Bentham, Sull’utilitarismo

Per Jeremy Bentham il principio dell’utile è di per sé cosí evidente che non è necessaria un’analisi accurata per dimostrare che esso sta a fondamento della morale.

 

J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione

 

“Utilità” è un termine astratto. Esso esprime la capacità e la tendenza di una cosa a preservarci da qualche male o a procurarci del bene. “Male” significa pena, dolore o causa di dolori. “Bene” è gioia o fonte di piaceri. È conforme all’utilità o all’interesse dell’individuo tutto quanto tende ad aumentare la somma totale del suo benessere. Ciò che è conforme all’utilità o all’interesse di una comunità, è quanto tende ad aumentare la somma totale del benessere degli individui che la compongono.

Un “principio” è l’idea prima assunta come premessa o base del ragionare. Costituisce il gancio fisso, tanto per portare un esempio pratico, al quale si attacca il primo anello di una catena. S’impone che il principio sia evidente: è sufficiente poi chiarirlo e spiegarlo per farlo riconoscere. È come gli assiomi della matematica; non vengono provati per via diretta, ma non è possibile respingerli senza cadere nell’assurdo. La “logica dell’utilità” consiste nel partire dal calcolo o dal raffronto delle pene e dei piaceri attraverso tutte le operazioni del giudizio, senza farvi entrare alcun’altra idea.

Io mi valgo del principio dell’utilità ogni qualvolta convalida la mia approvazione o disapprovazione di un atto privato o pubblico sulla potenzialità, dell’atto in questione, a generare pene o piaceri; quando uso i termini “giusto”, “ingiusto”, “morale”, “immorale”, “buono”, “cattivo”, come termini collettivi che rispecchiano le idee di talune pene e di taluni piaceri, senza dar loro alcun altro significato: ben inteso che accolgo queste parole “pene” e “piaceri” nel loro senso volgare, senza affidarmi a definizioni arbitrarie allo scopo di escludere determinati piaceri o di negare l’esistenza di certe pene.

Bando alle elucubrazioni metafisiche: non è necessario consultare né Platone né Aristotele. “Pena” e “piacere ” è ciò che ciascuno sente come tale: il contadino come il signore, l’ignorante come il filosofo.

Per gli individui che seguono il principio dell’utilità, la virtú non è un bene che in rapporto ai piaceri che ne derivano; il vizio non è un male che in rapporto alle pene che genera. Il bene morale è tale soltanto in base alla sua capacità di produrre beni fisici, e il male morale per la sua tendenza a causare mali fisici, ma quando io dico “fisici” intendo le gioie e i dolori dell’anima, quanto le sofferenze e i piaceri del senso. Considero l’uomo tale quale è nella sua costituzione attuale.

Se coloro che accettano il principio dell’utilità, trovassero nell’arido catalogo delle virtú un’azione che generasse piú dolori che soddisfazioni, non indulgerebbero un istante a considerare questa pretesa virtú come un vizio, né si lascerebbero sopraffare dall’errata opinione generale. Nessuno crederebbe facilmente che l’impiego delle false virtú serva al mantenimento delle virtú autentiche.

Cosí pure se si trovasse tra i reati delle azioni che non recano danno alcuno, o dei piaceri innocenti, colui che segue il principio utilitaristico non tarderebbe un istante a classificare questi pretesi reati tra le azioni legittime, e nutrirebbe la massima comprensione per i presunti colpevoli, mentre riserverebbe tutta la sua indignazione per i cosiddetti virtuosi che li perseguitassero.

 

J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e legislazione, in Sofismi politici, a cura di P. Crespi, Bompiani, Milano, 1947, pagg. 165-166