Bakunin, Lo statalismo di Marx

Bakunin accusa Marx di volere che nella società socialista tutto il potere sia concentrato nelle mani dello Stato. Il filosofo tedesco non capisce dove c’è lo Stato, c’è inevitabilmente oppressione e schiavitú ed i lavoratori che andranno al potere saranno inevitabilmente ex-lavoratori e uomini di Stato. “Chi può dubitare di ciò non sa niente della natura umana”.

 

M. Bakunin, Stato e anarchia

 

Questo è il programma di Lassalle, questo è anche il programma del partito democratico socialista. In realtà questo programma non è di Lassalle ma di Marx che lo enunciò esaurientemente nel suo famoso Manifesto del partito comunista pubblicato, da lui e da Engels, nel 1848. Un esplicito richiamo ad esso è fatto nel primo Manifesto dell’associazione internazionale scritto da Marx nel 1864, con le parole: il primo dovere della classe operaia consiste nella stessa conquista del potere politico o, come è detto nel manifesto comunista: il primo passo nella rivoluzione dei lavoratori deve consistere nell’elevazione del proletariato al rango di casta dominante. Il proletariato deve concentrare tutti gli strumenti di produzione nella mani dello Stato vale a dire del proletariato elevato al rango di casta dominante.

Non è chiaro perciò che il programma di Lassalle non si differenzia in nulla dal programma di Marx che egli riconosceva come proprio maestro? Nell’opuscolo contro Schultze-Delitzsch, Lassalle dopo aver esposto con la ricchezza veramente geniale che caratterizza i suoi scritti le proprie concezioni fondamentali sull’evoluzione politica e sociale della nuova società ammette sinceramente che queste idee e la stessa terminologia non sono sue ma del signor Marx che per primo le ha formulate e sviluppate nella sua opera straordinaria ancora inedita.

Tanto piú singolare appare quindi la protesta del signor Marx inserita dopo la morte di Lassalle, nella prefazione all’opera sul Capitale. Marx vi si lagna amaramente del furto di Lassalle, il quale si sarebbe appropriato delle sue idee. La protesta è incredibilmente strana da parte di un comunista che predicando la proprietà collettiva non capisce che un’idea una volta pronunciata non appartiene piú a un individuo. La cosa sarebbe stata diversa se Lassalle gli avesse copiato una o piú pagine, ciò sarebbe stato un plagio e la prova del fallimento intellettuale di uno scrittore incapace di digerire le idee degli altri e di riprodurle mediante un proprio lavoro intellettuale, sotto forma originale. Cosí agirono solo gli uomini sprovvisti di capacità intellettuali o disonesti per vanità, i corvi con penne di pavone.

Ma Lassalle era troppo intelligente e indipendente perché gli fosse necessario ricorrere a mezzi tanto meschini per attirare su di sé l’attenzione del pubblico. Era vanitoso, molto vanitoso come s’addice a un ebreo ma nello stesso tempo era dotato di qualità tanto brillanti che avrebbe potuto soddisfare senza troppe difficoltà le esigenze della vanità piú ricercata. Era intelligente, istruito, ricco, abile e estremamente audace; possedeva in grandissima misura le doti della dialettica e dell’eloquenza, della chiarezza di comprensione e di esposizione. Al contrario del suo maestro Marx che è forte in teoria, in intrighi segreti e sotterranei e perde in compenso la sua forza e il suo valore nella pubblica arena, Lassalle si sarebbe detto fatto apposta per la lotta aperta sul terreno pratico. L’abilità dialettica e la forza della logica stimolate dall’amor proprio attizzato dalla lotta sostituivano in lui il rigore delle convinzioni appassionate. Esercitava un’enorme influenza sul proletariato ma era ben lontano dall’essere un uomo del popolo.

Per il suo genere di vita, la sua condizione, le sue abitudini, i suoi gusti era strettamente legato alla classe borghese, ai cosiddetti leoni della gioventú dorata. Naturalmente li superava di tutta la testa, regnava con quell’intelligenza grazie alla quale si trovò alla direzione del proletariato tedesco. Nel volgere di alcuni anni si acquistò un’immensa popolarità. Tutta la borghesia liberale e democratica odiava profondamente Lassalle; i suoi compagni d’idea, i socialisti, i marxisti e lo stesso maestro Marx, concentrarono su di lui la violenza della loro maligna gelosia. Sí, l’odiarono esattamente come la borghesia, ma fin che visse non ardirono manifestargli il loro odio perché era troppo forte per loro.

Abbiamo già dichiarato piú d’una volta la nostra viva ripugnanza per le teorie di Lassalle e di Marx che raccomandano ai lavoratori se non proprio come supremo ideale almeno come immediato e principale obiettivo la fondazione di uno Stato popolare che, come loro stessi hanno spiegato, non sarebbe altro che “il proletariato elevato al rango di casta dominante”.

Se il proletariato, ci si chiede, diverrà la casta dominante sopra chi dominerà? Ciò significa che rimarrà ancora un altro proletariato sottomesso a questa nuova dominazione, a questo nuovo Stato. È questo il caso, per esempio, della plebaglia contadina che, come è noto, non gode della benevolenza dei marxisti e che, trovandosi al grado piú basso di cultura, sarà evidentemente governata dal proletariato delle città e delle fabbriche; oppure, se consideriamo la questione dal punto di vista nazionale, prendendo gli slavi rispetto ai tedeschi, i primi per lo stesso motivo staranno, nei confronti del proletariato tedesco vittorioso, nella stessa servile soggezione in cui ora questi ultimi si trovano nei confronti della loro borghesia.

Dove c’è lo Stato c’è inevitabilmente la dominazione e di conseguenza la schiavitú; lo Stato senza la schiavitú, aperta o mascherata, è inconcepibile; ecco perché siamo nemici dello Stato.

Che cosa vuol dire il proletariato organizzato in casta dominante? È mai possibile che l’intero proletariato si ponga alla testa del governo? I tedeschi sono circa 40 milioni. È forse possibile che tutti questi 40 milioni divengano membri del governo? Che tutto il popolo governi e che non ci siano governati? In questo caso non ci sarà governo, non ci sarà Stato; ma se ci sarà uno Stato ci saranno governati, ci saranno schiavi.

Questo dilemma è risolto semplicisticamente nella teoria marxiana. Con governo popolare essi intendono il governo del popolo da parte di un piccolo numero di rappresentanti eletti dal popolo. L’universale diritto d’elezione da parte di tutto il popolo, dei sedicenti rappresentanti del popolo e dei governanti dello Stato, questa è l’ultima parola dei marxiani come pure della scuola democratica, è una bugia che nasconde il dispotismo di una minoranza dirigente tanto piú pericolosa in quanto si presenta come l’espressione della cosiddetta volontà del popolo.

Cosí da qualsiasi parte si esamini questa questione si arriva sempre allo stesso spiacevole risultato: al governo dell’immensa maggioranza delle masse popolari da parte di una minoranza privilegiata. Ma questa minoranza, ci dicono i marxiani, sarà di lavoratori. Sí, certamente, di ex lavoratori i quali non appena divenuti governanti o rappresentanti del popolo non saranno piú lavoratori e guarderanno il mondo del lavoro manuale dall’alto dello Stato; non rappresenteranno piú da quel momento il popolo ma se stessi e le proprie pretese di voler governare il popolo. Chi può dubitare di ciò non sa niente della natura umana.

Ma questi eletti saranno socialisti ardenti, convinti e per di piú scientifici. Queste parole “socialisti scientifici”, “socialismo scientifico” che s’incontrano costantemente nelle opere e nei discorsi dei lassaliani e dei marxiani provano per se stesse che il cosiddetto Stato popolare non sarà nient’altro che il governo dispotico della massa del popolo da parte di una aristocrazia nuova e molto ristretta di veri o pseudoscienziati. Il popolo, dato che non è istruito, sarà completamente esonerato dalle preoccupazioni di governo e sarà incluso in blocco nella mandria dei governati. Che bella liberazione!

I marxisti si rendono conto di questa contraddizione e coscienti che un governo di scienziati, il piú opprimente, il piú offensivo e il piú spregevole del mondo, sarà nonostante tutte le forme democratiche una vera dittatura, si consolano con l’idea che questa dittatura sarà provvisoria e di breve durata. Dicono che la sua unica occupazione e il suo unico intento sarà quello di educare e di elevare il popolo sia economicamente che politicamente a un livello in cui ogni governo diverrebbe ben presto inutile, e lo Stato perdendo ogni suo carattere politico e cioè di dominazione si trasformerà da sé in una organizzazione assolutamente libera degli interessi economici e dei comuni.

Abbiamo qui una flagrante contraddizione. Se lo Stato fosse veramente popolare perché sopprimerlo? E se la sua soppressione è necessaria per l’emancipazione reale del popolo come si osa chiamarlo popolare? Con la nostra polemica nei loro confronti abbiamo fatto loro confessare che la libertà o l’anarchia, vale a dire la libera organizzazione delle masse operaie dal basso in alto, è la meta finale dell’evoluzione sociale e che perciò ogni Stato, non escluso il loro Stato popolare, è un giogo il che vuol dire che esso da una parte genera il dispotismo e dall’altra la schiavitú.

 Dicono che questo giogo dello Stato, questa dittatura è una misura transitoria necessaria per poter raggiungere l’emancipazione integrale del popolo; l’anarchia o la libertà sono il fine, lo Stato o la dittatura sono il mezzo. E cosí per emancipare le masse popolari si dovrà prima di tutto soggiogarle.

 

M. Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli, Milano, 1979, pagg. 209-212