Cassirer, Sui simboli

Ernst Cassirer (1874-1945) filosofo ed eminente storico della filosofia, è stato un sostenitore convinto dell’attualità del pensiero kantiano e della centralità per l’uomo della dimensione simbolica. In questa lettura, tratta dalla sua opera maggiore Filosofia delle forme simboliche (1923-1929), egli mette in evidenza l’importanza del simbolo nel processo della conoscenza e nel formarsi della relazione fra l’essere soggettivo e l’essere oggettivo.

 

E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, I. Die Sprache, B. Cassirer, Oxford 1923; trad., Filosofia delle forme simboliche, I, a cura di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze, 1988, pagg. 25-27

 

Nello sviluppo immanente dello spirito, l’acquisizione del simbolo costituisce sempre un primo e necessario passo per l’acquisizione della conoscenza obiettiva dell’essenza. Il simbolo costituisce per la conoscenza, per cosí dire, il primo stadio e la prima prova dell’obiettività perché, grazie a esso, per la prima volta viene offerto un punto fermo al perenne mutare del contenuto della coscienza, perché in esso viene determinato e messo in rilievo un elemento permanente. Nessun mero contenuto della coscienza ritorna come tale in una determinatezza rigorosamente identica dopo essersi dileguato ed essere stato sostituito da altri contenuti. Esso è passato per sempre riguardo a ciò che era, una volta svanito dalla coscienza. Ma a questo incessante mutare delle qualità del suo contenuto, la coscienza contrappone adesso l’unità di se stessa e della sua forma. La sua identità si dimostra realmente non in ciò che essa è o ha, ma solo in ciò che essa fa. Per mezzo del simbolo, legato a un contenuto, questo acquista in se stesso una nuova consistenza e una nuova durata. Perché al simbolo, in opposizione al reale mutarsi del contenuto singolo della coscienza, compete un determinato significato ideale, che come tale permane. Esso non è, al pari della semplice sensazione data, un fatto assolutamente singolo e irrepetibile, ma si presenta come rappresentante di una totalità, di un complesso di contenuti possibili, di fronte a ciascuno dei quali esso rappresenta quindi un primo “universale”. Nella funzione simbolica della coscienza, quale si attua nel linguaggio, nell’arte, nel mito, si elevano per la prima volta dal flusso della coscienza determinate forme fondamentali che permangono sempre uguali, in parte di natura concettuale, in parte di natura puramente intuitiva; al posto del contenuto fluente sottentra l’unità chiusa in sé e in sé permanente della forma.

Ma qui non si tratta di un mero atto singolo, ma di un processo costantemente progrediente di determinazione che dà la sua impronta all’intero sviluppo della coscienza. Nella prima fase la stabilizzazione che il contenuto viene ad avere grazie al simbolo linguistico, grazie all’immagine mitica, o artistica, non sembra oltrepassare la sua conservazione nel ricordo e quindi la sua semplice riproduzione. Il simbolo sembra quindi non aggiungere nulla al contenuto al quale si riferisce, ma conservarlo e ripeterlo semplicemente secondo la sua pura natura. Anche nella storia dello sviluppo psicologico dell’arte si è creduto di poter mostrare una fase della mera “arte mnemonica”, nella quale tutta l’attività artistica opera ancora nell’unica direzione per cui determinati tratti della cosa percepita sensibilmente vengono posti in rilievo e presentati in una immagine che il ricordo stesso si è creata. Ma quanto piú chiaramente spiccano nella loro energia specifica le singole tendenze fondamentali, tanto piú diventa evidente al tempo stesso che anche ogni apparente “produzione” ha sempre come presupposto per la coscienza una funzione originaria e autonoma. La riproducibilità del contenuto stesso è legata alla produzione di un simbolo per esso, nella quale la coscienza proceda in modo libero e autonomo. Di conseguenza anche il concetto di “ricordo” acquista un significato piú ricco e piú profondo. Per ricordare un contenuto, la coscienza deve essersene in precedenza interiormente appropriata in una maniera diversa che nella semplice sensazione o percezione. Qui non è sufficiente la mera ripetizione del dato in un altro momento, ma in essa dovrà farsi valere, al tempo stesso, un nuovo agente di comprensione e di elaborazione formale. Infatti ogni “riproduzione” del contenuto implica già una nuova fase della “riflessione”. La coscienza, già per il solo fatto che non lo coglie piú semplicemente come presente, ma se lo rappresenta come qualche cosa di passato e pur tuttavia di non svanito per essa stessa, mediante questo mutato rapporto in cui entra con esso, ha dato a sé e a esso un mutato significato ideale. E questo significato spicca ora in modo sempre piú determinato e piú ricco, quanto piú si differenzia il peculiare mondo di immagini dell’io. L’io adesso non solamente esercita un’originaria attività formatrice, ma impara anche a intenderla sempre piú profondamente. Di conseguenza i confini del mondo “soggettivo” e del mondo “obiettivo” spiccano per la prima volta in maniera chiara e netta. È uno dei compiti essenziali della critica generale della conoscenza indicare le leggi secondo le quali questa delimitazione si compie entro il campo puramente teoretico con i metodi del pensiero scientifico. Essa mostra che l’essere “soggettivo” e l’“oggettivo” non stanno fin da principio in opposizione l’uno all’altro come sfere rigidamente separate e perfettamente determinate dal punto di vista del contenuto, ma che entrambe acquistano la loro determinatezza solo nel processo della conoscenza e conformemente ai mezzi e alle condizioni di essa. Cosí la separazione categoriale tra l’“io” e il “non-io” si dimostra quale funzione efficiente, costantemente attiva del pensiero teoretico, mentre la maniera in cui questa funzione trova la sua realizzazione e in cui i contenuti dell’essere “subiettivo” e dell’“obiettivo” si limitano l’un l’altro, è diversa a seconda delle fasi conoscitive raggiunte. L’“elemento oggettivo” dell’esperienza, per la considerazione teoretico-scientifica del mondo, è costituito dai suoi elementi costanti e necessari: ma a quali contenuti venga riconosciuta questa costanza e necessità è cosa che da una parte dipende dalla generale metodologica unità di misura che il pensiero applica all’esperienza, e, dall’altra, è condizionata dallo stato attuale della conoscenza, dalla totalità della sue cognizioni accertate empiricamente e teoreticamente. La maniera in cui noi applichiamo e realizziamo l’opposizione concettuale di “soggettivo” e di “oggettivo” nell’elaborazione formale del mondo dell’esperienza, nella costruzione della natura, si dimostra, non tanto come la soluzione del problema conoscitivo, quanto invece come la compiuta espressione di esso.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. I, pagg. 287-289