Cassirer, Spirito di sistema e spirito sistematico

Ernst Cassirer (1874-1945) sottolinea la continuità della filosofia razionalista del Seicento (in particolare quella di Descartes) con il pensiero illuminista: “La fiducia in sé della ragione non subisce alcuna scossa”. Il modo di operare della ragione, però, è oggetto di un processo di trasformazione che porta addirittura a un rovesciamento del metodo di “unificazione” delle conoscenze: mentre la “forma di sistema” nelle grandi filosofie metafisiche è imposta dall'esterno ai singoli fatti perché i “princípi” costituiscono gli “inizi del pensiero”, nell'illuminismo i “princípi” diventano “le condizioni universali, alle quali ci può avvicinare soltanto l'analisi di ciò che è dato”, attraverso un percorso fatto di risultati provvisori. La riduzione dal complesso al semplice (cioè dalla molteplicità dei fenomeni all'unità della conoscenza) presuppone una unità della realtà, ma nella consapevolezza che questa unità non è data in maniera aprioristica e assoluta alla ragione: perciò deve essere costruita, tenendo conto dei limiti della ragione stessa, tappa dopo tappa.

 

Certamente la forma di sistema non può essere impressa dal di fuori ai singoli fatti ma deve scaturire da essi stessi. I “princípi” che dobbiamo cercare dappertutto, senza i quali non è possibile alcuna conoscenza sicura in alcun campo, non sono inizi del pensiero scelti ad arbitrio e imposti all'esperienza concreta in modo da modificarla; sono invece le condizioni universali, alle quali ci può avvicinare soltanto l'analisi completa di ciò che è dato. La strada che il pensiero deve percorrere porta quindi, nella fisica allo stesso modo che nella psicologia e nella politica, dal particolare all'universale: ma questo stesso procedimento non sarebbe possibile, se ogni particolare non fosse in quanto tale subordinato a una regola universale, se l'universale non fosse fin dall'inizio racchiuso in esso e, per cosí dire, in esso “investito”. Certo, lo stesso concetto di principio rinuncia in questo modo a quel carattere assoluto che aveva preteso di avere nei grandi sistemi metafisici del secolo XVII. Si accontenta di una validità relativa; vuole indicare soltanto di volta in volta il punto di arresto, al quale il pensiero è giunto nel suo procedere, con la riserva che possa abbandonare e superare anche questo. Conformemente a questa relatività esso viene a dipendere dallo stato e dalla forma della scienza, di modo che, per esempio, la stessa tesi che in una scienza è adottata come principio, può apparire in un'altra come apparenza derivata. “Il punto in cui bisogna fermarsi esaminando i princípi di una scienza” dice d'Alembert “è determinato dalla natura di essa, vale a dire dal punto di vista sotto il quale essa contempla il suo oggetto. Io ammetto che i princípi, dai quali partiamo in questo caso, siano forse a loro volta soltanto lontanissimi dai princípi veri a noi sconosciuti, e che meriterebbero forse assai piú il nome di deduzioni che di princípi. Ma non è necessario che queste deduzioni siano in se stesse primi presupposti; basta che lo siano per noi e che si possano usare in questo senso” (d'Alembert, Encyclopédie, voce “Elementi di scienza”). La relatività qui conosciuta non nasconde deduzioni né pericoli scettici; al contrario è soltanto l'espressione del fatto che la ragione non ha nel suo costante procedere limiti fissi e insormontabili, che invece ogni fine apparentemente raggiunta può e deve costituire per lei un nuovo inizio. Da tutto ciò appare che, quando si confronta il pensiero del secolo XVIII con quello del XVII, non si trova mai tra loro una vera discordia. Il nuovo ideale della conoscenza si evolve passo passo e logicamente dalle premesse che la logica e la teoria della scienza del secolo XVII, soprattutto Descartes e Leibniz, avevano create. La diversità nella forma di pensiero non rappresenta un mutamento radicale; ma si manifesta soltanto in una specie di spostamento di accento. L'accentuazione del valore si sposta sempre piú dall'universale al particolare, dai “princípi” ai “fenomeni”. Ma la premessa fondamentale che fra i due territori non sussiste né contrasto né antitesi, bensí una pura determinazione reciproca, rimane (prescindendo dalla scepsi di Hume, la quale contiene una forma nuova e diversa di problema) in pieno vigore. La “fiducia in sé” della ragione non subisce alcuna scossa. Soprattutto il postulato unitario del razionalismo conserva tutto il suo potere sugli spiriti. Il concetto di unità e quello di scienza sono e restano puri concetti reciproci. “Tutte le scienze nel loro insieme” dice d'Alembert, ripetendo semplicemente le tesi introduttive delle cartesiane Regulae ad directionem ingenii “non sono altro che la forza del pensiero umano, la quale è sempre la stessa e rimane identica con se stessa, per quanto possano essere vari e molteplici gli oggetti dei quali si occupa”. Il secolo XVII deve l'interiore saldezza, raggiunta soprattutto nella civiltà del classicismo francese, alla logica e al rigore con cui si attenne a questo postulato di unità e lo estese su tutti i campi dello spirito e della vita. Questo postulato si impose non solo alla scienza, ma anche alla religione, alla politica, alla letteratura. Un roi, une loi, une foi (“Un re, una legge, una fede”), ecco la massima accettata da quell'epoca. Nel passaggio al secolo XVIII pare che quell'assolutismo del pensiero unitario vada perdendo la sua potenza, sia costretto a numerose limitazioni, a vari compromessi. Ma queste modificazioni e concessioni non intaccano il nocciolo del pensiero stesso. Si riconosce infatti ancora la funzione fondamentale della ragione. L'ordine razionale e il dominio razionale su ciò che è dato non sono possibili senza una severa unificazione. “Riconoscere” una molteplicità significa porne le parti in un tale rapporto che partendo da un dato punto iniziale si possano percorrere tutte secondo una norma costante e universale. Questa forma di comprensione “discorsiva” era stata posta da Descartes come norma fondamentale del sapere matematico. Ogni operazione matematica (aveva detto) tende in fondo a determinare la proporzione tra una quantità “incognita” e altre quantità già conosciute. Ora, questa proporzione può essere compresa con vero rigore solamente quando il noto e l'incognito partecipano di una “natura comune”. Entrambi, l'incognito e il noto, devono essere rappresentabili nella forma della quantità e, come quantità, acquisibili e derivabili dalla ripetizione di una medesima unità numerica. La forma discorsiva della conoscenza ha quindi sempre il carattere di riduzione: risale dal complesso al “semplice”, dall'apparente diversità all'identità su cui si basa. Il pensiero del secolo XVIII fa suo questo compito fondamentale e cerca di estenderlo su territori sempre piú vasti.

 

(E. Cassirer, La filosofia dell'illuminsmo, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pagg. 42-45)