BEMBO, LA NECESSITA' DI UNA NORMATIVIZZAZIONE UNITARIA DEL VOLGARE


Le “Prose della volgar lingua”, opera in tre libri, unanimemente considerata il risultato più importante dell’intera produzione artistica e scientifica di Pietro Bembo (1470-1547), si inseriscono nel cuore delle controversie cinquecentesche circa la necessità di dare alla letteratura italiana una lingua all’altezza del titolo di “letteraria”. Strutturata in forma di dialogo, l’opera bembiana (che uscirà, poi, vincente dal dibattito cui prese parte) proporrà un ideale linguistico ispirato all’aulica stabilità formale del latino classico ma nel contempo conscio di quanto la natura museale della stessa lingua latina non possa reggere il confronto con una letteratura che è ormai alla ricerca di una identità sua propria e che, quindi, necessita anche di una sua propria lingua. Nel brano che segue, tratto dal I libro delle “Prose”, Bembo osserva le motivazioni che spingono i personaggi del suo dialogo a ricercare una norma unitaria per la lingua letteraria italiana.

 

XII. Avea messer Federigo al suo ragionamento posto fine, quando il Magnifico e mio fratello, dopo alquante parole dell’uno e dell’altro fatte sopra le dette cose, s’avidero che messer Ercole, tacendo e gli occhi in una parte fermi e fissi tenendo, non gli ascoltava, ma pensava ad altro. Il quale, poco appresso riscossosi, ad essi rivolto disse “Voi avete detto non so che, che io, da nuovo pensamento soprapreso, non ho udito. Vaglia a ridire, se io di troppo non vi gravo”.

 

“Di nulla ci gravate” rispose il Magnifico “ma noi ragionavamo in onore di messer Federigo, lodando la sua diligenza posta nel vedere i provenzali componimenti, da molti non bisognevole e soverchia riputata. Ma voi di che pensavate così fissamente?”. “Io pensava” diss’egli “che se io ora, dalle cose che per messer Federigo e per voi della volgar lingua dette si sono persuaso, a scrivere volgarmente mi disponessi, sicuramente a molto strano partito mi crederei essere né saprei come spedirmene, senza far perdita da qualche canto; il che, quando io latinamente penso di scrivere, non m’aviene. Perciò che la latina lingua altro che una lingua non è, d’una sola qualità e d’una forma, con la quale tutte le italiane genti e dell’altre che italiane non sono parimente scrivono, senza differenza avere né dissomiglianza in parte alcuna questa da quella, con ciò sia cosa che tale è in Napoli la latina lingua, quale ella è in Roma e in Firenze e in Melano e in questa città e in ciascuna altra, dove ella sia in uso o molto o poco, ché in tutte medesimamente è il parlar latino d’una regola e d’una maniera; onde io a latinamente scrivere mettendomi, non potrei errare nello appigliarmi. Ma la volgare sta altramente. Perciò che ancora che le genti tutte, le quali dentro a’ termini della Italia sono comprese, favellino e ragionino volgarmente, nondimeno ad un modo volgarmente favellano i napoletani uomini, ad un altro ragionano i lombardi, ad un altro i toscani, e così per ogni popolo discorrendo, parlano tra sé diversamente tutti gli altri. E sì come le contrade, quantunque italiche sieno medesimamente tutte, hanno nondimeno tra sé diverso e differente sito ciascuna, così le favelle, come che tutte volgari si chiamino, pure tra esse molta differenza si vede essere, e molto sono dissomiglianti l’una dall’altra. Per la qual cosa, come io dissi, impacciato mi troverei, che non saperei, volendo scrivere volgarmente, tra tante forme e quasi faccie di volgari ragionamenti, a quale appigliarmi.

 

Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, I, XII