Croce, Sulla rivoluzione

Il filosofo italiano osserva che in Germania il problema rivoluzionario si squilibrò verso la teoria, al contrario di quello che era avvenuto in Francia. Al termine della lettura vi è un accenno al nazismo e a Marx.

B. Croce, La storia come pensiero e come azione (1938), Laterza, Bari, 19434 , pagg. 65-73

 

Ora, in Germania, per le particolari condizioni politiche del paese, arretrate rispetto a quelle dell’Inghilterra e della Francia (e in certo qual modo anche dell’Italia, la quale era passata attraverso molteplici esperienze politiche, né le aveva del tutto dimenticate), il processo si squilibrò verso la teoria a scapito della pratica; e parve, sebbene non potesse essere e non fosse in tutto cosí, una rivoluzione di carattere esclusivamente teorico. Questa scissione del pensiero dall’azione, questa rivoluzione veramente ideale di fronte a una rivoluzione reale, fu notata da tedeschi stessi al prorompere e nel corso della rivoluzione francese, dal Baggesen, dallo Schaumann, dal Fichte, ed è lapidariamente incisa nella storia della filosofia dello Hegel con le parole: “Il nuovo principio in Germania ha fatto irruzione come spirito e concetto, e in Francia come realtà effettuale”. Il medesimo contrasto delle due correlative ma separate rivoluzioni fu reso popolare da Enrico Heine ed è ricordato in quei versi del nostro Carducci, nei quali Kant e Robespierre, “ignoti, in un desio di veritade, con opposta fé”, decapitano l’uno Dio e l’altro il re. Ma, come accade dei contrasti che l’intelletto intravede e che l’immaginazione si compiace nel ritrarre drammaticamente in modi brillanti, i termini di esso non sono esattamente enunciati, perché, veramente, con la Rivoluzione francese si esaurí nella pratica la filosofia dell’illuminismo, alla quale l’idealismo storicistico sorgeva di fronte, non già espressione teorica e filosofica di essa, ma nuovo pensiero e segno di nuovi bisogni e di una età nuova. Il Möser, a mezzo il secolo decimottavo, comparando le tre storie di Francia, d’Inghilterra e di Germania, aveva concluso che nella prima vinsero i monarchi, nella seconda i nobili e liberi, nella terza i servitori della corona (“Kronbedienten”). Il pensiero storicistico si celebrò in Germania nelle menti di uomini, devoti servitori del re e dello stato, che badavano a tener ben divise e distanti, quanto meglio potevano, speculazione e politica, e a non trarre dalla prima le conclusioni pratiche per la seconda.

Da ciò l’inefficacia o la poca efficacia civile e pratica della loro filosofia storicistica, che perse via via il generoso spirito illuministico di umanità che animava ancora lo Herder e altri pensatori del secolo innanzi e non dié alcun incentivo a quel tanto, che pure piú tardi affiorò in Germania, del movimento liberale europeo, e, turbata dalla pressione statale, turbò e corruppe alcuni dei propri concetti a servigio dello stato di fatto e dei vecchi regimi. Senza parlare delle teorie germanistiche imbastite dal Fichte, al quale formano scusa l’angoscia patriottica e l’impeto della riscossa contro l’invasore straniero, già nello Hegel si osserva questo turbamento colà dove conferisce ufficio supremo, nella storia universale, ai Germani e, nella filosofia del diritto, carattere esemplare eterno alla forma di stato in cui li vedeva composti dopo le guerre napoleoniche. L’italiano Vico si era lasciato bensí soverchiare dall’idea dei corsi e ricorsi, quasi legge di natura imposta alla storia che solo dentro di essi si moveva dinamicamente e dialetticamente, e perciò fu chiuso all’idea del progresso; ma, quantunque pover’uomo e vivente in angustie, era interiormente indipendente e filosoficamente dignitoso, e non peccò, come lo Hegel, di servilismo verso il suo popolo e il suo stato. Nondimeno, nella dottrina storica dello Hegel, i Germani rappresentano un elemento pur sempre ideale, la libertà; e fu assai peggio quando finirono col rappresentare solamente sé stessi non piú apportatori di un messaggio divino, ma bruta stirpe e razza, come è accaduto poi e accade piú che mai oggi sotto i nostri occhi. Né bisogna, per un altro verso, dimenticare che tedesco, e appartenente all’ala sinistra della tedesca scuola hegeliana, fu il Marx, che, in quella qualità e in quella scuola, quando l’interessamento fu trasportato dai contrasti politici agli economici, ideò uno storicismo teologico-materialistico, senz’altro di umanità e di libertà: il Marx, piú affine di quanto non paia al prussianesimo e al suo culto della forza brutale.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. I, pagg. 486-487