento ontico, cioè di riprospettazione degli enti entro lo stesso mondo, ma è un evento dell’essere, segna una nuova epoca dell’essere.

3.La critica d’arte
La critica si è sempre mossa nella fedeltà alla categoria dell’Aufhebung, cioè della spiegazione-riduzione dell’opera d’arte a qualcosa che la preceda o la fondi: si può ridurre l’opera alla situazione storico-economico-sociale in cui si colloca, alla situazione psicologica dell’artista, oppure si può leggerla badando esclusivamente alle sue strutture stilistiche. In entrambi i casi, e per la critica che riduce l’opera a uno sfondo che la precede e per quella stilistica, l’opera è un punto di arrivo, una conclusione individuante di fatti economici, psicologici, storici o tecnico-linguistici. L’opera è così sistemata, demitizzata, razionalizzata, è ridotta ad un evento del passato: sia questo passato la situazione storica o l’orizzonto tecnico formale che l’opera si impegna ad esprimere al massimo grado.
Vattimo cerca invece un approccio all’oggetto, in questo caso all’opera d’arte, che non lo riduca ad un orizzonte più ampio, e così facendo, lo distrugga. E’ posto così il problema di un’ermeneutica che si metta a disposizione del suo oggetto, che lo lasci essere. Va ribaltato, secondo Vattimo e sulla scia di Heidegger, il rapporto tra opera e lettore di essa: il lettore deve stare dentro l’opera, deve provare ad abitarvi, e non viceversa l’opera abitare nella coscienza fruente del lettore. Proprio perché l’opera è istituente un mondo, in tale nuovo mondo il lettore deve provare a vivere. Esempi di questo vivere ed abitare del lettore e della critica nell’opera possiamo ritrovarli nell’atteggiamento della cultura occidentale nei confronti della Bibbia, tanto che “la storia dell’Occidente – scrive Vattimo - è la storia delle interpretazioni della Bibbia”(p110). E interpretare un’opera significa approfondire le direzioni di significato che il mondo che essa istituisce ci offre: essa crea il mondo, noi, suoi interpreti, dobbiamo viverlo, costruirlo, svilupparlo, prendercene cura, abitarlo appunto. L’opera, quindi, più che costituire un punto di arrivo, è un punto di partenza per nuove costruzioni-abitazioni: è rivolta al futuro nei suoi sviluppi, e segna, in quanto atto istitutivo di mondo, l’escaton, l’orizzonte confinale, di questi sviluppi. Solo tenendo conto di questo una ermeneutica non riduzionistica può lasciar essere l’opera.
A questo punto Vattimo si trova a dover affrontare una delicata difficoltà: come può l’opera essere intesa quale fondazione di un mondo e come si può pretendere che il compito del critico sia dar voce alla necessità del suo abitarlo? Non è questo statuto dell’opera una mitizzazione dell’opera? Certo, non tutte quelle che consideriamo opere d’arte posso essere aperture di nuovi mondi, ma ciò non toglie che la peculiarità dell’opera d’arte sia proprio questo istituire nuovi mondi: come a dire che l’istituire nuovi mondi è un carattere regolativo di ogni opera d’arte, anche se non tutte riescono a realizzarlo.

4.La fruzione artistica
Nella storia dell’estetica l’incontro con l’opera d’arte è definito in due modi: contenutistico o formalistico. Tale opzione sottende altrettanti modi di intendere la verità: quello corrispondentista del vero come conformità al dato, e quello coerentista del vero come correttezza sintattica. L’arte, nella tesi contenutistica, manifesterà il vero e l’incontro con l’opera sarà proprio questa manifestazione;nella tesi formalistica, l’opera si imporrà nella sua coerenza di struttura sintattica. In entrambi casi si pongono alcuni problemi problemi: per la tesi contenutistica l’opera è un tramite di verità e, concluso il suo compito di metterci in contatto con la verità, diviene inessenziale, laddove l’arte, per evidenza, si impone sempre come sporgente su quella verità che comunica; per la tesi formalistica la fruizione si risolverebbe nella comprensione dei meccanismi sintattico-formali che sottendono al dispiegarsi dell’opera: eppure, anche qui, la comprensione dei meccanicismi non fa cessare il nostro interesse per l’opera, il che sta ad indicare che essa non è solo i suoi meccanismi. Si deve quindi evitare, da un lato, di rendere estrinseco il rapporto opera e verità e, dall’altro, di ridurre l’opera alla pura fedeltà formale a se stessa.
Se la concezione di verità non è più quella di rispecchiamento, ma di accadimento di mondi, secondo quanto sopra detto, l’opera d’arte, proprio in quanto apertura di un nuovo mondo, intrattiene con la verità un rapporto non estrinseco: solo nel mondo dell’opera la verità si mostra ed è possibile, e non fuori ed indipendentemente da esso. D’altra parte la verità dell’opera non può essere la fedeltà alla struttura legalistica del mondo istituito: il legame con l’essere, con la terra, non deve essere dimenticato; l’opera d’arte è il punto di partenza per infinite interpretazioni, per infinite visioni del suo mondo perché è in contatto con la riserva di possibilità significative in cui l’essere, nella sua forza originante, consiste.
Fruire un’opera d’arte significherà, quindi, vivere nella sua luce, “riorganizzare la propria esistenza e la propria visione del mondo in base all’apertura dell’essere che nell’opera è accaduta”(p.127); in una parola: dialogare con essa. L’opera stimola e suggerisce percorsi di approfondimento del suo mondo e diventa così una entità dotata di personalità e di capacità di mondo, mostrando singolari parallelismo con il dasein.
E’ così anche chiarita la domanda lasciata in sospeso sul perché le opere hanno bisogno di un linguaggio-parola che fondi il loro linguaggio: ne hanno bisogno non in quanto quest’ultimo vada ricondotto ad un altro linguaggio, ma in quanto istituiscono un nuovo mondo, un nuovo plesso di significati e suscitano attorno a sé un dibattito. Il proliferare delle poetiche nel 900’ è il segno di questo dibattito e della implicita consapevolezza del carattere fondante di mondi dell’opera d’arte.

5.Poesia e ontologia
Siamo così finalmente giunti al capo di tutte le questioni: che cosa hanno che fare poesia e ontologia? Per porre ontologicamente il problema dell’arte e della poesia, sostiene Vattimo, bisogna “sviluppare un discorso che non dimentichi quella che Heidegger ha chiamato la differenza ontologica, ma anzi assuma tale differenza a proprio tema centrale” (p.9). Differenza ontologica è il rapporto che separa l’essere e gli enti: Vattimo individua due caratteri di tale differenza, l’uno negativo e l’altro positivo, sintetizzabili così: l’essere non è l’ente e l’essere è solo l’essere dell’ente.
L’essere non è l’ente, perché fornendo l’orizzonte entro cui gli enti vengono ad essere, si dà e si cela ad un tempo: è questa l’epocalità dell’essere, il suo sospendersi per lasciar essere gli enti. L’essere, ciò per cui gli enti sono, non va mai confuso con gli enti stessi, la loro somma o il massimo ente tra di essi. Tale carattere negativo del rapporto essere-ente fa sì che qualsiasi indagine determinata sulla struttura degli enti non possa dire nulla dell’essere. Ma esiste anche un lato positivo del rapporto: il celarsi o sospendersi dell’essere “non è certo concepibile come un essere-presente in qualche luogo che non sia il mondo dell’ente, come se davvero l’essere fosse qualcosa o qualcuno che c’è, in qualche luogo, ma che si nasconde”(p.21); possiamo quindi affermare che l’essere è la sua epochè, è “l’illuminazione dell’ambito entro cui gli enti appaiono”(p.23): la forza illuminante dell’essere è solo nel mondo degli enti, l’essere è solo essere dell’ente.
Dall’accentuazione dell’aspetto positivo della differenza ontologica possono venire, secondo Vattimo, numerose indicazioni per caratterizzare una estetica come ontologica. Se l’essere non è “una struttura tutta realizzata, facente da supporto, da sostanza, agli enti”(p.22), la ricerca filosofica dell’essere consisterà nell’individuazione “dei modi di accadere attualmente degli enti nell’orizzonte dell’essere”. E analogamente la ricerca estetica consisterà nel descrivere i modi di accadere attuali del fenomeno estetico. L’estetica ontologica non sarà quindi una posizione che si sostituisce a quelle delle estetiche della tradizione filosofica, e neppure che tenta, hegelianamente, di dialettizzarle nel tutto dello sviluppo storico. Non si tratta di accedere all’essenza del fenomeno artistico ed estetico al di là dei suoi modi concreti di accadere e neppure di cogliere olisticamente la totalità di questi modi di accadere. L’essenza che l’estetica di Vattimo cerca ha carattere eventuale, nel senso di una perenne rideterminazione della sua struttura: è sufficiente descrivere tutto ciò che ha che fare con l’arte, teorizzazioni estetiche, ma anche poetiche, manifesti, singole riflessioni su singole opere, come rappresentativo dell’essenza dell’arte, nella consapevolezza che essa non è nulla al di fuori delle sue incarnazioni accadute. In questo senso si può fare estetica non solo in sede di riflessione filosofica, ma anche in altri ambiti, poiché tutti illuminano l’essenza dell’arte: pretendere che l’estetica sia solo filosofica è pretendere che l’essere e il sapere abbiano una struttura gerarchizzata, definitiva, sistematica; l’essere è invece stratificazione di esperienze e di modi, tra i quali sta anche,,ma tra gli altri, la riflessione filosofica estetica.
Fin qui si è fatta valere l’esigenza di considerare l’arte come evento la cui a essenza non è restituita da una singola posizione, ma da ogni posizione, filosofica e non. Questa esigenza deve però accompagnarsi alla consapevolezza dell’apertura all’essere di ogni riflessione estetica: si tratta di mostrare che a tutti i livelli della descrizione l’essere si fa presente, e questo è il carattere eventuale ed epocale dell’essere.

6.
Non possiamo trattenerci, in sede critica e conclusiva, dal sottoporre alcune perplessità in merito alle tesi del libro. La prima riguarda il rapporto tra poetiche e opere d’arte: il proliferare delle poetiche nel 900, si è detto, è il segno del dibattito, del dialogo che sorge intorno all’opera, proprio in quanto istitutiva di un nuovo mondo; a noi sembra, invece, che il fenomeno delle poetiche fondi e disponga le circostanze nel contesto del “vecchio mondo” per creare il nuovo mondo che l’opera inaugurerà: il fenomeno delle poetiche non sarebbe tanto un modo dell’abitare e del dialogare con l’opera, ma ciò che rende possibile, oltre il mondo dell’opera, la fondazione del suo mondo. Se così è, il linguaggio-parola assume un carattere super-eventuale, sottratto alla relatività dell’ambito di mondo e diventa ciò che domina la pluralità dei mondi e li mette in comunicazione: una conclusione simile che assegna al linguaggio un valore trascendentale e meta-mondano, peraltro, non dispiacerebbe allo stesso Vattimo; si tratta di capire in che termini, però, giacché se l’essere-liguaggio è dimensione trascendentale, dovrà essere semantizzato in termini di struttura permanente, immutabile, il che è ben lontano dagli intenti di Vattimo. La seconda perplessità riguarda l’apparente contraddizione tra la risposta data al filosofo e quelle date all’artista, al critico e al fruitore: al primo si risponde che ogni fenomeno o posizione artistica è rivelativa dell’essenza cercata, in quanto eventuale e non permanente; ai secondi si risponde determinando l’essenza permanente dell’opera d’arte e del rapporto con essa: dobbiamo forse ritenere che le risposte date ad artisti, critici e fruitori, proprio in quanto date a non-filosofi, si siano limitate a determinare provvisoriamente l’essenza permanente del fenomeno, salvo poi precisare, filosoficamente, che una essenza tradizionalmente intesa non può esserci? Questo significherebbe, allora, che solo al filosofo può essere consegnata una essenza nel suo carattere autentico, cioè eventuale, mentre con i non-filosofi si deve procedere nel modo tradizionale di determinazione dell’essenza: ma questo non significa una gerarchizzazione del sapere, un imperialismo della filosofia come sapere universalmente fondante, tutti caratteri che si volevano eliminare?
La terza perplessità è stata già formulata in termini di mitologizzazione dell’opera d’arte. Vattimo, per rispondere a questa obiezione, sostiene che poche opere d’arte possono essere considerate come fondatrici di mondo, e tra queste ritroviamo, ad esempio, la Bibbia o la Commedia di Dante. Ma nemmeno queste possono essere considerate fondatrici di mondo: se proviamo ad abitare il mondo della Commedia ci rendiamo subito conto di essere circondati da un tessuto simbolico che non possiamo capire, vivere, utilizzare, se non in riferimento a qualcosa di esterno al mondo dell’opera, cioè il contesto storico. Vattimo ci taccerebbe di sociologismo spicciolo, ma si tratta allora di capire in che termini un’opera è abitabile e se essa può costituirsi anche come territorio ostile, inabitabile, radicalmente refrattario a qualsiasi tentativo di ermeneutica: non è un fatto secondario che un’opera sia più abitabile in un periodo storico e meno in un altro; questo fa pensare che il mondo di ogni opera sia inscritto sempre in un mondo più ampio secondo una geometria concentrica di mondi. Tuttavia, la definizione dell’opera come fondazione di mondo ci sembra calzante, in via del tutto eccezionale, a proposito di opere collettive, vere “enciclopedie tribali”, come i poemi omerici o la Bibbia: in questo caso l’opera rappresenta la genesi culturale di una civiltà e di un popolo, la struttura del suo ethos.
L’ultima perplessità riguarda la semantizzazione dell’essere che Vattimo propone. Per un verso sembra che l’essere sia solo il suo eventualizzarsi, ma per l’altro l’essere è identificato con quella riserva di significati, con la forza originante della terra. Se nel primo caso è fatta valere l’esigenza di distaccarsi dalla tradizione metafisica che intende l’essere come presenza data, nel secondo caso sembra che non ci si possa staccare da questa prospettiva presenziale, tanto che per rendere ragione del divenire delle interpretazioni entro il mondo, si deve postulare una possibilità permenante di significati oltre l’accadere dell’evento e del mondo: certo questo “oltre” non ha i caratteri della attualità presenziale, ma quelli della possibilità presenziale, il che non toglie che sia necessario ammettere un già-dato,un già-posto, pur nella sua accezione di posizione di possibilità.

Marcello Di Bello



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