Adler, La dimensione sociale della vita psichica

Adolf Adler (1870-1937) afferma qui che la conoscenza dell’uomo non può prescindere dalla considerazione dei condizionamenti sociali che influiscono sulla vita psichica. La tendenza dell’individuo a realizzare la sicurezza e l’adattamento all’ambiente – sotto la spinta del senso di inferiorità e di insicurezza che agisce come stimolo costante – si trova a fare i conti con le esigenze della vita comunitaria e con la necessità di riconoscerne i valori.

 

A. Adler, Conoscenza dell’uomo

 

Per capire cosa si svolge in un uomo, è necessario sottoporre a una disamina il suo atteggiamento di fronte ai suoi simili. Le mutue relazioni degli uomini sono in parte date dalla natura, e come tali soggette a variazioni; in parte, su questa base, si determinano relazioni programmate, come è dato osservare in modo particolare nella vita politica dei popoli, nella formazione degli stati, nelle comunità. La vita psichica dell’uomo non può venir compresa senza considerare nello stesso tempo queste connessioni.

 

Verità assoluta. La vita psichica umana non è in grado di svolgersi svincolata, ma si trova costantemente davanti a compiti che le vengono posti dal di fuori. Tutti questi compiti sono inscindibilmente legati alla logica della vita comune umana, che costituisce uno di quei capitali condizionamenti che agiscono ininterrottamente sul singolo individuo e che si lasciano dominare dal suo influsso solo fino a un certo punto. Se ora consideriamo che neppure i condizionamenti della vita comune umana possono essere da noi definitivamente compresi, perché sono troppi, che inoltre tali esigenze sottostanno a una certa variazione, ci diventa chiaro che difficilmente siamo in grado di chiarire completamente le oscurità di una vita psichica che ci sta davanti, difficoltà questa che diventa tanto piú grande quanto piú ci allontaniamo dalle nostre proprie relazioni.

Uno dei basilari dati di fatto, tuttavia, necessari per acquistare la conoscenza dell’uomo, è la necessità di tener conto di quelle immanenti regole di gioco proprie del gruppo, quali spontaneamente risultano su questo pianeta in seguito alla limitata organizzazione del corpo umano e delle sue prestazioni, come di una verità assoluta, alla quale noi solo lentamente ci possiamo avvicinare, per lo piú dopo aver superato sbagli e sbandamenti.

Una parte significativa di tali basilari dati di fatto è affermata nella concezione materialistica della storia, elaborata da Marx e Engels. Secondo tale dottrina è la base economica, la forma tecnica colla quale un popolo procura il sostentamento della propria vita, che condiziona la “sovrastruttura ideologica”, il pensiero e il comportamento umano. A tanto si spinge anche la nostra concezione dell’attiva “logica della vita umana comune”, della “verità assoluta”. Tuttavia la storia (innanzitutto la nostra concezione della vita singola, la nostra psicologia individuale) ci insegna che la vita psichica umana risponde con facili errori alle sollecitazioni della piattaforma economica, errori dai quali solo lentamente si svincola. La nostra via verso “la verità assoluta” passa attraverso numerosi sbagli.

 

Spinta verso la comunità. Si possono comprendere le esigenze che stanno alla base della vita comune altrettanto bene quanto quelle che gli influssi atmosferici determinano sull’uomo, come la esigenza di ripararsi dal freddo, di costruirsi una casa, e simili. Osserviamo tale spinta verso la comunità – sia pure in una forma ancora incompresa – anche nella religione, dove, al posto del pensiero riflesso serve come legame della comunità la santificazione delle forme sociali. Come nel primo caso i condizionamenti della vita sono di carattere cosmico, cosí gli ultimi sono di carattere sociale, dovuti alla vita comunitaria dell’uomo e alle regole e finalità che spontaneamente ne risultano. Le esigenze comunitarie hanno regolato le relazioni degli uomini, e fin dall’origine si sono imposte come evidenti, come “verità assoluta”. Infatti, la comunità sussisteva prima della vita singola degli uomini. Non vi è nessuna forma di vita nella storia della cultura umana che non sia stata vissuta come sociale. In nessun luogo gli uomini sono apparsi in sistemi diversi da quello sociale. È facile spiegare tale situazione. In tutto il regno animale vige la legge fondamentale, che quelle specie che di fronte alla natura si trovano sottosviluppate, concentrano prima nuove forze unendosi, e quindi agiscono all’esterno in forma nuova e singolare.

Anche per l’umanità l’unione svolge lo stesso ruolo, e cosí avvenne che l’organo psichico dell’uomo fu completamente assorbito dai condizionamenti imposti dalla vita comune. Già Darwin osserva che non si trovano mai animali deboli che vivono soli; tra essi va annoverato in modo del tutto particolare l’uomo, perché anch’egli non è forte abbastanza da poter vivere solo. Egli può opporre alla natura solo una debole resistenza, gli occorre una quantità maggiore di mezzi per tirare avanti la sua esistenza e conservarsi. Basta figurarsi quale verrebbe ad essere la situazione di un uomo che si trovasse solo e senza i mezzi tipici della civiltà in una selva. La minaccia che incomberebbe su di lui sarebbe diversa che per ogni altro vivente: non ha la snellezza delle gambe, non dispone della forza muscolare degli animali robusti, non ha i denti degli animali rapaci, non l’udito fine e gli occhi acuti per superare un tale combattimento. Ed è enorme il dispendio capace di assicurargli il diritto all’esistenza, e la preservazione dalla rovina. Il suo cibo è singolare, e il suo modo di vita esige una protezione particolarmente intensa.

Ora è pensabile che un tale uomo possa conservarsi solo se si trova in una condizione particolarmente favorevole. Questa condizione gli fu offerta appunto dalla vita di gruppo, che si rivelò come una necessità, dal momento che solo il vivere insieme, attraverso una specie di divisione del lavoro, gli permise di fronteggiare compiti ai quali avrebbe dovuto soccombere se fosse rimasto solo. Soltanto la divisione del lavoro procurò all’uomo quelle armi di offesa e di difesa e in genere tutti quei beni di cui abbisognava per affermarsi, che oggi compendiamo sotto il concetto di civiltà. Se ora si pensa in mezzo a quali difficoltà vengono partoriti i bambini, come in quella circostanza si rendano necessari dispendi del tutto straordinari, ai quali il singolo neppure colla piú grande fatica potrebbe sobbarcarsi e che possono essere procurati solo mediante la divisione del lavoro, se ci si immagina a quale eccesso di malattie e di mancanze è esposto un essere umano soprattutto nell’età della prima infanzia – ben piú che gli altri animali –, si avrà una idea approssimativa dell’enorme quantità di cure necessarie ad assicurare la stabilità della società umana, e la percezione chiara della necessità di questo collegamento.

 

Sicurezza e adattamento. In base all’esposizione fin qui fatta dobbiamo concludere che, visto sotto l’aspetto naturale, l’uomo è un essere inferiore. Ma questa inferiorità, da cui è affetto, e che percepisce nella coscienza come sentimento di minorazione e di insicurezza, agisce da stimolo costante, che lo spinge a trovare una via atta a realizzare l’adattamento a tale vita e a preoccuparsi per creare delle situazioni in cui gli svantaggi della sua condizione umana nell’ambito della natura vengano compensati. E furono qui di nuovo ancora le sue facoltà psichiche che gli poterono procurare adattamento all’ambiente e sicurezza. Molto piú gravoso sarebbe stato cavar fuori dall’uomo-bestia primitivo un esemplare capace di tener fronte all’ostile natura mediante appendici come corna, artigli o zanne. In effetti, solo l’organo psichico era in grado di procurare aiuti tali da sopperire alle carenze organiche dell’uomo. E precisamente lo stimolo nato dal continuo sentimento dell’insufficienza, fece sí che l’uomo sviluppasse la previsione e portasse l’anima a quello sviluppo che oggi ci ritroviamo come organo del pensiero, del sentimento e dell’azione. E poiché in tali aiuti, in tali sforzi di adattamento, giocava un ruolo essenziale anche la società, l’organo psichico dovette fare i conti fin dall’inizio coi condizionamenti della comunità. Tutte le sue capacità si sono sviluppate su questa base e quindi portano con sé la tinta di una vita sociale. Ogni pensiero dell’uomo dovette assumere impronte tali da lasciar trasparire gli attributi tipici di una comunità.

Se ora ci si rappresenta come progredirono ulteriormente le cose, si arriva alle origini della logica con la sua intrinseca esigenza di universalità. Logico è soltanto ciò che è universale. Un ulteriore chiaro risultato della vita comunitaria lo troviamo nel linguaggio, opera meravigliosa che distingue l’uomo da tutti gli altri viventi. Non si può eliminare da quel tipico fenomeno che è il linguaggio, l’idea dell’universalità, il che indica la sua origine dalla vita sociale dell’uomo. Il linguaggio è del tutto superfluo per un essere che vive singolarmente. Si riferisce alla vita comunitaria degli uomini, è un suo prodotto e insieme un mezzo di collegamento. Una rigorosa dimostrazione di questo nesso sta nel fatto che uomini cresciuti in condizioni tali da rendere difficoltoso o impedire il loro contatto con altri uomini, o addirittura da rinunciare a tale contatto, quasi regolarmente possiedono un linguaggio o una capacità di linguaggio menomati. È come se tale vincolo si fosse potuto formare e conservare solo in funzione del contatto coll’umanità. Il linguaggio ha un significato straordinariamente profondo per lo sviluppo della vita psichica umana. Il pensiero logico è possibile soltanto presupponendo il linguaggio, il quale soltanto, attraverso la possibilità della concettualizzazione, ci mette in grado di stabilire distinzioni, formare concetti, cose che non sono proprietà privata ma pubblica. Anche il nostro pensiero e il nostro sentimento sono concepibili solo presupponendo l’universalità: la nostra gioia della bellezza riceve il suo fondamento solo nella comprensione che il sentimento e il riconoscimento del bello e del bene è universale. Cosí arriviamo a riconoscere che i concetti di ragione, di logica, di etica e di estetica possono avere la loro origine solo nella vita comunitaria dell’uomo, che essi però sono nello stesso tempo il cemento che protegge la cultura dalla decadenza.

In base alla situazione del singolo uomo è anche concepibile il suo volere. La volontà non rappresenta null’altro che un movimento per arrivare da un sentimento di insufficienza a un sentimento di sufficienza. Raffigurarsi questa linea, sentirla e percorrerla, si chiama “volere”. Ogni volere ha a che fare col sentimento di insufficienza, di inferiorità; libera l’energia e determina l’inclinazione atte a instaurare uno stato di soddisfazione, di contentezza, di piena validità.

 

Senso comunitario. Ora comprendiamo come quelle regole di gioco: educazione, superstizione, totem e tabú, legislazione, che erano necessarie ad assicurare la consistenza della razza umana, dovettero innanzitutto rappresentare un riconoscimento dell’idea comunitaria. L’abbiamo visto negli indirizzi religiosi, troviamo esigenze comunitarie nelle piú importanti funzioni dell’organo psichico, le ritroviamo nelle esigenze della vita del singolo come in quelle della totalità. Ciò che chiamiamo giustizia, ciò che consideriamo come l’aspetto luminoso del carattere umano, non è altro nella sua essenza che l’adempimento di esigenze scaturite dalla vita comunitaria degli uomini. Sono esse che hanno formato l’organo psichico. Cosí avviene che la fiducia, la fedeltà, l’apertura, l’amore della verità e simili, sono precisamente esigenze stabilite e mantenute mediante l’universale principio della comunità. Ciò che chiamiamo un buono o un cattivo carattere può venir giudicato tale solo in relazione alla comunità. Le caratteristiche relative a ogni realizzazione in campo scientifico, o di indole politica o di genere artistico sono sempre e soltanto giudicate come grandi e valide, in quanto hanno un valore per la totalità. Un modello ideale, preso come misura del singolo, si costituisce soltanto in considerazione del valore e dell’utilità che assume in rapporto alla comunità. Ciò con cui paragoniamo il singolo è il modello ideale di un uomo nella comunità, ossia di un uomo che ha sviluppato in sé talmente il senso comunitario da seguire costantemente – secondo un detto del Fortmüller – “le regole di gioco della comunità umana”. Dal corso delle nostre esposizioni risulterà chiaro che nessun uomo completo in senso pieno può crescere senza curare e realizzare sufficientemente il senso comunitario.

 

Freud - Adler - Jung, Psicoanalisi e filosofia, a cura di A. Crescini, La Scuola, Brescia, 1983, pagg.108-117