BENJAMIN, LA LUNA

 

La luce che piove dalla luna non appartiene al versante diurno del nostro esistere. Lo spazio che essa dubbiosamente rischiara sembra essere quello di una terra rivale o di una terra vicina. Non più quella terra che la luna insegue come satellite, ma essa stessa trasformata in un vassallo della luna. Il suo vasto petto, il cui respiro era il tempo, non palpita più; finalmente la creazione ha ritrovato le sue origini, e può ora nuovamente cingersi del velo vedovile che il giorno le aveva strappato. Questo mi faceva capire il pallido raggio che, facendosi strada attraverso le persiane, penetrava fino a me. Il mio sonno aveva un corso inquieto; la luna lo attraversava con il suo andare e con il suo venire. Quando c’era lei nella stanza ed io mi svegliavo, ne venivo estromesso, perché la stanza sembrava non voler ospitare nessuno all’infuori di lei.

 

La prima cosa su cui cadeva il mio sguardo erano i due lavabi color crema. Di giorno non mi capitava mai di prestarvi attenzione. Ma nel lucore lunare la striscia blu che correva lungo l’orlo dei lavabi aveva della provocazione. Sembrava voler far credere di intrecciarsi tutto in giro al bordo di un tessuto. Ed infatti l’orlo dei lavabi era increspato come l’arricciatura di un collare. Fra l’uno e l’altro si ergevano brocche panciute, fatte della stessa porcellana e ornate dello stesso motivo floreale. Quando scendevo dal letto, esse tinnivano, e questo tintinnio si comunicava lungo il ripiano di marmo del lavabo a vaschette e bacinelle, bicchieri e caraffe. Ma per quanto mi facesse piacere carpire all’atmosfera notturna un segno di vita – fosse anche solo l’eco della mia – tuttavia era un segno insidioso che, come un amico infido, attendeva il momento in cui meno me lo sarei aspettato per farsi beffe di me. E ciò avveniva quando con la mano sollevavo la caraffa per versare acqua in un bicchiere. Il gorgogliare di quest’acqua, il rumore con cui deponevo prima la caraffa e poi il bicchiere: ogni cosa suonava al mio orecchio come una ripetizione. Perché tutti i luoghi di quella terra vicaria, in cui ero rapito, sembrava che un tempo diverso dal presente li avesse già preoccupati. Sì che ogni suono e ogni istante mi venivano incontro come duplicazioni di se stessi. E dopo che io mi ero abbandonato per un po’ a questa suggestione, mi avvicinavo al mio letto pieno di paura di trovarmici già steso.

 

L’angoscia si diradava del tutto soltanto quando sentivo sotto la schiena il materasso. Allora mia assopivo. La luce della luna si dipartiva a poco a poco dalla mia stanza. E spesso questa era già immersa nell’oscurità allorché mi risvegliavo una seconda o una terza volta. Per prima la mano doveva farsi coraggio, e affacciarsi dalla trincea del sonno in cui aveva trovato riparo dal sogno. E come talvolta anche dopo la fine di un combattimento si può essere raggiunti da una pallottola vagante, così rimaneva sempre la possibilità che essa cadesse preda strada facendo di un sogno tardivo. Quando poi il tremulo lumino notturno aveva rassicurato lei e me, quel che allora restava era la constatazione che del mondo nulla più esisteva se non un solo, ostinato interrogativo. Può essere che questo interrogativo si annidasse nelle pieghe della tenda che era appesa davanti alla mia porta per difendermi dai rumori. Può darsi che non fosse che un residuo di molte notti anteriori. Infine può darsi che esso fosse l’altra faccia dell’incantesimo che la luna operava in me. Esso suonava così: perché mai esiste qualcosa nel mondo, perché esiste il mondo? Con sbigottimento mi accorgevo che niente in esso poteva autorizzarmi a pensare il mondo. Il suo non-essere non mi sarebbe risultato di un iota più problematico del suo essere, che sembrava ammiccare al non-essere. Con questo essere la luna aveva un facile gioco.

 

La mia infanzia volgeva quasi al termine, allorché finalmente la luna parve disposta a far valere anche alla luce del giorno i suoi diritti sulla terra, che altrimenti solo di notte aveva esercitato. Alta sull’orizzonte, grande, ma livida, essa si librava sopra le strade di Berlino nel cielo di un sogno. Era ancora chiaro. Mi erano attorno i miei, un po’ rigidi, come in un dagherrotipo. Solo mia sorella mancava. «Dov’è Dora?» sentii esclamare mia madre. La luna, finallora già piena in mezzo al cielo, aveva d’improvviso cominciato a dilatarsi sempre più vertiginosamente. Facendosi vicina, sempre più vicina, essa spaccò in due il pianeta. La ringhiera del balcone, su cui tutti ci eravamo affacciati verso strada, volò in mille pezzi, e i corpi che lo avevano occupato si disintegrarono ai quattro venti. Il vortice che la luna provocava avvicinandosi risucchiava ogni cosa. Nulla poteva sperare di passarvi attraverso indenne. «Se c’è dolore, ebbene non c’è Dio», mi sentii constatare, ed intanto chiamavo a raccolta tutto quello che volevo portare al di là. E tutto condensai in un verso. Era il mio commiato. «O astro e fiore, spirito e spoglia mortale, amore, dolore e tempo ed eternità». Però, nel mentre cercavo salvezza in queste parole, già ero desto. E solo ora il terrore di cui la luna mi aveva fasciato sembrò insediarsi presso di me, eterno ed irreversibile. Giacché questo risveglio non pose, come altri, termine al sogno, ma mi svelò che mai termine ci sarebbe stato e che la signoria della luna, che da bambino avevo esperito, aveva fallito il suo appuntamento col corso del tempo.

 

[in Infanzia Berlinese, traduzione di M. Bertolini Peruzzi, Einaudi, Torino 1973, pp. 118-121]