VOLNEY

 

 

A cura di Diego Fusaro

 

 

 

Constantin François de Chassebœuf, cónte di Volney (Craon 1757 - Parigi 1820), fu un filosofo e letterato francese. Viaggiò in America nel 1795 e vi rimase quasi per tre anni. Imprigionato nel corso della Rivoluzione francese, verrà liberato il 9 termidoro. Dopo aver viaggiato in Egitto e in Siria, rimanendo particolarmente colpito da quelle terre, nel 1791 pubblicò un’opera, alla quale è ancora oggi legato il suo nome: Les Ruines, ou méditations sur les révolutions des empires (Le rovine, ovvero meditazioni sulle rivoluzioni degli imperi). L’opera si apre con una lunga meditazione nel silenzio delle tombe della città di Palmira: in particolare, Volney si domanda quale sia il senso di quelle rovine e, in definitiva, del declino di quella città. Perché – egli si domanda – città un tempo ricche e felici decadono e si trasformano in un cumulo di macerie? Sull’onda di questi interrogativi – su cui, per inciso, ritornerà Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia, domandandosi quale sia il senso di quel “mattatoio” che è la storia –, egli si chiede se un giorno anche dove ora sorge Parigi non ci saranno soltanto rovine, testimonianze di una civiltà scomparsa, e un nuovo viaggiatore – come sta facendo lui con Palmira – ne piangerà la scomparsa. Il modello narrativo ricorda, in parte, quello utilizzato da Polibio (Storie 38, 22), che narra di Scipione che piangeva sulle rovine di Cartagine, nella convinzione che un giorno sarebbe toccata una sorte analoga anche a Roma. Come Scipione, anche Volney è in preda a una malinconia profonda nel constatare come le vicende dell’umanità non siano altro che un accumularsi di rovine su rovine, quasi come se nella storia regnasse una sorta di “cieca fatalità” che distrugge quanto di bello e di buono produce l’uomo. Proprio mentre nel suo libro Voney sta svolgendo queste considerazioni, ecco che si rizza inaspettatamente un “Genio”, il “Genio delle rovine”, che si propone di insegnare all’autore il significato profondo delle rovine. Sono gli uomini stessi – afferma il Genio – la fonte delle calamità umane, in quanto essi seguono ciecamente l’amore di sé, che di per sé è naturale ma che diventa funesto quando si accompagna all’ignoranza e alla cupidigia. Per questo motivo, le città – anche le più splendide – decadono immancabilmente, e il loro splendore si trasforma in un desolante cumulo di macerie. Ma se le cose stanno in questi termini e l’uomo è causa dei propri mali, allora – obietta Volney al Genio – la situazione è ancora più disperata del previsto, poiché non sembra esservi alcun rimedio possibile. A questo punto, il Genio ricorre alla nozione di “progresso” per confutare Volney: pur lasciando dietro di sé cumuli di macerie e di rovine, l’umanità avanza senza tregua e ciò risulta particolarmente evidente se si considera – dice il Genio – che ormai da parecchio tempo l’uomo non vive più nelle caverne, ma è entrato nella “civiltà”, ossia in uno stato progredito. Il corso generale della storia, se letto in trasparenza, rivela allora che la storia è sottoposta a un progresso incessante, irreversibile e “rettilineo”, che, pur tra improvvise e momentanee battute d’arresto, non impedisce mai del tutto l’avanzamento. Sotto le rovine, vi è un movimento sotterraneo, impercettibile, che fa “sporgere” ogni cosa in avanti, in un trascendimento incessante dei confini del presente. Anche quando tutto sembra fermo, la storia è in realtà in fase di avanzamento. Soprattutto con la più recente fase della storia, ossia con l’Illuminismo, la storia ha conosciuto – dice il Genio – un progresso accelerato, avanzando molto più rapidamente rispetto a quanto non fosse accaduto in passato. Questo avanzamento, attestato nel passato e oggi più che mai rapido e vorticoso, suffraga l’idea secondo cui la storia si configura come un processo in cui ogni cosa – dalla società alla politica, dall’economia all’arte – va incontro a un perfezionamento incessante. La storia è essa stessa sinonimo di progresso, secondo la grande convinzione illuministica. Certo, la strada da percorrere è ancora lunga e irta di difficoltà: tra queste, la più insidiosa è rappresentata dalle religioni, che pretendono di possedere monopolisticamente la verità. Ma nonostante queste difficoltà, la civiltà è in marcia verso il proprio costante perfezionamento, o – secondo la terminologia dell’epoca – verso il proprio “rischiaramento”. Le tenebre appartengono sempre più a un passato lontano, del tutto diverso da un futuro in cui ogni cosa si mostra alla luce della ragione. È questo il cuore dell’insegnamento del Genio. Se all’inizio della narrazione, Volney aveva abbracciato una concezione del tempo di tipo “circolare”, che si reggeva sulla “futuribilità” del passato e in cui la sorte rovinosa delle città passate era destinata ad abbattersi anche in futuro sulle città oggi splendenti, ora, grazie alla lezione impartitagli dal Genio, si è convinto che la Storia si configuri come una corsa unidirezionale, progressiva e irreversibile verso un perfezionamento complessivo: la verità sta nel futuro, secondo un tipico assunto illuministico. È particolarmente interessante il fatto che, nominato professore all’École normale, Volney tiene un ciclo di lezioni – le Leçons d’histoire – in cui insiste su questi temi.         

 

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