GIANNI VATTIMO

A cura di Antonino Magnanimo


"Caduta l'idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità "locali" - minoranze etniche, sessuali religiose, culturali o estetiche- che prendono la parola, fìnalmente non più tacitate e represse dall'idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti. " ("La società trasparente")

IL PENSIERO DI VATTIMO

Vattimo, in sintonia con Lyotard, è convinto che la modernità abbia ormai fatto il suo tempo e che, se i il postmoderno è l'esperienza di una fine, lo sia, in primo luogo, in quanto esperienza della " fine della storia ", cioè della concezione moderna della storia come corso unitario e progressivo di eventi, alla luce dell'equazione secondo cui nuovo è sinonimo di migliore: " la modernità, nella ipotesi che propongo, finisce quando - per molteplici ragioni - non appare più possibile parlare della storia come qualcosa di unitario " ("La società trasparente"). Ragioni che non sono soltanto di tipo intellettuale o fìlosofico, ma anche di tipo storico-sociale, poiché vanno dal tramonto del colonialismo e dell'imperialismo sino all'avvento della società complessa . Infatti, se il riscatto dei popoli sottomessi ha reso problematica l'idea di una storia centralizzata e mossa dall'ideale europeo di umanità, l'affermarsi del pluralismo e della società dei media ha minato alla base la possibilità stessa di una storia unitaria. Come dimostra il fatto che, se è vero che solo con il mondo moderno, cioè con "l'età di Gutenberg" di cui parla McLuhan, si sono create le condizioni per costruire e trasmettere un'immagine unitaria e globale della storia umana, è altrettanto vero che con la diffusione delle tecnologie multimediali si è avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti: " la storia non è più un filo unitario conduttore, è invece una quantità di informazioni, di cronache, di televisori che abbiamo in casa, molti televisori in una casa " ("Filosofia al presente"). Vattimo è persuaso che i "grandi racconti" legittimanti della modernità facciano parte di uniforma mentis "metafìsica" e "fondazionalista" ormai superata. Di fatto, egli ritiene che il passaggio dal moderno al postmoderno si configuri come un passaggio da un pensiero "forte, ad un pensiero "debole". Per pensiero forte (o metafisico) Vattimo intende un pensiero che parla in nome della verità, dell'unità e della totalità, (o ovvero un tipo di pensiero illusoriamente proteso a fornire "fondazioni" assolute del conoscere e dell'agire. Per pensiero debole (o postmetafisico) intende un tipo di pensiero che rifiuta le categorie forti e le legittimazioni onnicomprensive, ossia un tipo di ragione che, insieme alla ragione-dominio della tradizione, ha rinunciato a una " fondazione unica, ultima, normativa " ("Il pensiero debole"). Vattimo dice di aver mutuato l'espressione "pensiero debole" dallo storico della filosofia Carlo Augusto Viano, il quale aveva parlato di "ragione debole" in senso negativo. Il pensiero debole si presenta esplicitamente come una forma di nichilismo , vocabolo che il filosofo torinese considera " una parola chiave della nostra cultura, una sorta di destino del quale non possiamo liberarci senza privarci di aspetti fondamentali della nostra spiritualità " ("Le mezze verità"). Con questo termine, che Vattimo non usa in maniera spregiativa (" come se fosse un insulto ") bensì in maniera positiva e propositiva, egli intende la circostanza in cui, come aveva profetizzato Nietzsche, " l'uomo rotola via dal centro verso la X ", ossia quella specifica condizione di assenza di fondamenti in cui viene a trovarsi l'uomo postmoderno in seguito alla caduta delle certezze ultime e delle verità stabili. Di conseguenza, egli ritiene che il nichilismo non vada combattuto come un nemico, bensì assunto come nostra unica chance. Infatti, agli uomini del XX secolo non rimane che abituarsi a " convivere con il niente ", ovvero a " esistere senza nevrosi in una situazione dove non ci sono garanzie e certezze assolute ". Da ciò la tesi-programma secondo cui " oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo ancora troppo poco nichilisti, perché non sappiamo vivere sino in fondo l'esperienza della dissoluzione dell'essere " ("Filosofia al presente"), ossia perché siamo ancora affetti da una qualche forma di nostalgia per le totalità perdute. Infatti, il nichilismo compiuto di cui parla Vattimo non è un nichihsmo risentito o nostalgico, ovvero un nichilismo tragico, ossessionato dal crollo degli assoluti e dal pathos del non senso. Esso non è neppure un nichilismo forte, proteso a edificare, sulle macerie della metafisica, dei nuovi assoluti, ovvero un nichilismo che al posto della volontà creatrice di Dio colloca la volontà creatrice dell'uomo. Vattimo è piuttosto un nichilismo debole o della leggerezza, ovvero un tipo di nichilismo che, avendo vissuto sino infondo l'esperienza della dissoluzione dell' essere, non ha nè rimpianti per le antiche certezze nè smanie per nuove totalità. Da ciò il suo carattere costitutivamente postmoderno e la sua consonanza con l'uomo di buon temperamento di cui parlava Nietzsche nella filosofia del mattino descrivendolo come un individuo libero dal risentimento, privo " del tono ringhioso e dell'accanimento: le note fastidiose caratteristiche dei cani e degli uomini invecchiati a una catena ". Ad avviso di Vattimo, gli ispiratori del postmoderno sono Nietzsche e Heidegger: " l'accesso alle chances positive che [...] si trovano nelle condizioni di esistenza postmoderne è possibile solo se si prendono sul serio gli esiti della 'distruzione dell' ontologia operata da Heidegger e, prima, da Nietzsche. Finché l'uomo e l'essere sono pensati, metafisicamente, platonicamente, in termini di strutture stabili che impongono al pensiero e all'esistenza il compito di 'fondarsi', di stabilirsi (con la logica, con l'etica) nel dominio del non diveniente, riflettendosi in tutta una mitizzazione delle strutture forti in ogni campo dell'esperienza, non sarà possibile al pensiero vivere positivamente quella vera e propria età postmetafisica che è la post-modernità ". ("La fine della modernità"). Da Nietzsche Vattimo desume innanzitutto l'annuncio della " morte di Dio " cioè la teoria del venir meno dei vari assoluti metafisici (compresa l'idea di soggetto). Da Heidegger mutua la concezione epocale dell'essere, cioè la tesi secondo cui l'essere non è, ma accade, e la connessa persuasione secondo cui l'accadere dell'essere non è altro che l'aprirsi linguistico delle varie aperture storico-destinali, ossia dei vari orizzonti concreti entro cui gli enti diventano accessibili all'uomo e l'uomo a se stesso Questa ontologia epocale comporta una radicale temporalizzazione dell' essere, cioè, per Vattimo, un suo strutturale indebolimento: " alla fine, il pensiero di Heidegger sembra potersi riassumere nel fatto di aver sostituito all'idea di essere come eternità, stabilità, forza, quella di essere come vita, maturazione, nascita e morte: non è ciò che permane, ma è, in modo eminente [...] ciò che diviene, che nasce e muore. L'assunzione di questo peculiare nichilismo è la vera attuazione del programma indicato dal titolo 'Essere e tempo' " ("Al di là del soggetto"). Il processo di indebolimento dell'essere , la fine della metafisica e il trionfo del nichilismo sono dunque fenomeni intercollegati. Tuttavia, Vattimo è convinto che la metafisica (come il passato in generale) non sia una sorta di " abito smesso ", ossia qualcosa che si trovi completamente alle nostre spalle e con cui non abbiamo più alcun rapporto "destinale". Tant'è vero che per mettere a fuoco l'atteggiamento del pensiero postmetafisico nei confronti del passato egli si rifà alla nozione heideggeriana di Verwindung. Termine che, in virtù della famiglia di significati cui rimanda (guarigione, accettazione, rassegnazione, svuotamento, distorsione, alleggerimento ecc.), allude al rimettersi da una malattia (in questo caso: la metafisica o il passato) nella rassegnata consapevolezza che di essa siamo comunque destinati a portare le tracce. Tracce che si manifestano nel fatto che non possiamo esimerci dall'usare le categorie della metafisica e del passato, sia pure distorcendole in senso debole e postmetafisico, ossia nichilistico (il nesso di accettazione/distorsione che è proprio della Verwindung trova un caso emblematico nella secolarizzazione, la quale, come ha mostrato Weber, è sempre un processo di conservazione/connessa). All'idea di Verwindung è legata un'altra nozione che Vattimo desume da Heidegger: quella di Andenken (rimemorazione). L'atteggiamento rimemorante nei confronti della metafisica non scaturisce da un sentimento nostalgico o reattivo, ma dalla pietas nei riguardi del passato, cioè dall' " amore per il vivente e le sue tracce ". Verwindung, Andenken e pietas significano dunque che noi siamo legati al passato da una sorta di cordone ombelicale ermeneutico. Cordone che possiamo attenuare o distorcere, ma non annullare A questo punto, dovrebbe risultare chiara la fisionomia dell'uomo post-moderno cosi come la concepisce Vattimo. L individuo post-istorico e post-moderno è colui che dopo essere passato attraverso la fine delle grandi sintesi unificanti e attraverso la dissoluzione del pensiero metafisico tradizionale riesce a vivere "senza nevrosi" in un mondo in cui Dio è nietzscheanamente morto, ossia in un mondo in cui non ci sono più strutture fisse e garantite capaci di fornire una fondazione "unica, ultima, normativa" alla nostra conoscenza e alla nostra azione. In altri termini, l'individuo postmoderno è colui che non avendo più bisogno "della rassicurazione 'estrema', di tipo magico, che era fornita dall'idea di Dio" ha accettato il nichilismo come chance destinale ed ha imparato a vivere senza ansie nel mondo relativo delle "mezze verità", con la raggiunta consapevolezza che l'ideale di una certezza assoluta, di un sapere totalmente fondato e di un mondo come sistema razionale compiuto è solo un mito 'rassicurativo' proprio di un'umanità ancora primitiva e barbara. Un mito che non è affatto qualcosa di "naturale" bensì di culturale, ovvero di storicamente acquisito e tramandato. In sintesi, l'individuo post- moderno è colui che avendo assunto fino in fondo la condizione "debole" dell'essere e dell'esistenza ha imparato a convivere con se stesso e con la propria finitudine (cioè infondatezza), al di là di ogni residua nostalgia per gli assoluti trascendenti o immanenti della metafìsica. Negli ultimi anni, Vattimo è andato sempre più accentuando le valenze etiche del pensiero debole, adoperandosi per un " oltrepassamento della filosofia nell'etica ", e mostrando come siano soprattutto connotazioni morali quelle che distinguono l'uomo postmoderno dall'uomo moderno. In particolare, egli è tornato a insistere sulla natura assolutistica e violenta del pensiero forte e sui caratteri tolleranti e non-violenti del pensiero debole. Caratteri che ne fanno una sorta di secolarizzazione dell'etica cristiana della carità. Tant'è che in " Credere di credere " Vattimo si è proposto di focalizzare la stretta connessione tra eredità cristiana, ontologia debole ed etica della non-violenza: " l'eredità cristiana che ritorna nel pensiero debole è anche e soprattutto eredità del precetto cristiano della carità e del suo rifiuto della violenza. Sempre di nuovo 'circoli': dall'ontologia debole [...] 'deriva' un'etica della non violenza; ma dall'ontologia debole fin dalle sue origini nel discorso heideggeriano sui rischi della metafìsica dell'oggettività siamo condotti perché agisce in noi l'eredità cristiana del rifiuto della violenza… ". Inoltre, contrariamente a Lyotard, Vattimo ha continuato a difendere la validità del concetto di postmoderno, mettendolo in stretto rapporto con la società dei mass-media e della comunicazione generalizzata. A questo proposito, la concezione di Vattimo è diametralmente opposta a quella sostenuta a suo tempo da Adorno e dai francofortesi. Non soltanto i media non producono una generale omologazione ma al contrario, " radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen, di visioni del mondo " ("La società trasparente"). Ne segue che proprio l'apparente caos della società postmoderna - la quale, lungi dall'essere una società "trasparente", cioè monoliticamente consapevole di se stessa, è piuttosto un " mondo di culture plurali ", ovvero una società " babelica " e " spaesata " m cui si incrociano linguaggi, razze, modi di vita diversi - costituisce la miglior premessa a una forma di emancipazione basata sugli ideali del pluralismo e della tolleranza ossia a un modello di umanità più aperto al dialogo e alla differenza: a tal proposito, in un articolo comparso nel 2002, Vattimo ha scritto, in modo molto significativo: " ora che Dio è morto, vogliamo che vivano molti dèi. Vogliamo poterci muovere liberamente, ma senza alcuna rotondità classica, tra molti canoni, tra molti stili - di abbigliamento, di vita, di arte, di etica - vivendo come un autentico dovere etico e religioso la 'thlipsis', il tormento della molteplicità ". Vattimo, da un iniziale atteggiamento crìtico, mutuato da Heidegger e dalla Scuola di 'Francoforte, verso la "tecnicizzazione del mondo", è andato assumendo (soprattutto in "La società trasparente") un atteggiamento sempre più "amichevole" nei confronti della società avanzata e dei suoi apparati tecnologici e informatici, al punto da identificare la società postmoderna con la società dei media. I media, precisa Vattimo, non sono lo strumento diabolico di un' inevitabile schiavitù totalitaria (alla maniera del Grande Fratello di Orwell), ma il presupposto in atto del possibile avvento di un'umanità spaesata capace di vivere in un " mondo di culture plurali ". In altri termini, rifiutando l'equazione adorniana "media = società omologata" e insistendo sul nesso fra i media e l'assetto pluralistico della società "complessa", Vattimo ha finito per sostenere, non senza qualche enfasi ottimistica (poi ritrattata), che grazie al " mondo fantasmagorico " dei media si è avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti, al punto che la realtà, per i postmoderni, coincide ormai con le " immagini " che tali mezzi distribuiscono. La perdita di centro e l'erosione del principio di realtà (che attuano, sul piano tecnologico, ciò che Nietzsche e Heidegger avevano preconizzato sul piano fìlosofico), implicando la distruzione degli orizzonti chiusi, pongono le premesse sia per un tipo di uomo che non ha più bisogno di recuperare nevroticamente le figure rassicuranti dell'infanzia, sia per quella liberazione delle differenze che è propria del post-moderno. Soprattutto nella raccolta di saggi "Nichilismo ed emancipazione" (2003), Vattimo mette in luce come, nella società postmoderna, l'emancipazione sia resa possibile dal nichilismo: nella misura in cui il mondo vero diviene favola e gli assoluti vengono meno, si dà la possibilità di quella reale emancipazione che nè il marxismo nè il cristianesimo, in forza del loro dogmatismo, sono stati in grado di realizzare.

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