Apel, Sul fallibilismo

Confrontandosi con le posizioni di altri filosofi tedeschi contemporanei, Apel si impegna in una forte confutazione del relativismo assoluto. Egli imposta il rapporto certezza-dubbio alla maniera di Agostino e insiste sulla possibilità di una “fondazione pragmatico-trascendentale” della morale (influenza di Kant), che parte dal diritto di tutti alla dignità dialogica, fondato sulla ragione. [Rorty è un filosofo americano di orientamento postmoderno, noto esponente di un relativismo molto accentuato, legato all’ermeneutica].

 

K. O. Apel, Il paradosso del fallibilista 

 

Dagli anni 70 ho sostenuto che una fondazione ultima – una fondazione pragmatico-trascendentale della filosofia pratica e teorica – è possibile. Habermas è molto distante da tutto questo. Negli ultimi anni egli sostiene un principio senza restrizioni secondo cui “tutto è fallibile”. Da qui la nostra principale divergenza. Anch’io sono un fallibilista. Ma ad Habermas dico: il significato profondo del fallibilismo non può essere compreso se non si presume che almeno qualcosa non sia fallibile. Tra i giochi linguistici immaginati da Wittgenstein ve n’è anche uno in cui parliamo dei giochi linguistici in generale. Questo è il gioco linguistico trascendentale.

Chi dice “Tutto è fallibile” rientra in questo gioco. Ma che cosa significa l’espressione “Tutto è fallibile”? Se non ci sono verità a cui si possano contrapporre delle falsità, non sarà possibile nessun discorso, nessun’affermazione, compresa quella secondo cui “tutto è fallibile”. Non posso dubitare se non presuppongo qualche certezza, qualche cosa che non può essere messo in dubbio. Tutti i giochi linguistici poggiano su paradigmi di certezza. Anzi, direi che è soprattutto il gioco del dubbio a presupporre certezze. Altrimenti il dubbio stesso diventa impossibile.

Tra i presupposti dei giochi linguistici ce ne sono alcuni molto importanti che non possono essere negati senza cadere in gravi auto-contraddizioni performative. Per esempio, non posso dire, come fa Rorty, “non ho pretese di verità”, perché anche la sua è una pretesa di verità. Rorty risponde che non è vero, che la sua è solo conversazione. Mi spiace per Rorty, perché in questo modo sarà impossibile parlare e argomentare con lui. Visto che non ha nessuna pretesa di verità, sarà impossibile criticarlo. E sottrarsi alla critica è sleale. Cosí come è scorretto, invece di parlare con frasi compiute, rivolgersi a qualcuno con un “lalalà”: che senso ha parlare e discutere con lui? Se io chiedo a Rorty: “Di che cosa mi vuoi convincere? quale è la tua pretesa?” e lui risponde: “Non ho nessuna pretesa”, non vedo perché dovrei discutere con lui. Popper ha detto giustamente che la piú grande colpa di un filosofo è quella di non essere criticabile. Rorty è assolutamente impossibile da criticare. Per lui tutto è conversazione, non ci sono criteri, ragioni, pretese di verità.

[...]

Tra le cose che non si possono negare, pena il cadere in una autocontraddizione performativa come quella appena descritta, ci sono alcune norme etiche fondamentali. Una di queste è quella secondo cui esiste un eguale diritto per tutti a poter comunicare e argomentare. Non ci devono essere restrizioni a questa norma: tutti abbiamo un identico diritto di parlare su ogni singolo problema. Un’altra norma è quella della eguale corresponsabilità nell’affrontare e risolvere i problemi. Io credo che esista una fondazione pragmatico-trascendentale che renda possibile l’etica. Questa è sempre stata la principale differenza tra Habermas e me. Nel suo ultimo grande lavoro Fatti e norme emergono però nuovi problemi e nuove divergenze. Io non posso essere d’accordo con la sua strategia di differenziazione dei discorsi (morale, giuridico e democratico), né con l’idea secondo cui il principio del discorso è moralmente neutrale: in questo modo egli distrugge l’“etica del discorso” che avevamo condiviso. Io continuo ad essere convinto – e non vedo buone ragioni per negarlo – che l’etica del discorso sia quella che informa le norme etiche fondamentali: chiunque sia impegnato in un’argomentazione deve avere dei principi e conoscere certe norme fondamentali, basate sugli eguali diritti e responsabilità di cui dicevo.

In Fatti e norme, inoltre, Habermas pone il diritto allo stesso livello della morale. Non ci sarebbe un fondamento morale del diritto, perché entrambi starebbero allo stesso livello originario. Ancora. Per Habermas il principio del diritto sarebbe identico al principio della democrazia. Non sono d’accordo. Anch’io sono favorevolissimo alla democrazia, ovviamente. Ma non credo che la si possa porre allo stesso livello di originarietà e di universalità del diritto e della morale. Alcuni principi di fondo su cui si basa la democrazia possono essere criticati: per esempio, il principio maggioritario. È vero che ciò che oggi abbiamo di meglio è la democrazia. Ma che il principio maggioritario sia sempre giustificato è una questione aperta.

Quanto all’etica, bisogna dire che ci sono due prospettive che non possono essere separate completamente, ma che comunque vanno distinte. Da una parte vi è la domanda relativa al come e al perché possiamo avere una vita buona o una vita felice. Dall’altra invece abbiamo un’etica della giustizia, il cui principio fondamentale afferma che tutti gli individui hanno lo stesso diritto di scegliere il proprio ideale di vita. È questo il livello dei diritti umani universali, che ci evita di cadere nello storicismo e nel relativismo: si tratta di accettare l’ineliminabile pluralità e differenza delle visioni morali garantendo a tutti il diritto alla libera scelta.

 

A. Massarenti, Il paradosso del fallibilista,  IL SOLE-24 0RE, 10 agosto 1997, n. 218