Riccardo Verni

 Machiavelli e Spinoza: politica, passioni, verità

 

 

 

 

1. Non credere che possa essere quel che non è stato: Machiavelli e il rapporto tra verità e presente

 

Vedo uno spettacolo così ricco di significato, così meravigliosamente paradossale al tempo stesso, che tutte le divinità dell'Olimpo avrebbero avuto motivo per una risata immortale – Cesare Borgia papa ... Mi si intende? ... Orbene, sarebbe stata questa la vittoria alla quale io oggi anelo - : in tal modo il cristianesimo sarebbe stato liquidato!

(F. Nietzsche, L'Anticristo)

 

   Nel tentativo di delineare un confronto tra la razionalità politica di Machiavelli e il razionalismo filosofico di Spinoza, è necessario premettere alcuni punti di carattere  metodologico: per evitare di incorrere nel «rischio di ridursi a una semplificazione dei rapporti»[1] e di rimanere su di una superficiale ricerca del simile, è importante considerare la diversità dei contesti non solo culturali, ma anche storici e individuali dei due autori.

Generalmente, nei testi che si sono occupati di tale confronto, si distingue tra ''presenza esplicita'' di Machiavelli nel testi di Spinoza, e ''presenza implicita''.[2] In quest’ultimo caso, in cui la possibilità di riflessione è ovviamente più ampia, il confronto politico acquisisce argomenti di molteplice natura. Consideriamo, innanzitutto, il  XV celebre capitolo del Principe:

 

Resta ora a vedere quali debbano essere e modi e governi di uno principe con sudditi o con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi, massime nel disputare questa materia, dalli ordini delli altri. Ma sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla imaginazione di essa. E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero. Perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l'usare secondo la necessità.

Lasciando adunque indrieto le cose circa uno principe imaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e principi per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è, che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l'uno fedifrago, l'altro fedele; l'uno effeminato e pusillanime, l'altro feroce e animoso; l'uno umano, l'altro superbo; l'uno lascivo, l'altro casto; l'uno intero, l'altro astuto; l'uno duro, l'altro facile; l'uno grave, l'altro leggieri; l'uno religioso, l'altro incredulo, e simili.

E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone: ma perché le non si possono avere né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l'infamia di quelli vizii che li torrebbano lo stato, e da quelli che non gnene tolgano guardarsi se gli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare. Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali e' possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua, e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà e il bene essere suo.[3]

 

Secondo L. Russo,[4] nel tono «smorzato e prosaico, quale si conveniva al suo temperamento» Machiavelli  manifesta polemicamente la sua consapevolezza di essere «scopritore di nuovi veri»:

 

così dalla prima forma dubbiosa (dubito di non essere tenuto prosuntuoso), si passa a quella assertiva (partendomi dalli ordini delli altri), e poi quella polemica ma ancora reticente (sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende); da questa, a quella polemica aperta, ma ancora generica (mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale ecc.), e infine alla polemica concreta ed aggressiva contro i suoi predecessori.[5]

 

La tensione trepidante di cui parla Russo può dare, in modo puramente indicativo, una prima direzione alla nostra ricerca: delineare il contesto e il terreno di quella che sembra essere una scoperta, uno svelamento del Segretario Fiorentino. In questo modo, è possibile fissare le premesse per un primo accostamento con Spinoza, e con il suo esplicito richiamo alla verità effettuale all'inizio del Trattato politico.[6] Per quanto le parole del XV capitolo possano «effettivamente possedere i caratteri di un nuovo inizio»[7] la comparsa, unicamente in questo luogo, dell'espressione ''verità effettuale'' ci pone in una condizione problematica:

 

infatti - se ne potrebbe a buon diritto dedurre che abbiamo a che fare con un'espressione poco rilevante, che Machiavelli abbia usato impropriamente il termine ''verità'' mentre intendeva dire semplicemente ''realtà''. Ma, all'inverso, possiamo anche ritenere che proprio l' unicità dell'occorrenza nell'intero corpus è segno di un uso appropriato dell'espressione.[8]

 

Oltre a questo, è importante evidenziare un altro fatto: il senso del concetto di verità effettuale non emerge nella sua originalità se rinviamo semplicemente alla cultura umanistica fiorentina o all'ambiente della cancelleria

 

nel quale Niccolò ha lavorato a lungo, o ai suoi amici, e in primis a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, [...] c' è tutta una circolazione di massime e punti di vista, pezzi di teoria e idee assimilabili a quelle poste in esordio del cap. XV del Principe: dall'idea di ''fierezza'' come feritas nella Vita civile di Matteo Palmieri al nesso tra inganno e politica nel Momus dell' Alberti, dall' elogio dell'avarizia nel trattato omonimo di Poggio Bracciolini al noto detto di Cosimo il Vecchio che ''gli stati non si tenevono co' paternostri in mano'',[9] è tutto un sottolineare la distanza tra l'etica tradizionale – ciceroniana come cristiana – e le esigenze reali della politica, anzi direi proprio l'inefficacia di quelle norme alla luce della logica all'opera nella politica reale.[10]

 

Detto questo, dobbiamo ricostruire e ricercare le nuove determinazioni di senso che Machiavelli ha conferito al reale nella politica sotto forma di verità effettuale. Proprio perchè il tentativo risulterebbe poco produttivo se ci si concentrasse unicamente sul contesto culturale, alcune fonti come la celebre corrispondenza tra Machiavelli e F. Vettori sembrano essere più utili al nostro scopo. Essa, infatti, mette in luce alcuni indizi di carattere privato, psicologico, tuttavia densi di un significato intellettuale consistente.

 

Dubito bene che le cose mie non vi abbino a parere dello antico sapore, d'il che voglio mi scusi lo avere col pensiero in tutto queste pratiche abbandonate, et appresso non ne intendere delle cose che corrono alcuno particulare. E voi sapete come le cose si possono bene indicare al buio, e massime queste; pure ciò che io vi dirò sarà o fondato sopra 'l fondamento del discorso vostro, o in su' presupposti miei, e quali se fieno falsi voglio me ne scusi la preallegata cagione.[11]

 

In questa lettera del Niccolò «riducto in villa», non si percepisce unicamente una mera nostalgia, ma qualcosa di più complesso. In queste lettere la meditazione dolorosa, successiva all'allontanamento dalla pratica politica, sembra già essersi risolta in una forma sì intellettuale, ma anche compresa nelle sue cause. La paura di discorrere «al buio», di «essere alieno con l'animo da tucte queste pratiche»,[12] di aver noia nel «discorrere le cose, per vedere molte volte succedere e casi fuora de' discorsi et concetti che si fanno»[13] sono giustificazioni, scuse che Niccolò sembra rivolgere più a se stesso che a Vettori. La riflessione di Machiavelli, dapprima in forma privata, può essersi poi trasformata nel fondamento di un concetto più generale. Vediamo come:

Le lettere a Vettori testimoniano già una consapevolezza: Machiavelli reputa se stesso un uomo politico e continua a pensarsi come tale in virtù dei quindici anni, usando le sue stesse parole, «a studio all'arte dello stato [...] né dormiti né giuocati».[14] Quella che però è da tenere in considerazione, è una serie di parole nelle quali il superamento dello stato emotivo privato sembra concettualizzarsi in forma oggettiva.

 

Ma lasciamo questa parte, e facciàllo prudente,[15] discorriamolo come partito di savio. Dico addunque, faccendo tale presupposto, che a voler nettamente ritrovare la verità di questa cosa, mi bisognerebbe sapere se questa tregua è suta fatta dopo la nuova della morte del pontefice et assunzione del nuovo, o prima, perché forse ci si farebbe qualche differenzia; ma poiché io non lo so, io discorrerò presupponendo che la sia fatta prima. Se io vi domandassi addunque quello che voi vorresti che Spagna avessi fatto, trovandosi ne' termini si trovava, mi risponderesti quello mi scrivete; [...]

Io so che questa lettera vi ha ad parere uno pescie pastinaca, né del sapore vi credevi. Scusimi lo essere io alieno con l'animo da tutte queste pratiche, come ne fa fede lo essermi riducto in villa, et discosto da ogni viso humano, et per non sapere le cose che vanno adtorno, in modo che io ho ad discorrere al buio, et ho fondato tutto in su li advisi mi date voi. Però vi prego, mi habbiate per scusato;[16]

Signore ambasciadore, io vi scrivo più per satisfarvi, che perché io sappia quelo che io mi dica; et però vi prego che per la prima vostra voi mi advisiate come stia questo mondo, et quel che i pratichi et quel che si speri et quel che si tema, se voi volete che in queste materie gravi io possa tenervi el fermo, altrimenti vi beccherete un testamento d'asino, o qualcuna di quelle cose simili al Biancaccino.[17]

 

Non c' è nulla di nuovo nel fatto che, nell'impossibilità di condurre analisi complete, si cerchi di sopperire con delle assunzioni; ciò rientra perfettamente nei termini di una sussistenza psichica: dovremmo infatti rimettere in discussione la reputazione di noi stessi ogniqualvolta vi sia un mutamento dei fatti che ci coinvolgono. Come abbiamo già detto, è per questo che Machiavelli presuppone, assume dei fatti col solo fine di poter continuare a ragionare dello stato, e di non dover dolorosamente mettere in discussione sè stesso. Anche se solo in forma colloquiale, l'esplicitazione del timore di poter scrivere «al buio» lettere che hanno «ad parere uno pescie pastinaca» è indicativa di una consapevolezza già consolidata: la privazione, «l'essere discosto da ogni viso humano» indirizzano Machiavelli verso una progressiva separazione tra ciò che è «fondato sopra 'l fondamento» e ciò che è fondato «in su' presupposti». Cerchiamo ora di chiarire quanto questa separazione abbia contribuito al concetto di verità effettuale presente nel Principe.

«L'esperienza diretta è innanzitutto, quella che il soggetto, nel nostro caso l'individuo e uomo politico Machiavelli, vive di volta in volta personalmente e immediatamente nel corso della sua esistenza»;[18] tuttavia, quando tale esperienza immediata viene a mancare, in realtà variano solamente i mezzi con cui apprendere i fatti. Che ci si basi «in su li advisi» o «in su' presupposti», ciò che Machiavelli designa con ''effettuale'' esclude una contrapposizione dicotomica tra mediato e immediato, tra immaginato e reale. Si tratta infatti di verificare/riscontrare a partire dagli effetti. Ma cosa si intende per essi?

L' ''essere effetto'' non esprime unicamente la natura ontologica di ''ciò che è causato'' ma anche il fatto che nulla si possa dare se non come ''risultante'' di qualcos'altro. Da questo punto di vista, ''essere effetto'' diventa in Machiavelli un concetto generico che non implica necessariamente la verità. Alla luce di ciò, reale e immaginario non sono interpretabili come degli opposti ma come diversi gradi di effettualità, più o meno mediata; all'interno di questa gradualità, la verità non si presenta come semplice ''certezza del reale'', ma come possibilità che un effetto ne produca altrettanti. Solo in questi termini si può comprendere la centralità della reputazione; Consideriamo il capitolo VII:

 

preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti, e quali più presto avevano spogliato e loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo. Però vi prepose messer Remirro de Orco, uomo crudele ed espedito, al quale dette pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Dipoi iudicò el duca non essere necessario sì eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle monstrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui ma dalla acerba natura del ministro. E, presa sopr'a questo occasione, lo fece a Cesena una mattina mettere in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.[19]

 

Agire sul terreno dell'apparire significa manipolare i codici con i quali il popolo pensa e immagina. In questo senso «Prassi di governo e prassi simbolica sono la stessa cosa»[20] tuttavia la verità effettuale, pur originandosi all'interno della «strategia simbolica del principe»,[21] non è sovrapponibile ad essa. La verità non riguarda mai il fatto in sé ma si stabilisce in base alla natura degli effetti che un'azione può determinare; ancora meglio essa si stabilisce inevitabilmente a posteriori, nel riscontro degli effetti in nome dei quali l'azione è stata intrapresa. Machiavelli ha colto effettivamente un aspetto essenziale della realtà politica (e non solo): essa non appare mai come fatto ma sempre come ''effetto conseguente''; in questa prospettiva di verità degli effetti ma mai dei fatti, è necessario distinguere più livelli.

Si può considerare una realtà implicita, immanente al fatto stesso, che gravita totalmente intorno all'azione virtuosa del principe. «Essa non è la sovrana costruzione ideologica di una verità (immaginazione privata, arbitraria, inefficace), bensì il consapevole disporre il progetto dell'innovazione dentro un terreno relazionale»[22]. In forma immanente, l'azione del Valentino di monstrare «in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto»[23] il corpo di Remirro de Orco «è rivolta a far coincidere azione e reputazione, nella consapevolezza, però, che questa coincidenza non potrà mai essere assicurata in anticipo».[24] Il principe è nuovo perchè consapevole del precario equilibrio in cui si trova; l'effettualità, infatti, si muove su due livelli di senso, intrinseco ed estrinseco. Nel primo livello troviamo l'agire simbolico del principe dove nulla si dà

 

 

in modo definitivo e univoco, ma sempre, per definizione, in modo processuale e aperto – al limite in modo addirittura problematico, cioè come risultato non-dato, o non-ancora-dato, di un conflitto di discorsi, di pratiche, di rapporti di forza in corso di svolgimento.[25]

 

 

Il concetto di verità come produzione costante e plurivoca viene svuotato irrimediabilmente nella sua accezione tradizionale; producendosi giorno per giorno in forma strategica, l'orizzonte di valutazione di una determinata prassi si sposta  costantemente in avanti, nella precarietà di una costruzione induttiva. In questo senso  intrinseco, l'azione nel suo sviluppo presente non ha nulla di vero perchè il ''vero'' non è

temporalmente definibile come contingenza presente.[26]

 

In definitiva, le oscillazioni della virtù presenti nel Principe sono l'espressione di una difficoltà teorica, proprio nel senso che sorgono nel momento in cui la ''teoria pratica'' enunciata nel testo viene meno a sé stessa, cortocicuitandosi in una ''teoria dell'azione'' compiuta e conclusa. La potenza arbitraria della ''persona'' del principe è una possibile conseguenza dell'identificazione di apparenza e realtà. Queste conseguenze però non solamente non rappresentano vie obbligate, ma corrispondono ad altrettanti ripiegamenti rispetto alla radicalità della tesi fondamentale del Principe.[27]

 

 

C'è un evidente problema: la strategia proposta nel testo, consapevolmente attuata dal principe, porta ad alcuni paradossi. Oltre al fatto che «la ''teoria pratica'' enunciata nel testo viene meno a sé stessa», il principe risulterebbe inevitabilmente idealizzato perchè fautore di una prassi politica di eterno presente. Il rischio, infatti, è di cadere in un circolo vizioso in cui qualsiasi decisione politica, contingentemente presa e storicamente attestabile, perda di valore risolvendosi in un concetto assoluto di contingenza svuotato di qualsiasi temporalità.

 

Messer Rimirro, che era el primo huomo di questo Signore, tornato hieri de Pesero, è stato messo da questo Signore in un fondo di torre: dubitasi che non lo sagrfichi ad questi populi, che ne hanno desiderio grandissimo [...] Messer Rimirro questa mattina è stato trovato in due pezi in su la piaza dove è anchora; et tucto questo populo lo ha possuto vedere; non si sa bene la cagione della sua morte, se non che li è piaciuto così al Principe, el quale mostra di saper fare e disfare li huomini ad sua posta, secondo e' meriti loro.[28]

 

Questi stati nuovi, occupati da un signore nuovo, hanno, volendosi mantenere, infinite difficultà [...] assai più difficultà si truova a mantenere quelli che sono di nuovo composti di diverse membra [...] Debbe pertanto chi ne diventa principe pensare di farne un medesimo corpo [...] Il che si può fare in due modi: o con il fermarvisi personalmente, o con preporvi un suo luogotenente che comandi a tutti [...] Il duca Valentino, l'opere del quale io imiterei sempre quando io fossi principe nuovo, conosciuto questa necessità, fece messer Rimirro presidente in Romagna: la quale deliberazione fece quelli popoli uniti, timorosi dell'autorità sua, affectionati alla sua potenza, confidenti di quella.[29]

 

Il principe, come testimonia l'apprezzamento di Machiavelli per la politica di Cesare

Borgia, non è un essere idealizzato ma deve costantemente «fare e disfare», cercando di salvaguardare la propria essenziale libertà d'azione. Per perseguire la verità effettuale è necessario rompere l'ordine che induttivamente si instaura nelle aspettative del principe e anche del suo popolo. [30]

In conclusione, la valutazione degli effetti prodotti è rischiosa perchè non garantisce mai una predicibilità e un rigore strategico che esaurisca tutto il reale; nessuno, dall'in- terno di uno stato o di un governo, può effettivamente elevarsi su tutti come essere del tutto consapevole di ciò;[31] la verità effettuale, come fa Machiavelli, può essere solo riscontrata dall'esterno come atto violento, come rottura di un ordine nel quale il principe ripristina e ribadisce il suo potere. È lo stesso Machiavelli a constatare il naturale difetto umano «di non credere che possa essere quel che non è stato»,[32] individuando in nuce ciò che sarà determinante in Spinoza: si tratta della interdipendenza tra la dimensione ontologico/politica e la dimensione immaginativo/conoscitiva, scoperta a partire da una radicale messa in discussione dell'ordine trascendente, nel quale può inscriversi la progressiva perdita dell'originaria libertà del principe e la fine dello stato inteso come «uno medesimo corpo». Machiavelli, lo ribadiamo, riscontra nel Valentino la capacità dell'individuo-principe di sottrarsi per un istante all'individuo-uomo; quell'istante è un atto violento, una discontinuità che ripristina, anche se mai definitivamente, i vincoli tra principe e popolo.[33]

Fatta questa breve introduzione, prima di rivolgerci alle opere spinoziane, i cui riferimenti (impliciti ed espliciti) al Segretario fiorentino sono essenziali per comprendere la dimensione antropologica e l'«ontologia fondamentale che permette a Spinoza l'utilizzo di Machiavelli»,[34] è necessario evidenziare, in forma più generale, la «peculiarità tutta olandese nella ricezione machiavelliana nel corso del XVII secolo»[35] e che non può non aver condizionato anche la ricezione da parte di Spinoza. In questo modo, sebbene il nostro tentativo sia essenzialmente filosofico, possiamo procedere senza il rischio di accostare degli «archetipi atemporali»[36] trascurando quelle che sono delle personalità storiche reali non prive di complessità:

 

la lettura di Machiavelli nell'Olanda della seconda metà del secolo agisce quindi da indicatore – appunto da sintomo, da traccia – della necessità di un nuovo approccio metodologico all'antropologia e alla politica, che resta però distinto, se non contrapposto, rispetto al paradigma nascente della scienza politica hobbesiana, il quale assume piuttosto la funzione di un rimedio decisivo alla crisi.[37]

 

   La capacità indicativa e ''sintomatica'' del machiavellismo in Olanda è fondamentale non solo per una ricognizione storica generale, ma anche per cogliere i nuovi approcci, i nuovi paradigmi di lettura della teoria repubblicana, interconnessi con l'aggravarsi della situazione sociale e politica. Prima della seconda metà del secolo, Machiavelli diventa centrale in Olanda grazie agli scritti di Justus Lipsius, esponente della corrente neostoica. «Professore a Leiden negli ultimi anni del XVI secolo, già nel Preambolo dei Politicorum libri sex riconosce l'acutezza dell'ingegno di Machiavelli (''ingegnum acre, subtile, igneum''), tuttavia sottolinea anche come il suo principe non sempre riesca a seguire la strada della virtù e dell'onore».[38] La lettura neostoica tendente ad un ''disciplinamento'' del Segretario fiorentino riconsiderava, da un lato la liceità di un uso morale della frode (nel senso di una 'fraus levis' come diffidentia e dissimulatio), dall'altro ricadeva in una critica che riproponeva Machiavelli come inventore dell'arte di ingannare il popolo. Sebbene quest'ultima critica venisse dallo stesso Lipsius, la trattazione di argomenti come la sottovalutazione del valore spirituale della religione in nome del suo uso politico, («nulla res multitudinem efficacius regit, quam superstitio»),[39] non riuscirà a sottrarlo all'accusa di ''machiavellismo mascherato''.

 

Ad ogni modo, sebbene in un orizzonte di tipo filomonarchico, l'attitudine più pragmatica del pensiero neostoico rispetto alla tradizione accademica di stampo aristotelico permette un parziale recupero della dottrina machiavellica, mediata proprio dalla virtù – in senso tradizionale – del principe: quindi un Machiavelli 'disciplinato', e almeno parzialmente neutralizzato, che però può essere studiato senza preconcetti dai teorici della politica come dagli storici, senza diventare necessariamente il simbolo di una politica immorale e tirannica.[40]

 

 

Oltre al neostoicismo, come emblema di questo approccio assolutamente cauto nonché negativo verso le opere di Machiavelli, basti citare la pubblicazione della prima traduzione olandese dei Discorsi (1625): il curatore parla di buoni, ma anche di pessimi suggerimenti che, in ogni caso, dovrebbero essere trattati «con cautela e senza eccessi, come fa la scienza medica, che insegna agli uomini tanto i rimedi alle malattie quanto le caratteristiche di queste ultime».[41] È intorno alla metà del secolo che la ricezione machiavelliana subisce un mutamento, o meglio subentra un ''nuovo paradigma'' nella lettura olandese del Segretario fiorentino. Nell'acuirsi dello scontro tra i regenten sostenitori di un repubblicanesimo aristocratico e gli Orange filomonarchici, il machiavellismo si insinua nel dibattito (tutt'altro che omogeneo) sulla costituzione repubblicana, dapprima con i fratelli Johan e Pieter De la Court poi con Baruch Spinoza.

Bisogna chiarire un punto: c'è una continuità profonda tra le due opere principali di Machiavelli; i Discorsi infatti rappresentano, rispetto al Principe, un tentativo di supera-

re quell'aporia[42] a cui lo stesso Spinoza sembra già alludere in un paragrafo centrale del Trattato politico.[43] Nonostante questa continuità, dobbiamo soffermarci su quelle distinzioni che, sviluppatesi contingentemente all'interno del dibattito olandese, non possono non essersi impresse sul machiavellismo, sulla sua lettura e sulla scelta di usare

alcuni τόποι piuttosto che altri.

 

Con le parole dei De la Court (l'ordine repubblicano) deve assumere la forma di un regime aristocratico che tende alla democrazia, mantenendo quindi sempre in atto una dimensione inclusiva: la vita della repubblica è così scandita da una dinamica ininterrotta, generata dall'interrelazione passionale tra i cittadini, che esprime la loro naturale libertà e nel contempo compone virtuosamente gli egoismi individuali in interessi condivisi – o quanto meno componibili attraverso compromessi istituzionali.

Proprio in rapporto a queste due caratteristiche la ricezione di Machiavelli gioca un ruolo di assoluto rilievo.[44]   

 

Il superamento dell'impostazione neostoica, si realizza nel recupero di due elementi   machiavelliani essenziali: il primo di questi, nonché il ''contesto di sfondo'' dell'altro, è il ritorno all'effettualità e ad un orizzonte antimoralistico;[45] potremmo assumere le parole usate da Spinoza nelle prime righe del TP (1.1) a statuto di questo recupero:

 

I filosofi pensano che gli affetti dai quali siamo combattuti siano dei vizi, e che gli uomini vi cadano per loro colpa. Per questo solitamente ne fanno argomento di riso, di compianto o di rampogna, e quelli che vogliono fare più mostra di santità lanciano maledizioni. Credono così di fare qualcosa di divino e di toccare il culmine della saggezza, mentre tutto quello che sanno fare è lodare in mille modi una natura umana inesistente e fustigare quella che c'è davvero. Non concepiscono gli uomini per come sono, ma per come li vorrebbero: con la conseguenza che, nella maggior parte dei casi, scrivono della satira al posto dell'etica, e non sanno mai elaborare una politica applicabile alla pratica, ma solo finzioni chimeriche o istituzioni realizzabili in Utopia, o nel famoso secolo d' oro dei poeti, dove per altro non ce n'è alcun bisogno. Siccome dunque si ritiene che, fra tutte le scienze applicate, la teoria politica sia la più discrepante dalla propria pratica, nessuno meno dei teorici, ovvero dei filosofi, è stimato idoneo a reggere le sorti della repubblica.[46]

 

Il secondo elemento, cioè l'impostazione antropologica di tipo deterministico, si inserisce nello sfondo di un recupero strategico dell'effettualità politica. Come vedremo,  l'interrelazione tra antropologia e politica, e il tentativo di chiarire i rapporti di scambio tra i due ambiti, saranno i luoghi fondamentali, ancor prima che di un banale accostamento, di uno studio che metta a confronto l'originalità del pensiero di Machiavelli e il machiavellismo ''riattivato'' e ''filtrato'' in un altro periodo. In Consideratien van Staat e nei Politike Discoursen dei fratelli De la Court è evidente la fortissima influenza dei Discorsi su Tito Livio «tanto sul piano dell'analisi antropologica, quanto sul versante più propriamente politico».[47] La novità è rappresentata dalla riscoperta del rapporto dialettico tra principe e popolo; il primo non è più ''attore/autore'' di una prassi razionalmente aporetica ma è ricollocato antropologicamente nell' interdipendenza degli interessi e delle passioni di ognuno con ognuno. Tale ''livellamento'' si fonda sulla ripresa del luogo machiavelliano secondo cui «nella formazione di uno Stato e nella produzione di leggi, si deve presupporre che tutti gli uomini siano naturalmente malvagi e che tali resteranno, a meno che essi non vengano disciplinati e resi migliori da buoni ordini e buone leggi».[48]

   Tanto i comuni cittadini quanto i governanti sono quindi attraversati e determinati da quell'amor proprio che si trova «all'origine di tutte le azioni umane, sia quelle buone, sia quelle cattive».[49] Il recupero delacourtiano del vizio/virtù come rete interindividuale, nonché come auto-costituzione dello stato, si presenta in realtà come strumentale rispetto alla necessità di un ordinamento repubblicano (tendente a ridurre cittadini e governanti come identici individui). Da quest'ultimo punto di vista ''stretto'', l' assenza di quell'elogio dei tumulti così centrale nei Discorsi,[50] in nome di un popolo ordinato in una «assemblea legale, composta da comuni cittadini»,[51] rientra perfettamente nel carattere strumentale del machiavellismo delacourtiano; se invece cerchiamo di riallacciarci a ciò che abbiamo sostenuto inizialmente sulla verità effettuale, è possibile analizzare in forma più generale la discrepanza che emerge in modo evidente tra  effettualità machiavelliana ed effettualità del machiavellismo seicentesco. Andando ancora più a fondo, sembrerebbe che al di sotto di tale differenza ci sia in realtà una mancata comprensione, sia del senso rivoluzionario, sia del valore strategico conferiti da Machiavelli all'effetto. Ricapitoliamo ciò che è stato sottolineato precedentemente, riguardo alla non sovrapponibilità tra ''effettuale'' e ''vero'':

 

I.       l'effettualità non è intrinsecamente luogo di verità, ma prassi politica; ogni deci-

                   sione e azione può essere valutata in base agli effetti che vengono prodotti.

II.    L'effettualità è per questo un ordine e una costruzione induttiva dove:

a) non esiste un ''vero'' immanente al presente; ciò esiste solo nella possibilità di un riscontro, per l'appunto induttivo, con l' esperienza degli effetti passati.

b) L'impossibilità di predire un effetto in forma rigorosamente consequenziale determina il carattere aleatorio dell'accadere e l'esistenza della Fortuna. Machiavelli ammette di trovarsi in continuità con una tradizione a cui appartengono «molti»;[52] tuttavia, se nel Principe «pare che questa concessione alla opinione corrente vada intesa piuttosto come un'astuzia polemica, propria di chi, con l'aria di cedere, procede poi a una più serrata critica dei pregiudizi altrui»,[53] nei Discorsi la Fortuna diventa «l'intersezione delle differenti linearità cicliche - che - produce una temporalità nient'affatto lineare, ma anzi attraversata da  rotture e discontinuità». La Fortuna machiavelliana non è una forma di fatalismo contemplativo ma la variabilità aleatoria dentro la quale è possibile ricollocare, in forma rinnovata, la virtù umana. Come giustamente evidenzia Russo, Machiavelli accoglie l'intuizione agostiniana della fortuna come «intelligenza motrice del mondo»[54] rifiutando però che essa possa trascendere le capacità umane ed esonerare l'uomo dalla virtù attiva.[55]

c) Il concorrere di forze assolutamente opposte, da un lato la virtù attiva dall'altro la Fortuna, genera non solo l'irriducibilità della strategia ad una pianificazione valida una volta per tutte, ma anche l'irriducibilità dell'uomo ad un archetipo antropologico che trascende ogni individualità.

III. Infatti, l'esposizione del corpo di Remirro rappresenta per Machiavelli un ''momento'' entro il quale non viene fondata alcuna strategia. Ciò che viene ribadito con violenza è la libertà individuale capace di ''forzare'' e di ripristinare nel popolo quel timore/vincolo che l'ordine (costruitosi in forma induttiva, quindi precaria) tende progressivamente a sciogliere fino alla rovina dello stato.

In conclusione, che l'effettuale non sia necessariamente luogo di verità lo dimostra il fatto che qualsiasi corpo politico mai sopravvive per sempre; Machiavelli parte dal difetto umano «di non credere che possa essere quel che non è stato»[56] per decretare la necessità vitale di un individuo che, nell'atto violento, riconduce gli uomini a ''credere che possa essere quel che che non è mai stato''.              

IV.Paradossalmente la verità si dà come ''effettuale'' anche nel suo sottrarsi alla logica dell'effettualità in senso ordinario. Il gesto, l'azione individuale inconsulta, violenta, ma soprattuto inaspettata rompe la fiducia comune in un ordine. In questo modo, l'effettualità immaginaria e calcolabile viene sostituita dall'effettualità che rifugge l'ordine rimettendolo in discussione. È importante precisare un aspetto: la verità effettuale in Machiavelli è un concetto che trascende qualsiasi strategia. Essa è esclusivamente ''riscontro'' a posteriori di una congiuntura entro il quale è stato fatto, consapevolmente o meno, il bene di un corpo politico. Alla luce di ciò, l'azione del Valentino non è in quanto tale ''il conseguimento della verità''; essa è per Machiavelli l'esperienza della congiuntura entro la quale l'azione è risultata favorevole.[57]

Nel Principe quindi sono già presenti, in forma implicita, gli strumenti per superare la sua stessa impostazione apparentemente aporetica; in questi termini i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio rappresentano piuttosto l'esplicitazione metodologica di quella nuova temporalità, ridefinizione dei rapporti tra individuo e massa, congiunturalità  già in nuce nell'«opuscolo». Abbiamo fatto questo premessa non solo per conferire a questo lavoro un indirizzo più originale, ma anche per avere una base stabile con cui intraprendere l'analisi di alcuni punti specifici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Il dilatarsi del tempo come ordine immaginario, il suo restringersi come essenza attuale

Be', finisci col rinunciare, perchè non hai trovato la causa originaria. Ma prova un po' a lasciarti trascinare dal tuo sentimento ciecamente, senza ragionarci su, senza nessuna causa originaria, respingendo la coscienza almeno in quel momento; odia o ama, pur di non restare a braccia conserte.

(Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo)

 

Per capire il ruolo del politico italiano all'interno del Trattato incompiuto di Spinoza, dobbiamo cercare di chiarire preliminarmente alcuni punti: prima di tutto, capire in che modo Machiavelli si inserisca nella difficile compresenza di un ordine metafisico ''necessario e necessitante'' in cui «il male non può avere alcun senso perchè tutto rientra nell'ordine necessario del reale»[58] con l'adesione ad un «quadro strutturalmente pessimistico».[59] Come rileva Carla Gallicet Calvetti, la lezione di Machiavelli si rivela centrale nella sua funzione di ''raccordo'' tra la dimensione metafisica del Deus sive potentia e la dimensione etica:

 

a nostro modesto avviso, infatti, sembra che due diversi criteri presiedano alla presentazione delle considerazioni politiche di Spinoza: il primo, collegato alla stessa metafisica spinoziana necessaria e necessitante, strutturalmente congiunto alla divina causalità immanente, che esclude ogni valutazione etica e spiega quindi gli stessi vizi come proprietà della umana natura; il secondo invece, che, pur non abbandonando il proposito di rispettare quest'ordine necessario e necessitante, non può fare a meno di considerare ''realisticamente'' l'umana condizione anziché dedurla rigorosamente, in conformità alle premesse metafisiche. [...] anziché all'applicazione rigorosa di quei principi che «cum praxi optime conveniunt» e che dovrebbero frustrare ogni giudizio di valore, ci troviamo di fronte a una considerazione della umana natura suggerita dalla ''verità effettuale'', che, se impone l'adozione di particolari accorgimenti per consentire l'umana convivenza, conformemente all'insegnamento del Machiavelli, non esclude anche una precisa teleologia sia per l'individuo che vuole affrancarsi dalle passioni, sia per lo Stato che deve guidare all'esercizio della razionalità che è libertà. [60]

 

Quelle proprietà dell'animo umano che Spinoza in TP 1.4 ripristina come tali alla stregua di proprietà meccaniche o fisiche,[61] rappresentano apparentemente un richiamo a quell'ordine metafisico necessitante che, come abbiamo osservato, sembra precludere ogni giudizio morale. È possibile risolvere tale difficoltà su due fronti: la metafisica spinoziana si contraddistingue per il mantenimento di un ''principio dinamico'' che riesce a non pregiudicare la sua auto-sussistenza. Senza considerare le evidenti difficoltà genetiche che «soltanto qualche geniale interprete, in nome di proprie convinzioni, e applicando spesso a Spinoza la propria mentalità, ha debitamente inverato e quindi risolto»,[62] ogni realtà naturale è metafisicamente legata al Principio primo e alla sostanza divina, non come riduzione o derivazione dentro coordinate temporali assolute nonché trascendenti la sostanza stessa, ma all'interno dell'unica determinazione temporale, quella dell'immanenza.[63]

Infatti, il legame tra la sostanza infinita e la qualificazione dei finiti «certo et determinato modo» si risolve dentro la stessa metafisica spinoziana, alla condizione essenziale di presupporre un orizzonte temporale ''attuale''. In questa prospettiva, la matrice divina non si rivela nella semplice molteplicità infinita dei modi d'essere ma nella libertà con cui ogni atto, auto-giustificatosi in quanto tale, rivela un'economia ''strategica'' del reale.[64]

Questa sorta di aporia tra amoralità e moralità in Spinoza, può essere affrontata attraverso una ricerca che, con delle necessarie forzature, ricerca una continuità tra il rigore metafisico, il diritto naturale e la «configurazione giuridica»[65] dei corpi finiti. Questo tipo di approccio presenta una difficoltà teorica: cercare di far collimare il piano metafisico con quello politico, implica un'impostazione metodologica che ha distinto    le due dimensioni alla luce di una dicotomia stabilita a priori. La difficoltà non sta tanto nelle due dimensioni distinte, ma nell'impossibilità che si possa chiamare amoralità la proiezione teoricamente antitetica della dimensione morale.

L' aporia che stiamo osservando in Spinoza, così come lo scandalo che storiograficamente Machiavelli ha sempre destato, sono irrimediabilmente connessi a questa sovrapposizione tra amoralità e immoralità di cui è un risvolto l'introduzione in entrambi gli autori di un orizzonte morale di tipo pessimistico. Anche se in forme diverse, il fatto che venga investita e ridefinita la temporalità ci permette su più livelli di fare alcune osservazioni: la temporalità ridotta all'orizzonte dell'immanenza, sia nel politico italiano che nel filosofo olandese, diventa trasversale non solo rispetto alla molteplicità dei livelli semantici, storici, metodologici coinvolti, ma anche rispetto alla risoluzione di apparenti incongruenze:

 

gli stessi vizi scompaiono per lasciare il posto alle proprietà della natura umana, che escludono ogni valutazione morale: vero è che, proprio perchè Spinoza affiderà successivamente allo Stato il compito di portare l'uomo all'esercizio della razionalità per liberarlo dalle passioni; proprio perchè celebrerà nella sua etica l'''itinerarium mentis in Deum'', l'affrancamento dalle passioni e la stessa gradazione dalle passioni assumono anche per lui un significato morale, che rivela se mai la aporia [...]. In questo senso, quelle proprietà precedentemente sottolineate esaminando il primo capitolo del Tractatus politicus e che dovrebbero esprimere la frustrazione di ogni dover essere [...] per mostrare la necessità che informa l'umano agire, mettono in luce il conflitto fra la struttura metafisica degli umani esistenti, immanentisticamente congiunti alla divina potenza e recanti quindi le estigmate del divino, e la presenza di una essenza attuale equivalente al diritto naturale, che rappresenta una degradazione del divino.[66]

 

Il fatto stesso di affrontare una tale problematica evidenzia una sistematicità altra, ''impressa'' su Spinoza e contrastante non tanto col sistema vero (che potrebbe addirittura non esserci) ma con la comprensione e l'interpretazione della grandezza del messaggio spinoziano. La subordinazione del tempo alla relazione tra i corpi e al concetto di ''essenza attuale'' costituisce di per sé l'antidoto a quell'interpretazione moraleggiante che vede nella matrice divina dei corpi finiti una causa teleologica.

 

Nella sua concezione della Natura, Spinoza concilia [...] due idee che appaiono incompatibili nella luce della problematica anteriore: l'idea di struttura [...] e l'idea di genesi. Per cogliere l'originalità di questa unione basta comprendere che la genesi non deve essere pensata secondo una rappresentazione temporale nel passaggio da un termine attuale (sostanza-attributo-modo) ad un altro termine attuale; infatti – insiste Spinoza – «nell'eternità non si dà né quando, né prima, né dopo».[67] Bisogna pensare questa genesi necessaria come il passaggio (intemporale) dalla costituzione di una struttura alla sua attualizzazione, dalle condizioni della sua produzione alla produzione stessa che le ingloba e le effettua assolutamente, infinitamente, necessariamente. [...] La struttura è la necessità innocente, senza principio né fine, il movimento reale della produzione del Reale.[68]

 

Senza entrare nella complessità della dimostrazione more geometrico e selezionando solo ciò che serve al nostro percorso, il concetto di auto-genesi e di causalità immanente che, come abbiamo visto, «non è un retro-mondo, ma la necessità stessa di questo mondo nella sua spiegazione e affermazione»,[69] deve dissolvere immediatamente l'interpretazione neoplatonica di «sussunzione delle differenze – costitutive dell'Essere – in un'unità totalizzante».[70] Ribadiamo ancora una volta che la subordinazione del tempo ai corpi e alle loro relazioni,[71] da un lato sviluppa l'immagine viva dell'identificazione tra Dio e Natura, dall'altro non consente alcun tipo di gerarchizzazione dell'Essere ''verticale'', tanto meno la conseguenza esteriore di un modello finalistico, congiunto ad una pratica morale di perfettibilità/purificazione (consapevolmente attuata).

Nel II capitolo del TP Spinoza esordisce fissando le nozioni principali del Trattato teologico-politico e dell'Etica, evidenziando quindi una continuità profonda: parlando infatti di ''fondazione''[72] del trattato sulle conclusioni delle due opere precedenti, l'autore  elimina la necessità di ricercare un qualsiasi artificio concettuale/retorico di collegamento, a meno che tale ricerca non sia stata inquinata da un pregiudizio di fondo. A questo proposito, è necessario dimostrare quanto tutto il messaggio politico spinoziano sia riconducibile ad un sovvertimento nel quale la morale, intesa come assunzione di un modello umano, viene ad essere sovradeterminata dalla ''strategia in atto'' del Deus sive potentia. Tale sovradeterminazione, analogamente a quella tra tempo e relazione tra i corpi (Bove), finisce per eliminare l'essenza stessa della morale; infatti, nella misura in cui ogni Atto rivela di per sé la sua ragion d'essere (dimostrando di far parte dell'economia strategica del reale), la possibilità di un giudizio crolla, perdendo qualsiasi condizione di trascendenza e ogni riferimento a quell'ordine ''esteso temporalmente'' in forma anticipata o posticipata rispetto al presente immanente.

 

Per diritto di natura intendo dunque le leggi della natura, ossia le regole secondo le quali tutte le cose avvengono, ovvero la potenza della natura. Dunque il diritto naturale dell'intera natura, e di conseguenza quello di ciascun individuo, si estende quanto la sua potenza, e quindi tutte le azioni che ciascun uomo compie in virtù delle leggi della sua natura, le compie in base al diritto supremo della natura, e ha sulla natura tanto diritto quanto è il valore della sua potenza.[73]

 

In poche righe Spinoza identifica due concetti e attua un passo fondamentale che dobbiamo preliminarmente chiarire: il diritto di natura racchiude tutte le modalità e gli atti con cui la natura esprime se stessa in forma di strategia e conatus di resistenza. Parallelamente nell'uomo, la potenza comprende «tutte le azioni» che la natura concede di attuare, riacquistando un significato fattuale connesso alla capacità materiale-fisica e riuscendo a ridefinire il diritto non in nome della legittimazione ma dell'azione. Dobbiamo fare alcune precisazioni:

a) Parafrasando lo stesso Spinoza, il diritto naturale è potenza dell'intera natura così come del singolo uomo, inteso come singolo corpo. Come abbiamo già osservato, la declinazione da natura a individuo non presuppone una mediazione né una gradualità; si tratta tutt'al più dell'esplicitazione del conatus, attuata a partire dalla scelta di separare artificialmente un ambito circoscritto, in realtà racchiuso indistintamente e imme- diatamente nella totalità del reale.

 

Se dunque la natura umana fosse così disposta, che gli uomini vivessero secondo i soli dettami della ragione senza altre pretese, allora il diritto di natura – per quanto si considera essere proprio del genere umano – sarebbe determinato in base alla sola potenza della ragione. Ma gli uomini sono guidati dal cieco desiderio più che da ragione, e pertanto la potenza naturale degli uomini, ossia il loro diritto, deve definirsi sulla base non della ragione, ma di ognuno di quegli appetiti che li determinano ad agire e con cui tendono a conservarsi. [...] Ma poiché ora stiamo trattando della potenza o diritto universale della natura, non possiamo riconoscere alcuna differenza tra i desideri ingenerati in noi dalla ragione e quelli causati da altro, dal momento che gli uni e gli altri sono effetti della natura e dispiegano la forza naturale per cui l'uomo tende a perseverare nel suo essere.[74]

 

b) Il concetto di potentia acquista delle nuove determinazioni di senso: l'azione diventa  atto privato del suo carattere ''intenzionale''; essa viene spersonalizzata riducendosi ad ''effetto'', a manifestazione attuale del reale. Tale potenza, pur mantenendo la sua essenziale accezione, quella del non-ancora-dato e del possibile che si estende oltre il presente, subisce quel sovvertimento che la subordina al meccanicismo dei corpi. Ciò non causa l'adesione spinoziana a un orizzonte morale pessimistico, ma anzi dissolve ogni gerarchia tra ragione e passione: infatti «gli uomini sono guidati dal cieco desiderio più che da ragione, e pertanto la potenza naturale degli uomini, ossia il loro diritto, deve definirsi sulla base non - (solo) - della ragione, ma di ognuno di quegli appetiti che li determinano ad agire e con cui tendono a conservarsi».[75]

c) Effettivamente, una difficoltà può essere riscontrata: l'indistinzione tra desiderio e ragione, come abbiamo visto, è prodotto di un rovesciamento concettuale che sottomette i presupposti intenzionali/morali agli atti. Se il reale si identifica nella totalità degli atti che esprimono il suo conatus di resistenza, nel passaggio al reale ''umano'' (che non è degradazione in senso platonico/cristiano), come si concilia tale visione con la necessità, tipicamente umana, del ''credersi liberi'', inteso come valore illusoriamente   e/o pragmaticamente regolativo? Per Spinoza, l'uomo tende a rappresentarsi come prodotto della propria autodeterminazione, sottraendosi ai nessi causali che effettivamente lo determinano. La critica maggiore è rivolta non tanto al libero arbitrio, ma alla sua conseguenza politicamente più rilevante: la rappresentazione di una libertà trascendente produce conseguentemente una ragione altrettanto trascendente.

 

Ma i più credono che gli ignoranti perturbino l'ordine della natura piuttosto che assecondarlo, e concepiscono gli uomini nella natura come uno stato entro lo stato. Ritengono infatti che la mente umana non sia prodotta da cause naturali, ma sia creata da Dio immediatamente, indipendente dunque da tutte le altre cose, sì da avere un potere assoluto di autodeterminazione e di retto uso della ragione.[76] [...] Ma quanto più concepissimo l'uomo come libero, tanto più saremmo costretti a stabilire che egli di necessità deve conservare se stesso e avere padronanza della mente: questo me lo concederà chiunque non confonda la libertà con la contingenza. La libertà è una virtù, ossia una perfezione: e dunque tutto ciò che nell'uomo è indizio di impotenza non può essere posto in relazione con la sua libertà. [...] Quanto più libero noi consideriamo  l'uomo, tanto meno possiamo attribuirgli il potere di non usare la ragione o di preferire il bene al male.[77]

 

Solo ripristinando la libertà che «non toglie la necessità, ma la pone»,[78] l'uomo riesce a seguire i dettami di una ragione nuova, collocata al di fuori della contrapposizione  con la passione o il vizio; ancora meglio, perseguire la ragione diventa condizione di libertà assoluta in quanto prassi costantemente consapevole di tutte le cause che la determinano, comprese le passioni:

ne consegue che godono della maggiore autonomia quelli che eccellono su tutti nella capacità razionale, e da essa si fanno massimamente guidare; chiamo dunque totalmente libero l'uomo allorchè si fa guidare dalla ragione, poiché così è determinato ad agire da cause adeguatamente comprensibili grazie alla sua sola natura, anche se lo determinano necessariamente ad agire. La libertà infatti [...] non toglie la necessità, ma la pone.[79]

 

La difficoltà messa in luce sopra (punto c), non è facilmente risolvibile in forma univoca; tuttavia è possibile proporre almeno una direzione: in base a quello che è stato osservato, l'ontologia spinoziana preserva la sua sistematicità, dandosi come principio dinamico e strategico del reale, inteso come sostanza indistinta. Quindi lato sensu, la dimensione del corpo politico e individuale umano è indistintamente inserita nell'e- quilibrio e nell'autosussistenza dell'esistente. Dal punto di vista ontologico, è Spinoza stesso a ''sigillare'' il proprio sistema difendendolo da qualsiasi intromissione neoplatonica e da qualsiasi interpretazione che risolva l'aporia infinito-finito in forma trascendente. Sul piano politico stricto sensu tutto ciò viene conseguentemente mantenuto, tra l'altro rivelando in modo evidente l'anti-hobbesianesimo del filosofo olandese.[80]

   La principale difficoltà è dovuta al fatto che l'unità immanente tra finito e infinito, rientra in una struttura metafisica che può essere sì scoperta e rivelata nell'individualità umana, ma solo intuitivamente e attraverso uno stacco concettuale. Una possibilità di colmare questo vuoto ci viene offerta da quella che L. Bove ha chiamato ''strategia del conatus'': nel tentativo anti-hobbesiano di ripristinare uno Stato concepito naturalisticamente, Bove introduce anche un soggetto rinaturalizzato; Spinoza infatti, non contrapponendo superficialmente determinismo e libertà come modelli antropologici conchiusi, riesce ad analizzare la dottrina del libero arbitrio sul piano del suo stesso sistema ''naturalizzante'', evitando di contrapporre ad essa una morale ulteriore.[81]

 

L'illusione della libertà – che può essere considerato in Spinoza un dato immediato della coscienza – ed il comportamento finalistico nella ricerca del proprio utile, determinano necessariamente la direzione del conatus verso la finzione finalistica. Infatti, a causa della sua impotenza innata, il soggetto è profondamente timoroso e inquieto, di una inquietudine fondamentale di fronte al caos e alla frantumazione dell'universo. La finzione è costruita, quindi, per resistere e rispondere a questa ''inquietudine'', per dissipare l'angoscia e perchè gli uomini, infine, «si acquietino». Spinoza sottrae così la rappresentazione (della finzione, in questo caso) alla tradizionale funzione di semplice conoscenza (vera o falsa), per farne il rapporto esistenziale/immaginario che gli uomini intrattengono – per una necessità naturale dovuta alla loro impotenza – con la vera realtà.[82]

 

   Questa necessità è all'origine di un «insieme di segni che danno unità, ordine e senso»,[83] e la ''mascheratura'' del reale, come codificazione immaginativa, è forse l'unico modo per accedere ad esso. Bove affronta tale tematica per dimostrare quanto il carattere sostanziale della finzione finalistica, intesa come «struttura a partire da cui tutti gli uomini vivono e pensano e che ha per Fondamento, Origine e Fine l'idea di un Dio-Persona»,[84] sia strettamente connesso al problema della ''schiavitù volontaria'' e alla domanda tipicamente spinoziana del perchè gli uomini combattono «per la propria schiavitù come se si trattasse della propria salvezza».[85] Che vi sia una continuità tra piano epistemologico e piano politico è dato, tuttavia è necessario rimettere in discussione alcuni punti, specialmente in riferimento alle precedenti conclusioni sull'effettualità machiavelliana e sui contributi che, anche in quest'ambito, sembrano determinanti.

Un primo passo può essere fatto con l'analisi del concetto di ''Ordine'' nella sua problematicità; infatti la soluzione di una continuità diretta tra la necessità di un ordine trascendente e la personificazione di un Dio che ne sia garante, sembra effettivamente una risposta troppo semplice al problema della schiavitù volontaria. La paradossalità risiede sì nella «necessità vitale che incatena gli uomini a ciò che pure li distrugge»,[86] ma non si limita a questo: concettualmente rimane aperta una frattura che rende difficoltosa la conciliazione tra i processi strategici di resistenza che stereotipano antropologicamente il corpo collettivo, e il riconoscimento individuale non già del potere ma della parzialità e della privazione connessi alla sua istituzione.

 

Ma, siccome abbiamo già dimostrato che il diritto naturale è determinato dalla sola potenza di ciascuno, ne segue che, quanto uno trasferisce a un altro, spontaneamente o per forza, della propria potenza, altrettanto gli cede necessariamente del proprio diritto; e colui che detiene il pieno potere di costringere tutti con la forza e di frenarli con la minaccia della pena capitale, che tutti universalmente temono, si dice che ha il supremo diritto su tutti: diritto, che avrà soltanto finchè conserverà questa potenza di fare quello che vuole; altrimenti il suo potere sarà precario, e nessuno che sia di lui più forte sarà tenuto ad obbedirgli se non vuole.[87]

Come osserva E. Giancotti, «è questo il punto, nel quale il pensiero politico di Spinoza, avvicinandosi fino a coincidere con quello di Hobbes, si allontana maggiormente dalla sua solida base di partenza, la definizione del diritto naturale individuale».[88] Accentuando ancora di più la cesura, qui Spinoza elimina ogni rinvio alla distinzione tra le due forme di trasferimento del diritto naturale, una in base alla «lex quae a necessitate naturae dependet» e una che sancisce il diritto volontario di  agire in base alla legge che «ex humano placito pendet».

 

E il richiamo a tale distinzione sarebbe qui assai opportuno, per spiegare come l'individuo, che è determinato ad agire esclusivamente nel modo che si conviene alla sua natura, «né può fare altro», riesca a spogliarsi della propria potenza-diritto, ossia, in sostanza, della propria natura come atto di volontà che non soltanto di particolare contravvenzione, ma di generale ribellione alla «lex humanae naturae universalis».[89]

 

Non si tratta infatti della semplice negazione della volontà, ma di una particolare declinazione di quel rovesciamento concettuale che sottomette i presupposti intenzionali/morali (volontari) agli atti.[90] Nonostante la prossimità nei toni con Hobbes, la distanza non è mai stata maggiore: concependo la cessione del diritto naturale come qualcosa che «non può dunque verificarsi in deroga alla regola della stessa natura, ossia non può avvenire per un atto di volontà, né, quindi, per contratto»,[91] Spinoza riesce a colmare quel vuoto concettuale in una forma tanto rilevante quanto difficoltosa sul piano dell'esplicitazione teorica:

 

nella - riconduzione dello «ius naturalis» ad una realtà oggettiva anteriore alla distinzione tutta formale e prammatica tra diritto naturale e volontario fatta nel capitolo IV, e [...] nell'attuale nozione di «regula naturae» è compresa l'esistenza e l'operazione di tutti gli esseri, non solo senza esclusione, ma anzi con particolare riferimento (giacchè proprio in ciò consiste la novità dello spinozismo politico-giuridico) a quelli che sembrerebbero agire non «ex necessitate», ma «ex placito»[92]

 

Cosa ci può dire ciò sul concetto di ordine? Non senza delle differenze, tanto in Machiavelli quanto in Spinoza l'ordine assume le sembianze di una struttura temporale ed epistemologica complessa, nella quale si rivela un equilibrio immanente che di fatto è antecedente rispetto al suo riconoscimento e alla sua pensabilità. Tale equilibrio, da un lato nega il soggetto individuale pensante/volente ma, paradossalmente, dall'altro  riesce anche a costituirlo attraverso una strategia di ''illusione immediata della libertà'', di finalismo, e per l'appunto di credenza in un ordine trascendente.[93] C' è quindi una evidente continuità che, alla luce di questa ambiguità del concetto di ''ordine'',  mette in stretta relazione l'effettualità machiavelliana e il Deus sive Natura spinoziano.

 

 

 

 

 

 

 

    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Il ruolo trasversale dell'immaginazione, l'ordine come maschera della superstizione

 

 

Anche i legislatori e i riformatori delle istituzioni umane, cominciando dai più antichi, continuando con Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone eccetera, tutti dal primo all'ultimo furono dei delinquenti, per il solo fatto che, dando una nuova legge violarono l'antica, religiosamente venerata dalla società e tramandata dai padri, e non si fermarono neppure dinanzi al sangue (talora innocente quanto mai e valorosamente versato in difesa dell'antica legge), se questo sangue poteva essere loro utile.

(Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo)

 

 

Nel confronto fra Machiavelli e Spinoza, in particolare per la concezione della natura umana, risultano centrali due fattori. Da un lato la differenza, per l'uomo, di prendere in considerazione e prevedere le conseguenze future dei comportamenti, dall'altro il rifiuto di concepire la ragione come un'istanza normativa superiore in grado di reprimere il movimento naturale della vita affettiva. Ora, a partire dall'antropologia, Spinoza sembra utilizzare proprio il pensiero di Machiavelli per affrontare alcuni temi filosofici centrali nella elaborazione moderna della concezione dell'uomo.[94]

 

A questo punto, è necessaria un'indagine[95] che metta in evidenza il tratto realmente essenziale e distintivo che unisce il pensiero dei due autori, tratto di fronte al quale risultano maggiormente valorizzabili anche i dati prettamente biblio/storiografici (e per valorizzazione si intende anche un approccio il più possibile oggettivo, che preveda un possibile ridimensionamento del dato esplicito rispetto all'implicito).[96] Nella prima sezione, abbiamo cercato di ridefinire il rapporto tra effettualità e verità, inserendolo nel «problema della capacità umana di prevedere gli effetti delle proprie azioni nel futuro, di anticiparlo in funzione di guida e di controllo delle decisioni nel presente – che, ancor prima di Spinoza – era già stata tematizzata da Machiavelli».[97]

Il terreno degli effetti non è più una semplice teorizzazione del modo con cui il reale manifesta sè stesso. Esso designa anche la dinamica essenziale attraverso la quale viene preclusa ogni possibilità di pensare separatamente la dimensione fattuale da quella immaginativa. In questo modo viene decretato da un lato il carattere ''opaco'' del reale che per l'appunto si scontra con le disposizioni affettive e psichiche umane, dall'altro il realismo di Machiavelli viene emancipato dalla sua riduzione al solo presente, e da una concezione indipendente dalla temporalità degli affetti e dalla falsa «coniettura».

 

L'idea di un tempo ''orizzontale'', in cui il presente della decisione sia subordinato al futuro della previsione, che sarà tematizzata con la piena transizione all'«immagine borghese del mondo'', trova una sua prima sistemazione già nelle opere machiavelliane»[98]

 

All'interno della complessità concettuale dell'effettualità, è possibile ridefinire il rapporto tra superstizione e ragione in una forma del tutto nuova e connessa ancora una volta con il tempo, o meglio con la percezione d'esso: l'uomo ha sì il naturale difetto «di non credere che possa essere quel che non è stato»,[99] ma altrettanto naturalmente non  riconosce il suo difetto in quanto tale, egli lo confonde dando vita a una forma di ''superstizione mascherata''. La critica che il Segretario fiorentino rivolge all'«