APEL, IL PROBLEMA DELLA FONDAZIONE DI UN'ETICA DELLA RESPONSABILITA'


Ora, a che punto è l'applicazione dell'etica del discorso, fondata più sopra, alla problematica del regolamento dei conflitti nell'era atomica, regolamento a cui oggi tocca la funzione chiave all'interno della problematica dell'etica politica?.

 

A questo punto diventano del tutto evidenti le difficoltà fondamentali di quella che ho chiamato la Parte B dell'etica. Infatti, a questo punto, con il tentativo di un'applicazione immediata della norma fondamentale, fin qui esplicitata, dell'etica del discorso, si arriva al conflitto, delineato da Max Weber, tra una pura etica dell'intenzione e un'etica della responsabilità delle conseguenze. Di fronte allo stato di natura, antecedente allo stato di diritto, sorge infatti, a livello di relazioni tra gli Stati, la questione se qui, in generale, si possa esigere l'applicazione dell'etica del discorso da noi fondata. (E con questa questione vorrei riprendere, in forma modificata, l'obiezione, precedentemente respinta come ingiustificata, contro la rilevanza etica del paradigma del discorso).

 

Tra le condizioni istituzionali degli Stati di diritto democratico è senz'altro da esigere, come si è accennato l'applicazione della norma fondamentale dell'etica del discorso. Infatti, qui si tratta semplicemente di elevare l'idea regolativa delle già istituzionalizzate procedure di fondazione delle norme a massima cosciente dell'agire: dell'agire nel senso della partecipazione alla formazione comunicativa del consenso e dell'agire nello spirito delle norme capaci di suscitare consenso. Normalmente, non si arriva qui a un conflitto tra responsabilità delle probabili conseguenze dell'azione e massima formale dell'intenzione dell'azione, giacché il principio della capacità di suscitare consenso da parte delle conseguenze deltazione determina sia il contenuto della massima dell'intenzione dell'etica del discorso, sia l'idea regolativa delle procedure istituzionalizzate della fondazione delle norme. Come già abbiamo notato in precedenza, è unicamente la valutazione cognitiva delle probabili conseguenze di azioni o di norme da fondare discorsivamente che determina qui le difficoltà d'applicazione.

 

diversa è, invece, la situazione a livello delle relazioni internazionali. Infatti, nelle condizioni dello stato di natura pregiuridico delle relazioni tra Stati come sistemi di autoaffermazione, già l'ipotesi di condizioni del discorso sufficientemente realizzate tende, nelle trattative politiche, a una rischiosa anticipazione controfattuale di una remota situazione ideale. Così, perlomeno, nella situazione, determinata in modo primario da regole strategiche d'interazione, della relazione tra Stati o blocchi di potenze tra loro in conflitto. In questa situazione, di fronte ai rischi per la sicurezza, le regole dell'autoaffermazione strategica stessa si affermano ancora come norme eticamente rilevanti: come doveri morali vincolanti di difesa e di conservazione per i politici responsabili e anche per i semplici cittadini nei confronti del sistema di autoaffermazione, a cui essi appartengono e che devono garantire con azioni politicamente rilevanti. Qui, perciò, la separazione, richiesta dall'etica dei discorso, tra la razionalità di una formazione discorsiva del consenso e la razionalità dell'agire strategico può portare a un conflitto, eticamente rilevante, tra norme: al conflitto, cioè, tra la fondamentale norma ideale dell'etica del discorso e l'obbligo di un politico responsabile, o di un cittadino, a una riserva strategica nei confronti dell'avversario politico. Chi agisce responsabilmente (politico o cittadino), infatti, non deve disconoscere all'avversario la disponibilità a regolare discorsivamente i conflitti per esempio, dipingerlo come il rappresentante del male né deve fiduciosamente supporgli una disponibilità senza riserve al discorso. Piuttosto egli ha motivo di supporre nell'avversario riserve strategiche nei confronti del puro principio del discorso già per il fatto che quello si trova, rispetto a se stesso, nell'identica situazione d'incertezza e di rischio per la sua sicurezza.

 

È questa la paradossale situazione di fondo, di fronte alla quale si vede posta un'etica politica della responsabilità in un mondo di sistemi di autoaffermazione in conflitto; e il fatto di non poter tenere conto di questa situazione, anzi di non intravederne neanche la struttura, costituisce la principale aporia dell'etica - religiosa e filosofica - dell'intenzione. Ciò appare in una forma particolarmente radicale, e addirittura tragica, di fronte alla sfida della crisi strategico-nucleare del regolamento politico dei conflitti tra uomini. In che senso?

 

Qui, per la prima volta nella storia universale, allo scatenarsi di una guerra su vasta scala è congiunto il rischio dell'esistenza per entrambe le parti, nonché per l'umanità.

 

Qui è certo evidente la prospettiva che sulla base, da una parte, della comprensione del rischio che corre l'umanità, dall'altra, del principio razionalmente ben fondato dell'etica del discorso "si" dovrebbe e potrebbe avviare semplicemente un nuovo corso razionale delle relazioni umane e, quindi, anche del regolamento dei conflitti. La plausibilità di questa prospettiva viene ulteriormente rafforzata dal rinvio, facilmente motivabile, ai rischi, già in periodo di pace collegati all'automatismo della corsa agli armamenti - per esempio, riguardo alle svanenti chances di una comune soluzione dei problemi della crisi ecologica. Tuttavia, la prospettiva di un nuovo, radicale corso da parte di tutti gli uomini, sulla base dell'etica del discorso, tende all'illusione dell'etica dell'intenzione - a una pretesa che (purtroppo) non rappresenta per chi agisce politicamente un'opzione realizzabile livello dell'etica della responsabilità.

 

Chi agisce con funzioni di responsabilità politica non può e non deve, in base al suo obbligo di difesa e di conservazione nei confronti del sistema sociale di autoaffermazione di cui è garante, ritenere realizzabile il salto immediato nella situazione, presupposta necessariamente nell'argomentare serio e anzi anticipata controfattualmente, delle condizioni ideali del discorso. Nel suo agire egli deve collegarsi, anche nel senso della riserva strategica, alle condizioni, determinatesi storicamente, della realtà politica. Infatti, senza questa riserva, che in eventuali trattative gli impone di ricorrere alla minaccia dell'uso della forza nella misura che di volta in volta la tecnica militare determina, egli sarebbe costretto ad accollarsi un rischio non responsabilizzabile per la sicurezza, non per se stesso ma per il sistema sociale di autoaffermazione.

 

Da queste considerazioni appare chiaro, a mio avviso, che noi, in realtà, con la fondazione razionale dell'etica del discorso (con la risposta alla sfida interna alla ragione da parte della scienza), non abbiamo ancora dato una risposta soddisfacente al problema dell'applicazione di quest'etica alle condizioni reali. Nel passaggio dalla fondazione all'applicazione dell'etica del discorso si verifica, per così dire, un insuperabile iato qualitativo tra i due momenti dell'etica. Questo iato è necessariamente esistito da sempre; tuttavia, di fronte alla sfida esterna alla ragione da parte delle implicazioni tecniche della scienza esso si fa presente alla coscienza con particolare evidenza, anzi con un'acutezza paradossale. Tuttavia, se questa analisi è corretta, sorge allora la questione se l'etica del discorso, fondata da quanto si è fin qui detto, è, in generale, applicabile in quanto etica della responsabilità.

 

Effettivamente, dalla situazione tratteggiata, le persone "perfettamente lucide" del nostro tempo sono non raramente arrivate a conclusioni che tendono a una sostituzione (o confusione?) dell'etica politica della responsabilità mediante (o con) un'amorale "Realpolitik". Così, si è proposto, per esempio, di risolvere i problemi della crisi strategico-nucleare del regolamento dei conflitti mediante il programma, frutto della razionalità puramente strategica, della "stabilizzazione dell'antagonismo" ". Nel presente contesto, non posso addentrarmi nei dettagli di questa proposta. Vorrei soltanto attirare l'attenzione su di un'implicazione che mostra, in maniera sufficientemente chiara, anche l'esistenza di qualcosa di simile alle illusioni delle persone "perfettamente lucide", che rappresentano il corrispettivo delle illusioni dei "sostenitori dell'etica dell'intenzione".

 

Il programma amorale della "stabilizzazione dell'antagonismo" è senza dubbio in grado di sviluppare un'analisi e una valutazione critiche di quelle strategie politiche che sono in grado di provocare una destabilizzazione dell'equilibrio tecnologico-militare tra le superpotenze e di procurare dei pericoli per la pace mondiale. Per questo, il programma può venir posto al servizio di un'etica politica della responsabilità. Tuttavia, di per sé (come modello di una razionalità puramente strategica), il programma non è in grado di motivare perché la stabilizzazione dell'antagonismo mediante il reciproco "avvitarsi della spirale degli armamenti" sia da giudicare diversamente dall'attenzione al mantenimento di identiche condizioni di stabilità mediante una politica del disarmo controllato di entrambe le parti o della trasformazione degli armamenti a fini non aggressivi. Questa distinzione non avalutativa si ha solo mettendosi dal punto di vista di un'etica politica della responsabilità. Essa è però di tale peso che può quasi già valere come risposta dell'etica alla sfida della crisi strategico-nucleare -per esempio, nel caso in cui il disarmo controllato o la trasformazione degli armamenti venisse accompagnata da una politica di "misure capaci di creare la fiducia" e di "miglioramento delle relazioni umane" tra sistemi in conflitto.

 

Questi pochi accenni alla possibilità e necessità di porre la razionalità strategico-tecnica del regolamento dei conflitti al servizio di un'etica politica della responsabilità mostrano già, a mio avviso, che il dilemma, tratteggiato più sopra, dell'applicazione dell'etica non può essere semplicemente irrisolvibile. Più precisamente: l'aporia dell'applicazione dell'etica del discorso, in quanto etica de0ntenzione, non deve già implicare l'impossibilità di un'applicazione dell'etica del discorso quale etica politica della responsabilità. Per dimostrarlo occorre certamente una più ampia esplicitazione della norma fondamentale, risolventesi in un'aggiunta alla sua precedente formulazione.

 

A questo punto, si rivela come decisamente importante il fatto che noi, più sopra, non abbiamo accolto l'ipotesi che il discorso argomentativo sia un'impresa al di là di ogni autentico conflitto morale, di modo che anche le sue condizioni normative non possano avere una rilevanza morale. Effettivamente, il discorso argomentativo implica, in base al suo principio istituzional-costitutivo, un'anticipazione controfattuale di condizioni ideali della comunicazione, nel senso della separazione tra razionalità strategica e razionalità discorsiva. Riguardo ai discorsi reali, empiricamente riscontrabili, risulta, da questa anticipazione controfattuale, un principio regolativo per il comportamento dei partecipanti al discorso. Ciò vuol dire che gli effettivi partecipanti al discorso rimangono pienamente esposti alla possibile tensione conflittuale tra i loro interessi di autoaffermazione e il principio procedurale, moralmente determinante, del regolamento puramente consensual-comunicativo dei conflitti di interesse. Rimangono esposti, per esempio, alla tentazione di far valere, con espedienti strategico-retorici a spese della veridicità, il loro interesse per un determinato risultato del discorso, rispetto al problema di risolvere i conflitti che direttamente li riguardano. Ora, a simili tentazioni ogni argomentante serio deve opporsi non solo caso per caso; oltre a ciò egli deve sforzarsi di rendere conformi alla norma procedurale del discorso ideale la massima del suo personale atteggiamento di fondo, e questo stesso in base ad essa. Gli argomentanti sottostanno dunque, fin dall'inizio, anche all'esigenza etica di realizzare secondo le possibilità la situazione ideale, controfattualmente anticipata, di una comunità ideale della comunicazione, e così di colmare progressivamente il profondo divario tra le condizioni di fatto della comunicazione e quelle anticipate. Ogni serio argomentante deve già da sempre aver implicitamente riconosciuto anche questa esigenza etica dell'eliminazione degli ostacoli di fatto opponentisi alla soluzione puramente discorsiva dei problemi. Ma proprio da ciò deriva, come si deve ora mostrare, il principio regolativo di un'etica politica della responsabilità.

 

Questo si può mostrare con una successione dialettica dei tre stadi dell'argomentazione. Il primo stadio (1) esplicita soltanto la massima dell'agire nel senso dell'ideale norma fondamentale dell'etica del discorso, cioè nel senso dell'anticipazione controfattuale delle condizioni ideali del discorso anche tra sistemi reali di autoaffermazione (per esempio, tra Stati in conflitto). Il secondo stadio (2) esplicita il dovere della difesa e della conservazione, proprio del politico o del cittadino nei confronti del suo sistema di autoaffermazione, nel quale fallisca l'applicazione, spettante all'etica dell'intenzione, del principio del discorso. Infine, il terzo stadio (3) esplicita il dovere, già implicito nell'abbozzata situazione fondamentale dell'effettivo partecipante al discorso, di modificare, in tempi lunghi, quei rapporti che causano il profondo divario tra le condizioni ideali della comunicazione e quelle reali (politiche) della comunicazione e interazione tra sistemi di autoaffermazione. Il dovere, qui da ultimo accennato, può essere esplicitato quale principio regolativo della mediazione, riferita a una situazione, tra pensare e agire consensual-comunicativi e pensare e agire strategici. Tuttavia, in quanto strategia morale di lunga durata, esso assoggetta questa specifica mediazione non solo agli imperativi del management delle crisi nel senso di un'amorale Realpolitik, ma, oltre a ciò, l'assoggetta al fine di un mutamento efficace in tempi lunghi dei rapporti politici nel senso del superamento dell'antitesi di (1) e (2) e, quindi, del conflitto tra l'etica dell'intenzione e l'etica politica della responsabilità.

 

Con ciò è formulato, a mio avviso, il principio sufficiente di un'applicazione della norma fondamentale dell'etica del discorso sul piano di un'etica politica della responsabilità. Questo principio sarebbe ora da esplicitare ulteriormente riguardo alla sua possibile applicazione alla problematica dell'organizzazione politica internazionale della responsabilità solidale degli uomini nell'epoca della scienza; in questo contesto, in particolare riguardo ai problemi, anch'essi formatisi solo ora per le conseguenze tecniche della scienza, della crisi strategico-nucleare del regolamento politico dei conflitti.

 

Più sopra abbiamo già accennato in cosa potrebbe consistere l'applicazione della strategia morale, da noi postulata, del mutamento in tempi lunghi dei rapporti politici in riferimento al problema della cosiddetta "stabilizzazione dell'antagonismo". Non possiamo sviluppare qui questa problematica, ma vorremmo almeno accennare, riguardo alla richiesta mediazione tra pensiero e agire consensual-comunicativi e pensiero e agire strategici, a una massima dell'applicazione, riferita a una situazione, del principio di mediazione. In base a tale massima è evidentemente importante tener conto sia dell'esigenza di evitare un rischio così grande per la sicurezza, sia, d'altra parte, del postulato del mutamento in tempi lunghi dei rapporti, nel senso di rendere possibili i discorsi liberi da costrizioni per la soluzione dei conflitti. Ne risulta, per l'etica politica della responsabilità, la massima: ricorso alle procedure strategicbe (per esempio, minaccia di ritorsione e simili), tanto quanto necessario; "preadempimenti", nel senso di anticipazione dei meccanismi consensual-discorsivi per la soluzione dei conflitti (per esempio, "misure che creino fiducia"), tanto quanto possibile.

 

[Karl Otto Apel, Il problema della fondazione di un'etica della responsabilità nell'epoca della scienza, in AA. VV. Tradizione e attualità della filosofia pratica, Marietti, Genova 1988, p. 36 e ss.]